My friend Blue he runs the show…

        

E così alla fine alle esigenze di sceneggiatura ci si è piegato, Scott Weiland. Da quanti anni ci giravamo intorno, parlando del personaggio? “Questo è un altro che se ne andrà prima del tempo”, era quasi un mantra negli anni d’oro del grunge, per noi ragazzini inesorabilmente accattivati dall’alone maledetto di quel plotone di rockstar sul marcio andante, unica generazione a tenere testa a quella mitologica di fine anni sessanta. Col tempo l’adagio aveva perso vigore, con Scotty caduto fisiologicamente in disgrazia, un dimenticatoio in parte meritato tra colpi di testa e rinculi espressivi, in parte fatto scontare come una pena per molti versi ingiusta, appioppatagli in qualità di inarrivabile capro espiatorio. Di recente avevo affrontato il suo ultimo album solista, la nemmeno così infame opera prima intestata ai Wildabouts, e in quell’occasione avevo scritto di lui non senza affetto come di un sopravvissuto, lasciando intendere come la sua musica fosse ormai ben poco in sintonia con il presente. E’ facile immaginare che se ne fosse accorto anche lui, prima degli altri, ma in fondo lo aveva dichiarato anche nelle ultime interviste: la voglia ridotta al lumicino, continuava a salire sul palco solo per tirare a campare, pagare le bollette, il mantenimento dei figli e gli alimenti alle ex mogli. Un tramonto speso in piccoli club di periferia – lontanissima l’eco delle arene e dei sedici milioni di copie vendute con i primi due album degli Stone Temple Pilots – che comprensibilmente gli stava proprio stretto. La causa della morte non è ancora stata rivelata, i comunicati si limitano a un laconico “decesso durante il sonno”, ma ha forse ragione chi scrive che i bookmakers la sua overdose non la quotano nemmeno.

Sarebbe il finale più triste ma anche il più scontato, e nonostante questo mi auguro si tralascino i moralismi di rito: sul suo conto se ne sono sempre dispensati ben oltre la soglia tollerabile, con tutto che Weiland non si dannava certo l’anima per apparire simpatico a forza, e in fondo poi cosa conta? Personalmente mi sento affranto, come ogni volta che se ne va un artista che in qualche modo mi ha fatto sognare. Con lui è capitato tantissimo tempo fa. Ai tempi di “Purple”, il fortunato sophomore dei Pilots uscito col cadavere di Cobain ancora caldo, nel 1994. Tre anni dopo mi sarei tinto i capelli di rosso fuoco, perché quella era la sua linea all’epoca di “Interstate Love Song”, “Vasoline” e “Lounge Fly” e, si sa, gli adolescenti sono “leggerini” quando si parla di corredi estetici. La verità è che Scott aveva tutto per piacere ai più giovani: era obiettivamente un bel tipo, il physique du role rispettava tutte le direttive, aura maudit e storiacce di droga nel suo curriculum occupavano regolarmente le posizioni più alte assieme a una voce tra le più belle di quegli anni, persino più versatile di tante altre meglio accreditate. Un po’ orco à la Layne Staley, un po’ rocker a tutto tondo, talvolta crooner raffinato con in serbo qualche squisitezza soul-retrò. Per non farsi mancare nulla, poteva vantare anche uno stuolo infinito di detrattori, i tanti che non avevano avuto alcuna remora a liquidare il gruppo come una colossale presa per i fondelli. In quel periodo gli attacchi che la critica snob riversava sui malcapitati californiani, rei di avere cavalcato l’onda grunge per bieco opportunismo – loro che erano di San Diego e non di Seattle – nemmeno si contavano. Di certo la band resta tra le più malignamente denigrate di sempre, relegata spesso e volentieri nell’angolo come una congrega di lebbrosi, e dove non arrivarono gli imbrattacarte di professione fu qualche collega burlone a eccedere nello sberleffo (come dimenticare i Pavement di “Range Life”?).

        

Ri-ascoltate oggi, canzoni come “Plush”, “Meatplow”, “Silver Gun Superman” o “Seven Caged Tigers”, tra le altre, fanno sentire pienamente a posto con la propria coscienza chi, come il sottoscritto, non ha mai prestato troppa attenzione alle malevolenze di cui sopra. Fanno ancora una porca figura tutte quante, specie se ci si sofferma a considerare lo stato nauseabondo in cui versa il rock mainstream da un buon decennio e mezzo. Meno rivoluzionari dei Nirvana, meno dannati degli Alice In Chains, meno belli dei Pearl Jam, meno cazzoni dei Mudhoney, meno tenebrosi degli Screaming Trees e meno metallici dei Soundgarden. Meno tutto quello che volete, o forse semplicemente più adatti alle classifiche di vendita, però nel mucchio gli Stone Temple Pilots ci stavano eccome, a pieno diritto. Grazie ai fratelli DeLeo, autori validissimi, ma soprattutto grazie a un frontman con i fiocchi, vocazione da performer vero e sublime faccia di bronzo, quale era Scott. Che è stato tanti interpreti in uno, trasformista all’acqua di rose (ma efficace) fuori e sensibilità multiprospettica dentro: dalla cattiveria (simulata, più che altro) dell’hard-rock al granito di “Core”, al populismo ruffianotto e irresistibile di “Purple”, dalle digressioni kitsch-pop di certi brani del controverso (sottovalutato, tanto per cambiare) “Tiny Music… Songs For The Vatican Gift Shop” alle inattese gentilezze paterne di “Shangri-la Dee Da”, passando per gli eccessi un po’ tamarri della parentesi Velvet Revolver (la matrice per le ultime cose dentro e fuori i Pilots, purtroppo) ma anche per gli squinternati slanci sperimentali di un album sfortunatissimo come l’esordio solista “12 Bar Blues”, fascinoso, avanguardista e accattone, con più di un passaggio indimenticabile (anche per merito dei produttori Daniel Lanois e Blair Lamb).

