Vetiver

Vetiver & Fruit Bats @ Spazio211

19-11-2009

 

Attrattive della vecchia formula "prendi due paghi uno"… Quando ti capita di cerchiare in rosso sul calendario una data che ti permetterà di assistere ad un paio di concerti (più o meno) attesi in un sol colpo, quasi non credi sia vero. Capita di rado che musicisti senza manie da primedonne e promoter illuminati mettano a disposizione dell’appassionato scampoli di tour in coabitazione, con l’opzione di abbinamenti nient’affatto ingombranti, anzi, curiosamente ben assortiti. Capita di rado ma accade, di tanto in tanto. Ti freghi le mani già solo all’idea, quando ci siamo paghi una somma modica e accatasti soddisfazioni su soddisfazioni come pezzi di legna da ardere. Capita di rado, ma quelle poche volte si traducono in buoni ricordi quasi regolarmente. Non hai neppure il tempo di refertare il live a braccetto dei Vetiver e dei Fruit Bats che già ti si prospetta una riedizione del sugoso modello, in questo caso con un cast che promette di regalare suggestioni anche maggiori: Beach House e Midlake, a luglio. Difficile non mettere in preventivo una trasferta. Certo non tutto di queste fortunate occasioni può essere annoverato alla voce goduria, ma qui entrano in campo altre logiche ed altri fattori ed il discorso si allarga inevitabilmente, deviando da quella che è la pura e semplice componente artistica. In una serata tutto sommato entusiasmante come quella di cui qui si lascia traccia (e di cui è possibile leggere e guardare qualche istantanea direttamente dalle foto in alto), l’unico momento non all’altezza è stato quello in cui la realtà brusca dell’organizzazione ha imposto le proprie condizioni alla festosa euforia della musica. Quel bigliettino passato con mano discreta ad un allegro Eric D. Johnson dopo appena cinque brani dall’inizio del loro set scintillante, con l’invito a suonare ancora un brano per poi levarsi gentilmente dalle palle. Questo dettaglio sì, è stato sconfortante. I concerti doppi (o tripli, o quadrupli…vabbé, quelli sono i festival) garantiscono quasi immancabilmente lo schiaffo della sintesi necessaria. "Necessaria" tra virgolette, visto che l’esigenza di cui si parla è prerogativa unica di chi produce e propone lo spettacolo, non degli artisti coinvolti ed in molti casi stoppati sul più bello né tantomeno di un pubblico in palese sintonia con loro. Prendere o lasciare, quindi, e noi accettiamo a malincuore anche gli scompensi che il lusso comporta. Spiace per il trattamento riservato ai Fruit Bats, band ruminante al primissimo tour europeo dopo più di dieci anni di carriera. Band deliziosa tra le altre cose, con un affiatamento invidiabile ed un leader gentile e riservato ma al tempo stesso dotato di indubbio carisma. Solo sei canzoni per loro e quasi nessun classico dal repertorio, ma l’idea che ci siamo fatti – insieme all’arrabbiatura per questa gioia interrotta – è che meriti e fiducia siano correttamente attribuiti alla compagine di Seattle: una creatura musicale simpatica, vivace e sufficientemente consapevole di sé, un gruppo che meriterebbe spazi tutti suoi. Anche i Vetiver si sono rivelati una buona conferma. Della qualità e del songwriting già si sapeva, quel che conta è che abbiano convinto soprattutto in termini di resa emotiva. C’era non poco scetticismo alla vigilia e, va detto, i meno avvezzi a certe sonorità quiete e morbide non hanno cambiato opinione. In compenso chi è venuto in cerca di una gratificazione folk pura ed elegante ha trovato pane per i suoi denti. Andy Cabic ed i suoi compagni di viaggio hanno saputo ammaliare e coinvolgere chi di questo universo apprezza le sfumature ed il velluto, regalando anche belle sensazioni in termini di intimismo non ruffiano e calore fraterno, confidenziale. Andy poi è un ragazzo a posto, molto alla mano, uno che può rendere meno pesanti anche vecchi classici country o southern di più di quarant’anni fa. E in questa serata quasi perfetta ne abbiamo sentiti, eccome.

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Tight Knit

 

Un nuovo disco dei Vetiver a brevissima distanza da ‘Things of the Past / More of the Past’. L’esperienza della reinterpretazione di vecchi pezzi country-folk, tutti nati nell’arco di un lustro appena (a cavallo tra i sessanta e i settanta), si è rivelata una palestra importante e preziosa per la band di Andy Cabic, evidentemente a suo agio nel confrontarsi con chicche da noi praticamente sconosciute (io avevo sentito solo il pezzo di Loudon Wainwright III, senza lasciargli il cuore comunque) eppure senz’altro significative nella formazione di questo autore. Uno che è considerato inesorabilmente un minore, uno dei tantissimi, ma ha cominciato a volersi smarcare dall’ombra lunga dei trascorsi con l’ingombrante Devendra Banhart. Se i risultati erano stati veramente sorprendenti con l’album di cover, di cui ho intenzione di parlare presto in maniera più diffusa, con questo ‘Tight Knit’ si torna coi piedi per terra ma con la consapevolezza di una buona maturazione nel songwriting di Cabic, più smaliziato e disposto a rischiare qualcosa uscendo qua e là dai binari sicuri ed ovvi di un folk intimista piacevole quanto ripetitivo. C’è meno effetto sorpresa ma una buona varietà di soluzioni, compreso un finale lisergico come non ne sentivamo da un po’ (e una strana parentela col vortice di ‘A day in the life’, tanto per tornare sempre alla casa madre). Soprattutto, al di là della pregevole scioltezza compositiva di Cabic, è formidabile il senso di piacere che gli arrangiamenti di queste canzoni trasmettono: più del valore in sè di ogni brano, c’è la comoda gratificazione all’ascolto, continua, morbida, avvolgente. Sarà pure epidermica come goduria, ma è sempre meglio di un disco dei Killers.

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