Dal vivo l’avevo intercettato solo cinque anni fa all’Alcatraz, nel tour della reunion della sua band principe: appesantito in modo preoccupante, quasi prossimo all’ennesimo licenziamento della carriera e, prevedibilmente, drogato come un cavallo. Sul filo della nostalgia canaglia, fu comunque un live intenso e divertente, mendace eppure languido nella promessa di una rinascita che non sarebbe mai venuta. In fondo ha avuto moltissimo Weiland, e tutto o quasi ha dissipato per debolezza e per scriteriata aderenza ai canoni di genere, una personale via crucis che lui ha sempre portato avanti con ostinato masochismo. A differenza di tante altre anime del medesimo circo, tormentate quanto lui se non di più, questo spreco evidente non gli è però mai stato perdonato. L’accusa di cinismo e falsità, gratuita ma immancabile nel suo caso, ha con ogni probabilità fatto lievitare un conto di per sé già salatissimo. Qualcuno, c’è da starne certi, gli avrà fatto una colpa anche per non essersi immolato ai bei tempi, per aver disatteso i pronostici infausti perché in fondo a quella pellaccia ci teneva. Beh, è oltremodo amaro da rilevare, ma l’insostenibile crepuscolo in cui sentiva d’essersi cacciato non rappresenta certo la più agevole delle vie di uscita, e la sofferenza patita nel declino lento e inesorabile, lontano dai riflettori più abbaglianti, merita comunque rispetto. Dettagli che contano poco, ora che se ne è andato anche lui. Per colpa della compagna fetente di tutta una vita o, chissà, dormendo davvero il sonno dei giusti, quasi si trattasse di un pietoso risarcimento per i troppi travagli, per le infamie reiterate e per il non essersi rivelato poi così caro agli dei: quarantotto anni, età stronzissima per congedarsi. Troppo vecchio per morire giovane, troppo giovane per morire vecchio.

Fai buon viaggio Scotty, ci mancherai.

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The Ghost of the Mountain

       

Questa è sorniona e curiosa, ma abbastanza divertente. Mi sa che in quell’agosto del 2013 non era uscito un emerito fico, se mi sono trovato costretto a scrivere dei Tired Pony. Di certo questa anti-recensione nemmeno mi ricordavo di averla scritta, ma leggerla ora mi ha regalato almeno un paio di sorrisi. A ben vedere è l’ennesima riflessione sui R.E.M., sulla loro parabola discendente, sull’uscire o meno con dignità. Ne è uscito un pezzo del tutto informale su due musicisti che ho sempre amato molto e che hanno deciso di percorrere strade completamente diverse per congedarsi dal successo. Certo, sarebbe stata l’occasione per parlare del sophomore del supergruppo guidato nominalmente da Gary Lightbody, uno che – volendo essere sinceri – non mi ha mai detto un cazzo. Nel caso di Monthlymusic questo è rimasto a lato, spunto più che marginale. Ma ho corretto un po’ il tiro su Ondarock, dove ho analizzato (si fa per dire) l’album un po’ più nel dettaglio. Dubito sinceramente ci siano fan dei Tired Pony interessati ad approfondire ma, nel caso, quell’altra analisi giace qui.
 

Ceci n’est pas un compte rendu

Una catasta di considerazioni lasciate fuori a prender aria, semmai.
Pensieri affettuosi invecchiati in fretta, nei lunghi attimi di confino tra una scintilla e l’altra.
E quando questa s’accende, eccomi ancora una volta lì, a soffermarmi su Bill e Peter. Occasioni molto rare ormai, un tempo frequenti quanto gli sguardi al calendario sul muro della mia camera, dove Mr. Berry e Mr. Buck trovavano spesso spazio in ampi ritratti giovanili. O quei loro passaggi invocati come benedizioni sul mangianastri, sul walkman, sullo stereo. Sul videoregistratore anche, dovunque mi riuscisse di raggiungerli.
Bill e Peter sono stati i prediletti in una compagnia di beniamini senza pari. Escluso Michael, certo, voce carsica e feticcio scapigliato al di fuori di ogni catalogo. Tra gli umani però c’erano loro, soldatini umili e compagni spassosi, destinati a restare intagliati nel cuore. Bill la scimmia, che sperimentò ogni sorta di droga non letale prima di legare con Mike e di regalare a me, almeno a me, un modello inarrivabile di sezione ritmica. E Peter il fratello maggiore, quello da cui farsi consigliare e prestare i dischi, quello che mai ti avrebbe bucato le palle, in senso letterale e figurato.
Del batterista trattengo con piacere la curiosità di un privilegio. Prescindendo dalle pallide comparsate di copertina per i tre veterani agli ultimi fuochi della carriera, è stato proprio lui il solo a venire immortalato sulla cover di un loro album. Lo sguardo malinconico incorniciato da quel suo sensazionale ponte ciliare e, appena sotto, un paio di bisonti virati in seppia. Spettri di una probabile estinzione dalla ricca sfilata della vita? Non è dato saperlo, ma gli incalliti dietrologi di “Abbey Road” e dello scalzo rimpiazzo di McCartney avrebbero anche potuto spenderci qualche riga, volendo.

Bill amava concedere il pass per concerti a una torma di dinosauri in plastica amici suoi, per esorcizzare forse le ombre del proprio declino artistico. Ma potrei sbagliarmi, e sarebbe Peter quello che stipava all’inverosimile i cocuzzoli degli amplificatori per far vibrare di passione triceratopi e stegosauri, finalmente alleati. Sia come sia, proprio nel potere allegorico dei grandi rettili risiede un ultimo nesso tra i due, oggi così distanti. A un estremo Bill, chiamatosi fuori al momento giusto per non privarsi dell’opportunità di una seconda vita. Da comune mortale. Da farmer in Farmington come recita Wikipedia, anche se si stenta a crederci. Dalla parte opposta Peter, che è rimasto invece fino all’ultimo e nemmeno avrebbe chiuso bottega, immagino, fosse dipeso da lui. Ha recitato con abnegazione persino commovente la parte del sopravvissuto, un po’ come i R.E.M. degli ultimi dieci anni e più, quelli senza Bill insomma. Più che interpretarla l’ha introiettata, quasi si trattasse di una missione. Con sincerità, virtù che nessuno si sognerebbe di contestargli, ma anche con patetica prevedibilità e occhi ogni giorno più tristi.

Non ha mai smesso i gilet scuri e le orribili camicie da cowboy del ragazzino lungagnone e magrissimo approdato ad Athens dalla California, quello che lavorava al negozio di dischi dalle parti dell’Università. Il fisico però non è stato altrettanto perseverante, integerrimo né collaborativo, e oggi Buck ha l’aria di un vecchio levriero afgano, mogio e appesantito. Nella band la sua chitarra aveva perso spazio e smalto in egual misura: non più il jingle-jangle byrdsiano che rese classico il marchio, né le sventagliate aggressive degli album più impegnati o la scorpacciata di tremolo ed e-bow lungo tutti i ’90. Al loro posto, una manierata controfigura del felice populismo acustico sfoggiato in quel paio d’anni di frastornante sovraesposizione planetaria – il segmento lampo “Out of Time” —> “Automatic For The People” – costretta a sgomitare oltretutto col pianoforte sempre più ruffiano di Mills e con il fluo pacchiano della sua scorta di sintetizzatori.

Ridimensionato in casa ma riluttante per carattere al capriccio polemico, Peter ha silenziato la sua bulimia di musicista insaziabile ricercando gratificazioni anche minime in un’operosa marginalità collaterale. Dai Minus 5 ai Venus 3 ai Baseball Project. Da Ken Stringfellow a Robyn Hitchcock a Steve Wynn. E dai Tuatara ai Tired Pony, sempre un gradino più in basso e sempre in compagnia del quasi-R.E.M. Scott McCaughey. Particolarmente crudele il Nomen omen dietro l’ultimo progetto, con un pony stremato al posto del baldanzoso purosangue di ieri. Dopo la discreta confessione della prima fatica – “Il posto da cui siamo scappati” – e lo sfizio di un esordio solista a cinquantasei anni suonati, arriva oggi un sophomore destinato a smorzare ulteriormente gli entusiasmi degli affezionati. Un prodotto gradevole, confezionato con garbo e attento alla calligrafia. Ma anche troppo timido e immacolato, laddove il tocco ruvido non passerebbe certo per una pretesa spropositata. Se perfino una canzone intitolata “Sangue” suona minata in partenza dall’anemia, fingere che sia tutto a posto varrà quasi quanto una medaglia olimpica del metallo più prezioso. Il grosso problema di questo “The Ghost of the Mountain” è che tutto sembra costruito per assecondare la levigata malinconia e quel tono da crooner al velluto del frontman belloccio, Gary Lightbody, col gruppo sacrificato alla stregua di una lussuosa appendice. Per Peter è lecito parlare di umiliazione, anche se lui non lo ammetterebbe neanche sotto tortura. Si limita a firmare qualche autografo con la Rickenbacker, prima di scomparire nel marasma biancorosso di coretti e organi vaporosi, intruppato senza fiatare come un beffardo Wally alla fiera sui Docks. Gli arpeggi leggendari della sua elettrica ridotti a semplici orpelli decorativi, un motivo bluastro sulla tappezzeria di un anonimo alberghetto in provincia.

Non me ne voglia Buck, se scelgo di usare contro di lui le parole del primo titolo in scaletta.
I don’t want you as a ghost.
Non abbiamo bisogno di surrogati, di riempitivi, di talenti sbiaditi e consumati. Non vogliamo anime dannate dalla beatitudine fasulla di sogni protratti troppo a lungo. L’album dei ricordi è già completo, ed è bellissimo. Quasi quanto un musicista famoso che si reinventi contadino.

Ma questa, in fin dei conti, non è nemmeno una recensione. Soltanto un cruccio personale senza alcuna impellenza. Lo scherzo di una memoria che si sia dimenticata di quanto può fare cilecca. O una preghiera senza destinatari nelle alte sfere, se preferite.
E finisce qui.

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Come in una tomba _Letture

       

Ancora Purdy. Dovete perdonarmelo, ma qualche tempo fa ho insistito parecchio con lui e i frutti si vedono ora in chiave retrospettiva. Potrei limitarmi al copiaincolla di quanto scritto recentemente, perché tanto non ci sono e temo non ci saranno mai novità di alcun rilievo sul suo conto. Aggiungo a quanto già detto una notazione: in carriera l’autore di Hicksville ha firmato diciassette romanzi, otto dei quali attendono ancora la prima edizione italiana (qualcuno da più di quarant’anni). Si pubblica di tutto oggi come oggi, non necessariamente libri di Fabio Volo. Possibile che non ci sia un pisquano che traduca testi a suo tempo anche premiati, come “On Glory’s Course” o “Eustace Chisholm and The Works”, e un pur sgalfio editore che paghi quei due euro di diritti e li pubblichi una volta per tutte? Non chiedo mica la Einaudi, la stessa che lo lanciò in Italia ma si dimenticò presto di lui. Troppi refusi nei loro testi. No, è a gente più minimal e illuminata che rivolgo questa supplica invisibile: Minimum Fax, se ci sei, torna a battere un colpo! Di “In a Shallow Grave” nella fattispecie che dire: un’altra opera a suo modo titanica e tetra oltre ogni immaginazione. Angosciante, nerissima riflessione sulla memoria e l’abbandono: temi chiave in Purdy, temi che, evidentemente, gli si sono rivolti contro come una condanna che sarebbe bene venisse convertita presto in grazia.

Sfigurato da un’esplosione nel mar della Cina meridionale, Garnet Montrose è un reduce di guerra rientrato nella sua casa sull’oceano, in Virginia, e condannato dal suo nuovo raccapricciante aspetto a un inferno in terra fatto di solitudine e rimpianto. Per passare il tempo e arginare i fantasmi del passato, l’uomo comincia a buttar giù i propri pensieri in un diario che brucerà però molto presto, tormentato – più che dalle orripilanti ferite, oramai guarite – dall’inesorabile rigore della memoria, dall’impossibilità di dimenticare, dall’efficienza di un intelletto che sembra particolarmente lucido e terso. Cicatrici, sfregi e chiazze su un corpo color “succo di more”, prigione di una mente che non può che sognare il ritorno al “caro, vecchio me stesso”, è un relitto spiaggiato su una costa desolata, indistinta, da cui spera di affrancarsi trovando nell’unico grande amore della sua adolescenza, la vedova Rance, un’insperata ragione di vita. “Più vago della nebbia, più impalpabile della notte”, vive letteralmente come in una tomba, in un limbo scurissimo, nella vuota attesa di qualcosa che certifichi e insieme legittimi la sua estraneità dal mondo dei vivi. A dargli un senso è unicamente l’ossessione della donna, che ha tutta l’intenzione di tornare a corteggiare per interposta persona. Aspro, burbero, incline a una sobria disperazione, Garnet è un “vecchio” di soli ventisei anni che si illude di essere confinato in un eterno presente privo di prospettive future, ma è in realtà schiacciato dal peso opprimente della nostalgia, dalle reminescenze di quand’era un ambitissimo giovane in piena salute e frequentava una scintillante sala da ballo ormai in abbandono, dove torna regolarmente la notte quasi fosse vittima di un antico incantesimo. Due individui rappresentano per lui il solo elemento di contatto con la realtà: il giovane nero Quintus Pearch, pagato per massaggiargli i piedi e distendergli i nervi attraverso la lettura di vecchi tomi della biblioteca di suo nonno, il cui senso sfugge tuttavia a ogni pretesa di comprensione ed è riscattato dalla rilassante musicalità delle nude parole nell’aria; e poi il giovane bianco Potter Daventry, fuggiasco dello Utah con un terribile segreto insabbiato in recenti trascorsi che paiono lontanissimi, che ha invece il compito di recapitare per lui i messaggi all’amata. Se Quintus si presenta dal primo istante come un tipo taciturno ma accorto, che “vede in trasparenza ogni cosa” e si offre come irrinunciabile garanzia pragmatica, è però con l’irrequieto e imprevedibile Daventry che si instaura il vincolo più profondo, reso quanto mai incandescente dal triangolo sentimentale che ha nella giovane vedova il suo terzo vertice e che porterà, con un implicito sconvolgimento magnetico, al rovesciamento dei poli in gioco, al ribaltamento delle regole di attrazione e repulsione in una sorta di ciclica e beffarda danza delle stagioni.

Detto dell’agenda data alle fiamme, è alle pagine di un altro diario – quello crudo e sincero della pura immaginazione – che Garnet affida i soliloqui che danno vita a “Come in una tomba”. Che è, ancora una volta nel caso di Purdy, uno stupefacente romanzo (breve) sulla memoria, inafferrabile come i pensieri all’origine del memoriale che Alma Mason non scriverà ne “Il Nipote”, inutilmente bugiarda e sempre relativa come i resoconti su “Cabot Wright”, fragilissima e prossima all’oblio come il passato dettato dal vecchio Matt Lacey al suo entusiasta assistente ne “La versione di Geremia”. Quest’ultimo accostamento non è casuale, tanti sono i possibili raccordi tra i due libri. Sembra infatti impossibile non riconoscere nel triste Montrose il calco di quell’anziano narratore, qui migliorato sin nel più infimo dei dettagli dall’autenticità dei suoi pur impulsivi ragionamenti, laddove quel protagonista pareva più che altro congelato in un comodo stereotipo letterario. Entrambi i testi si ricordano inoltre come amari poemi sull’abbandono, in ogni forma esso abbia modo di presentarsi: fisica, emotiva, umana, sociale. Non assistiamo infatti al degrado di un solo individuo rimasto “a parte”, bensì di una collettività che il progresso ha spogliato di tutto, come il desolante teatro urbano della squallida Boutflour. Nelle battute conclusive, mentre la relazione con l’aiutante bianco si fa vincolante in maniera quasi insostenibile e svela inattesi risvolti omosessuali, è proprio quest’ultimo a rappresentare l’opzione risolutiva di tutti gli squilibri, riscattando la proprietà dei Montrose dalle ipoteche che vi gravano come una scure e poi letteralmente immolandosi nel frangente di massima intensità drammatica, per rendere tangibile la guarigione del suo datore di lavoro attraverso il proprio sacrificio come in un mito degli antichi. E’ in questo finale convulso che la narrazione si fa più ostica, visionaria, vibrante, e giocoforza prende a deragliare e perde molto in concretezza finendo per apparire incerta, incoerente, persino sbrigativa. Forse Purdy intendeva mimare così la progressiva follia di un protagonista sempre più sano e sempre meno attendibile, annientato in ultimo anche nel senno (“il mio cervello alla fine scontava la vergogna e lo sfacelo del corpo”), ma lo ha fatto con una violenza brutale, nerissima, disperata, aggrappandosi in via esclusiva a un immaginario tra il catastrofico e il millenaristico (l’uragano, con corollario di oscure profezie) tanto potente quanto vago e nebuloso. L’inquietudine diventa allora sconfinata e l’intero romanzo sembra assumere a posteriori i contorni di un incubo consumato come in preda alla febbre. Che poco a poco si placa, rovesciando le prospettive: il viso di Garnet torna a essere bianco, la vedova Rance prende a fargli una corte spietata con l’aiuto di imberbi messaggeri ma lui ha perso ogni interesse e ha smesso di amarla, consumato dall’assenza di quel Daventry che ora par quasi aleggiare nella casa vuota come uno spettro.

Ancora un grande romanzo da uno scrittore difficile. Cupo, malmostoso, letteralmente rigonfio d’inquietudine, dove non tutte le promesse della prima – straordinaria – parte saranno effettivamente mantenute (avrebbe potuto essere il capolavoro di Purdy), ma i tre personaggi principali si rivelano davvero indimenticabili.
Al solito, consigliato unicamente ai lettori molto pazienti e non particolarmente in sintonia con la banalità autistica di questi tempi.

8.6/10

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I only wanted to be sixteen… and free

        

L’altra notte non riuscivo a prendere sonno. Come talvolta capita tra un volteggio e l’altro nel letto, del tutto incapace di imporre la sordina al cervello nelle sue divagazioni retrospettive e fuori orario, mi sono ritrovato non so come a pensare al 1995. Annata di dischi a loro modo memorabili, di svolte importanti mie come del rock alternativo. Forse mi ha spaventato la consapevolezza che il 1995 era venti anni fa, anche se a me sembra ancora l’altro ieri, o forse è stato l’aver visualizzato il nome del desaparecido Richey Edwards provando a immaginare il più comodo degli anniversari in tema. Lasciando quel misterioso primo febbraio e riportandomi sull’attualità del mese in corso, per provare a celebrare una ricorrenza con ancora un minimo di puntualità, mi è tornato in mente un morto certificato e non solo apparente, forse dimenticato oggi ma per il sottoscritto ancora sufficientemente “caldo”: Shannon Hoon, il frontman dei Blind Melon, scomparso il ventuno di quel mese e di quell’anno per un’overdose di non ricordo quale droga, capirai che originalità. Perché tirare fuori dal dimenticatoio una figura volente o nolente di seconda fascia, per giunta fastidiosamente prevedibile nella sua parabola di rockstar bella, maledetta e con il finale già scritto? Beh, forse perché per me questo scavezzacollo col microfono non è stato proprio uno tra i tanti. E poi perché non riesco a togliermi dalla testa, anche oggi che le sue canzoni non le ascolto praticamente da secoli, che il suo potenziale fosse davvero fuori dal comune, almeno per quei tempi, che con un’altra testa e un’altra disciplina questo ragazzo avrebbe anche potuto diventare un piccolo eroe generazionale.

Invece se ne andò da pirla durante un tour della sua band, a New Orleans, nel momento forse migliore della carriera, con la beffa di quel mese scarso di ritardo per l’iscrizione all’esclusivo club delle celebrità del rock schiattate a ventisette anni (Hendrix, Morrison, la Joplin, Brian Jones, Cobain ed il succitato Edwards, pur con il suo bel punto interrogativo) . Una popolarità già più che discreta, almeno dalle sue parti, un opportunismo evolutivo prezioso – prendere le distanze dal carrozzone grunge ormai agonizzante e reinventarsi apostolo di un’indie-rock ante-litteram, con il bonus di un pedigree roots non artefatto e ancora tutto da spendere – e a casa, non fosse abbastanza, una figlia appena nata dalla quale tornare ad amplificatori spenti. Nico Blue, la bambina, rimase invece orfana, ed è difficile immaginare che si sia mai sentita in qualche modo compensata di quella perdita dal fatto di aver prestato senza volerlo il proprio nome di battesimo al terzo album della band paterna, una raccolta di outtakes e demo in realtà, uscita postuma alcuni mesi dopo il decesso del genitore.

I Blind Melon erano spuntati dal sottobosco alt-rock quasi per caso, imbarcati da mano generosa, giusto per le lunghe chiome e le camicie a quadri di flanella, su uno dei vagoni di coda del rapido di Seattle, loro che erano tutti immigrati a Los Angeles, chi dal Mississippi, chi dalla Pennsylvania, chi – come il frontman – dall’Indiana. L’avvio si era rivelato stentato, con un EP pronto a essere pubblicato e poi inspiegabilmente abortito, ma le cose iniziarono a girare bene proprio grazie a Hoon e a una sua vecchia conoscenza dai tempi della natia Lafayette: Axl Rose, leader di quei Guns’n’Roses che all’epoca se la spassavano sulla cresta dell’onda con il loro hard-rock milionario, invitò il più giovane collega a prestare la propria voce per i cori di cinque brani nei due capitoli del fortunato “Use Your Illusion”, le celeberrime “Don’t Cry” e “November Rain” incluse. Fu un ottimo viatico pubblicitario per il gruppo, chiamato a quel punto ad accompagnare non solo le superstar californiane ma anche, nel tour di “Badmotorfinger”, una delle compagini di punta della scena grunge, i Soundgarden. Il doppio endorsement avrebbe dato presto i suoi frutti, garantendo al quintetto un contratto con la Capitol e i servigi di un produttore giovane ma già acclamato come Rick Parashar, che con Chris Cornell aveva lavorato registrando l’unico album intestato ai Temple Of The Dog, giusto due anni prima di fare il botto con “Ten” dei Pearl Jam.

Inevitabile a quel punto (e con quei riferimenti) l’apparentamento alla scena di Seattle, forzato quanto si vuole ma equivalente a una benedizione divina per quei promettenti esordienti di provincia. Il disco eponimo che ne scaturì rientrava nel genere in maniera alquanto relativa, presentando sonorità meno ulcerate e una propensione melodica molto più marcata, con concessioni a una psichedelia West Coast tardi sixties e a certe bizzarre tentazioni funk del tutto estranee al dna dei vari Mudhoney, Nirvana o Alice In Chains. Per quanto i testi di Hoon insistessero spesso sul tema della perdizione e del disagio, tanto in voga in quella fase, la musica dei Blind Melon appariva ben più spensierata e frizzante di tante altre uscite del periodo: due chitarre veloci, speziate e molto ben amalgamate, una sezione ritmica ruspante ma non cafona, registrazioni in presa diretta con scarsissimo make-up in post produzione e poi il cantato acidulo e incisivo di Shannon, spesso amplificato prospetticamente dai suoi stessi cori, a rappresentare quasi uno strumento in più nella dotazione del gruppo. Per qualche mese le vendite stentarono, ma il lancio in heavy rotation su MTV della clip di “No Rain” con la sua (fastidiosissima) bambina-ape segnò la svolta. Magari lo ricordate anche voi, nella primavera del ’93 quel video fece furore e spalancò al quintetto le porte del successo, troppo presto – evidentemente – per quel ragazzo fragile che pure riusciva a fare meraviglie con quella voce così genuina.

Io che avevo appena quattordici anni abboccai con fervore appassionato, rapito dall’appeal luminoso di questa combriccola di (apparenti) neo-hippy e dalla loro evidente armonia, la stessa che nei credits traspariva in quella illuminante dicitura, “All songs written by Blind Melon as One”, quasi si trattasse di R.E.M. più giovani. E mi andò bene, tutto sommato, meglio che con altre realtà analoghe che all’epoca, a parte l’immancabile singolo di grido, smerciavano fuffa in quantità. Sotto la crosta croccante, “Blind Melon” era invece anche ciccia, una sporca dozzina di buonissime canzoni, a basso coefficiente di originalità ma sanguigne il giusto e interpretate da un manipolo di giovani con le giuste motivazioni e la necessaria sincerità. In fin dei conti si trattava di una specie di concept sui lati oscuri e dolorosi dell’adolescenza, reso vibrante dall’onestà della prospettiva intimista, come un romanzo di formazione in forma di diario calcato dalla penna sensibile di Hoon. Detto dello smaccato populismo di “No Rain”, per paradosso (forse) l’episodio meno brillante del lotto, ricordo ancora con piacere diverse altre piccole gemme di un disco che in quei giorni letteralmente consumai: “Change”, “Deserted”, “Time” e “I Wonder” in particolare. Non esente da ingenuità dettate dall’entusiasmo e dalla baldanza, l’album si segnalava come una curiosa via di mezzo tra le istanze di rottura della scena dello stato di Washington e un rock delle radici d’impronta più chiaramente tradizionalista, un college-rock smaliziato con pur vaghe inflessioni sudiste (prima chitarra, basso e batteria erano, come detto, originari del Mississippi), andando a occupare una mattonella espressiva all’epoca ancora relativamente libera (se si ignorano i Soul Asylum) ma che di lì a poco sarebbe stata di fatto assediata, negli States come altrove (i più teatrali Live, Seven Mary Three, Collective Soul, Candlebox, For Squirrels, Lilys ma anche Wannadies e i Silverchair post-infatuazione da Cobain e soci).

Con oltre quattro milioni di copie vendute del loro esordio eponimo, i Blind Melon avevano fatto il botto. Seguì per loro un biennio di frenetica attività live e consolidamento, sempre a rimorchio di artisti ben più titolati: un’esperienza formativa importante, spesa condividendo il palco con il Lenny Kravitz di “Are You Gonna Go My Way”, con il Neil Young di “Sleep With Angels”, i Rolling Stones di “Voodoo Lounge” e poi, da fratelli, con gli Smashing Pumpkins di “Siamese Dream”, i Red Red Meat e i Porno For Pyros. I guai seri iniziarono in quel periodo, con un arresto per oltraggio al pudore (per avere orinato su un fan durante un concerto a Vancouver) e almeno un paio di ricoveri in riabilitazione da droghe per il cantante, uscito come trasformato anche nell’aspetto fisico: non più le lunghe chiome bionde e lisce, rimpiazzate da acconciature decisamente più drastiche, e immancabili apparizioni live con accorgimenti estetici inquietanti, su tutti il trucco pesante da panda a cerchiarne gli occhi (un po’ come il Richey Edwards – ancora lui! – dello stesso periodo). Fu abbastanza sconcertante, in tal senso, la partecipazione della band al festival del venticinquennale di Woodstock, nell’agosto del 1994. Sconcertante ma memorabile, proprio a causa, e insieme per merito, di un Hoon stralunato e visibilmente sotto effetto di acidi, presentatosi al pubblico con la voce lacerata, in una mise assurda (tunica bianca e sneakers, capelli agghindati con fermagli colorati) e autore di una prova tutt’altro che lucida ma commovente, per la visceralità e nel contempo la fragilità che rifletteva: un campanello d’allarme evidente, almeno letto a posteriori, che in pochi evidentemente colsero. Ci avrebbe provato il manager del quintetto, raccomandando a Shannon il sostegno di uno psicologo che venne però esonerato presto, vista l’incapacità di risolvere i cronici problemi di dipendenza del frontman.

        

Turbolenze a parte, fu una fase creativa febbrile per il gruppo, spostatosi a New Orleans per registrare al Kingsway Studio di Daniel Lanois un sophomore per forza di cose molto atteso. Prevedibilmente, i Melons avrebbero potuto limitarsi a tracopiare il canone del fortunato predecessore senza incassare recriminazioni di sorta e anzi, se possibile, consolidando ulteriormente l’alleanza con i network radiotelevisivi (emblematica la loro estemporanea cover di “Three Is A Magic Number”, dalla serie “Schoolhouse Rock!”, in seguito opzionata per la colonna sonora di una sfilza di commediole cretine tipo “Mai stata baciata” e “Tu, io e Dupree”). Decisero di prendere invece tutt’altra direzione, con un certo coraggio, anche se l’iniziativa non avrebbe pagato. Al loro fianco vollero Andy Wallace, già produttore di Rollins Band, Bad Religion e Faith No More, freschissimo di collaborazione con Jeff Buckley per l’indimenticabile “Grace” e respinsero ogni prescrizione dagli emissari della Capitol, di fatto inimicandosi la compagnia. Evidentemente ridestate dal clima culturale della Louisiana, le ascendenze sudiste di Roger Stevens, Brad Smith e Glen Graham conferirono ai nuovi brani un retrogusto ancora più verace e sanguigno, rilasciando nel contempo il guinzaglio alla spiritata verve del capobanda. Con Cobain morto e sepolto da un annetto e il punk-pop californiano di Green Day, Offspring e Rancid lanciato come nuovo fenomeno finto-alternative in vece degli stereotipati spettri grunge, i Blind Melon scelsero di sconfessare definitivamente quell’apparentamento a lungo mal sopportato e di reinventarsi nel segno di una radicale libertà espressiva e di un revival particolarmente sentito.

Ibridi rutilanti di hard-rock e funky rubacchiati all’amico Perry Farrell (“2×4”), ruvido e doloroso acid-rock affollato di fantasmi (come quello di Jackie Onassis in “Dumptruck”) o agghindato col vestitino easy-listening non senza il suo bravo velo d’inquietudine (“Galaxie”), confessioni di una mente pericolosa (il serial killer Ed Gein) tra humour nero e spigliatezza folk appalachiana (“Skinned”), frattaglie blues (“Wilt”), radiose elegie alt-country (“Vernie”, “Walk”), catatoniche ipotiposi zeppeliniane (“The Duke”), passaggi introspettivi spalancati su un baratro d’angoscia (“Toes Across The Floor”) e tirate nonsense con la bava alla bocca (“Lemonade”), il tutto incastonato entro una bislacca cornice dixieland appaltata a Kermit Ruffins e la sua Little Rascals Brass Band: quello di “Soup” era davvero il minestrone promesso dal titolo, acceso da sapori decisi, stridenti, e sufficientemente acre per non passare inosservato. D’altronde, quale altra formazione alt-rock del 1995 si sarebbe mai sognata di far risuonare in un proprio disco armonica, banjo (oggi inflazionato, ma all’epoca…), kazoo, violoncello, contrabbasso, fisarmonica, trombe, flauti e tuba? Loro sì, osarono. Una band maturata si trovava a dar fondo a tutte le proprie risorse di virtuosismo ed eccentricità, mettendosi completamente al servizio di uno Shannon ispirato come non mai.

Non ci sarebbero più stati filtri alle brutture, ai monologhi interiori chiamati a vomitare quasi con sadismo storie di dipendenze e abusi, alla faccia di quella stramaledetta, zuccherosissima, bambina obesa travestita da insetto; la morte sarebbe stata l’ospite d’onore, ma in una prospettiva adulta, una presenza da esorcizzare rituffandosi a capo chino nel proprio presente faticoso senza più dare nulla per scontato (“St. Andrew’s Fall”, che è un po’ la loro “A Day In The Life”) e, possibilmente, abbracciando ogni nuovo germoglio di vita come un’opportunità per tornare sulla retta via (la lisergica “New Life”, racconto della paternità imminente e, a conti fatti, di un’occasione rimasta solo sulla carta). Ma al tempo stesso ci sarebbe stato margine per la dolcezza, per le carezze acustiche, il ricordo da lacrime di una nonna generosa, e per più di un inciso estatico, dal duetto da brividi con l’esordiente Jena Kraus in “Mouthful Of Cavities” al sinuoso arabesco e lo spoken word liofilizzato del gioiellino “Car Seat”, così ambizioso da cannibalizzare una poesia scritta da un’antenata del cantante, Blanche Bridge, oltre un secolo prima. Il disco non si precludeva nulla in nome dell’appeal radiofonico, necessariamente sacrificato, e non ebbe alcun timore a presentarsi sotto una cappa atmosferica cupa e con un sound che, in aperta controtendenza rispetto alle ossessioni da lindore tecnico di quegli anni, abbracciava riverberi e impurità come autentiche benedizioni.

Con inettitudine e senza alcun imbarazzo, il critico di turno su Rolling Stone stroncò “Soup” perché “tradiva la band di No Rain”. Volersi evolvere rispetto ai canoni della propria canzone-mascotte diventava una colpa, non un merito. Nessun riferimento alla crescita dei cinque come musicisti e come autori, dopo trecento e passa concerti spesi fino all’ultima goccia di sudore, sera dopo sera, per migliorarsi. Il problema fu che alla Capitol la pensavano allo stesso modo e il disco non fu promosso quasi per niente. Le ultime apparizioni live del gruppo statunitense (emblematica questa per un programma televisivo, a un mese appena dall’epilogo) presentarono un Hoon rabbioso, intenso e luciferino, cartavetro nella laringe e mascara squagliato sotto gli occhi, amplificando le sinistre evocazioni già abbondantemente disseminate nei solchi dei due LP pubblicati. La strada, forse, era già segnata da tempo per un artista fragile e bipolare, ma è plausibile che delusione e disillusione abbiano avuto un ruolo nel lasciar precipitare gli eventi. Dopo un’ultima esibizione a quanto pare vissuta in stato confusionale, la mattina del ventuno ottobre del 1995, dunque, il frontman venne trovato privo di vita all’interno del tour bus. La morte, si sa, nel dorato mondo dello spettacolo vende sempre benissimo. Con Shannon Hoon, curiosamente , fece un’eccezione. Nessuno cavalcò la tragedia: non i compagni di viaggio, che da amici leali scelsero di mantenere un profilo basso e preferirono il rassegnato tramonto al cinismo degli opportunisti; non la Capitol, che da quel momento fece scendere l’oblio sui Blind Melon e si guardò bene dal pubblicizzare un album uscito in fondo soltanto un paio di mesi prima; non, infine, MTV e gli altri network, che rinunciarono in partenza alla ghiotta – dal loro punto di vista – occasione di promuovere a reti unificate un novello Kurt Cobain, evidentemente già troppo impegnati a trarre la massima resa da quel miracoloso feretro ancora caldo.

Così a Hoon fu risparmiato l’immancabile processo di deificazione, un po’ come sarebbe accaduto alla buonanima di Layne Staley, solo perché passato a miglior vita con troppo ritardo rispetto a quanto tutti si attendevano (e qualcuno sperava). “Soup” finì rapidamente nel dimenticatoio, così come il suo talentuoso, incredibile vocalist. I restanti Melons pubblicarono un’ultima raccolta, “Nico”, dedicata alla memoria dell’amico e alla di lui figliola, per la quale venne pure aperta una sottoscrizione benefica. Una manciata di demo, outtake e stramberie, pubblicate senza alcuna adulterazione produttiva in segno di rispetto nei confronti del cantante, utili a posteriori per moltiplicare a dismisura, più che altro, i rimpianti sul suo conto: buone cover da Steppenwolf (“The Pusher”) e John Lennon (“John Sinclair”), bozzetti dell’Hoon più intimo (“Life Ain’t So Shitty” e “All That I Need”), persino una filastrocca affidata da Shannon a una segreteria telefonica (“Letters From The Porcupine”) oltre alla prima canzone scritta in assoluto (“Soul One”), che la casa discografica riteneva una potenziale hit da knock-out tecnico e che loro si premurarono sempre, masochisticamente, di non far uscire mai, prima di allora.

E questo dovrebbe essere tutto, in pratica. Tralascio il poi, lo scioglimento e la reunion con nuovo frontman avvenuta una decina di anni dopo: è un’altra storia e una storia, per giunta, di cui proprio nulla mi interessa. A me restano i sedici anni cantati da Shannon in “I Wonder”, gli stessi sedici anni che avevo io quando comprai “Soup” e me ne innamorai, o quando Hoon scelse di congedarsi una volta per tutte privandomi di chissà quali e quante altre strepitose canzoni. Ecco, mi resta quel “What If…” grande come una casa e fa un male cane. Magari i Blind Melon sarebbero usciti dai radar in lenta dissolvenza, un passo falso dopo l’altro, magari no, chissà, avrebbero insistito con la strada più lunga imboccata per il difficile secondo album e sarebbero arrivati, alla fine.

Mi piace pensare che sarebbe andata proprio così: in fondo era esattamente quello che stavano facendo quando calò il sipario.

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La Versione di Geremia _Letture

       

James Purdy è stato un gigante della narrativa americana, anche se ad appena sei anni dalla sua morte sembra quasi che non sia mai esistito. Poche le tracce, specie in Italia, dove diverse sue opere non sono mai state tradotte. Quando Einaudi pubblicava “La Versione di Geremia”, il nome era ben più quotato e ogni nuova uscita non tardava più di qualche anno per essere promossa anche da noi. Poi l’oblio, fino a una modestissima riscoperta con Minimum Fax prima e Baldini Castoldi e Dalai poi, purtroppo su titoli già editi e non sugli altri. “La Versione di Geremia” dovrebbe essere uno dei suoi titoli migliori, anche se di rado ho riscontrato un’assoluta costanza qualitativa come nel caso di Purdy. Autore e romanzo difficili, comunque, pervicacemente anacronistici, tetri e lenti. Ma anche esempio di una narrativa potente, di un realismo sporco e sconfortante ancor più che in Richard Yates. Non mi sentirei di consigliarlo, a meno che non siate lettori con i controcoglioni e con una soglia di sopportazione della (presunta) noia particolarmente elevata.

Nella cittadina in disgrazia di Boutflour, lo “zio” Matthew Lacey è il classico individuo anacronistico sul quale si è ricamata un’ampia e fantasmagorica mitologia: attore di buon successo agli albori del cinema, in seguito rovinato dal demone dell’alcool, si sarebbe ritirato nella rassegnazione di quella sua città – odiata cordialmente da lui come da nessun altro – per divenirne una sorta di “capo fantasma tra i fantasmi”. L’incontro casuale con il quindicenne Geremia Cready in un giorno di tempo infame diventa l’occasione per porre le basi di un’insolita amicizia e per far sì che una storia prodigiosa abbia modo di essere raccontata e, successivamente, affidata alla memoria della pagina scritta. L’anziano e l’adolescente imbastiscono un rapporto di natura professionale davvero franco e senza fronzoli, con il primo a dettare i suoi ricordi idilliaci sul conto dell’ormai dimenticata famiglia Fergus (che in gioventù lo aveva accolto come un figlio) e il secondo a operare da puntuale amanuense. Quei resoconti su un universo e i suoi presunti eroi cancellati dal tempo non potranno che infiammare l’immaginazione di un giovane senza prospettive come Geremia, spingendolo a vivere come una missione quell’incarico di apostolo e testimone di una leggenda lontana. E nel racconto che prende così vita sotto gli occhi del lettore quasi fosse un placido sogno, con il ragazzo spossato dalle verità complementari della sua matura sorellastra Ella e del vecchio Matt, proprio quest’ultimo tende a svanire e a confondersi tra le figure di fondo, chiamate a recitare la loro parte solo di tanto in tanto ma senza mai togliere rilievo ai veri protagonisti delle vicende: in primo luogo Elvira Summerlad, donna caparbia ridotta sul lastrico dalle avventate speculazioni del marito Wilfred Fergus, poi datosi alla macchia negli stati del sud lasciando alla moglie l’incombenza di crescere tre figli senza un soldo e dovendo abbracciare alla svelta la necessità materiale di un’esistenza pragmatica quanto avvilente, lontanissima dagli agi e dalle talentuose promesse della giovinezza ma anche dalla condotta rispettabile di una donna sposata; quindi sua cognata Winifred Fergus, altro personaggio femminile imponente ed emblema di un’impronta yankee più fieramente tradizionalista, a sostenere in vece del pallido fratello le ragioni dei Fergus nel braccio di ferro a distanza con Elvira; e infine Jethro, l’enigmatico “figlio di mezzo” di quest’ultima, considerato folle e imprevedibile un po’ da tutti a causa di un gravissimo incidente patito in tenera età, che lo ha reso di fatto assai più sensibile e tormentato non solo dei suoi coetanei ma di tutta la meschina umanità in scena in questi States di provincia negli anni della Grande Guerra.

La “Versione di Geremia” non è altro che la messa in scena asciutta e priva di clamori di una tragedia senza morti ma con tante vittime, la cui illustrazione in un passato distante e non più replicabile è curata da Purdy con verità sbalorditiva, cogliendo sfumature marginali nell’intimo dei suoi soggetti e nelle difficoltose relazioni costruite tra di loro, oltreché evitando fermamente ogni forma di forzatura teatrale o di implicazione moralistica per non influenzare l’interpretazione di chi legge. Un tetro, sudicio realismo prevale sempre e comunque sul dramma, come nei pochi litigi corali con al centro le due donne forti e apertamente, lealmente, rivali, e soprattutto nella prolungata ordinarietà del loro scontro a distanza: silenzioso, strisciante e inesorabile logorio, con le austere cadenze di uno stillicidio. Inevitabile con queste premesse una narrazione lenta e anti-spettacolare, che si alimenti di minimi scarti emotivi o psicologici e possa risultare tediosa, snervante, ostica. Purdy fa ricorso con polso fermo a tutta la sua maestria di romanziere asettico, distaccato, trasparente, ma non manca di offrire riflessioni non banali sull’animo umano, sulle sofferenze causate dai legami o dalla loro mancanza, e sulla vacuità di sogni spazzati via in maniera impassibile dalla gelida impassibilità del reale. Nondimeno si percepisce comunque la presenza dell’autore, nella figura del giovane testimone Geremia e nella di lui identificazione negli scomodi panni dello sventurato Jethro, il cui diario senza filtri (letto per caso dal padre e dalla zia) si rivelerà sconvolgente per come mostri in tutta la sua brutalità la natura di esseri umani che bruciano nella convinzione ostile e fasulla della propria rispettabilità. Attraverso il suo volto reso disumano dalle fattezze del capro espiatorio, scopriamo per paradosso la purezza del più umano e disincantato tra i personaggi del testo, annientato dall’affetto opprimente della figura materna fino a progettarne la morte per emanciparsi, e consumato dalla consapevolezza di non serbare vero odio nei riguardi di un padre egoista e latitante, simbolo estremo del più sconfinato dei fallimenti esistenziali. Come lui e come Geremia, per estensione, anche il lettore non ha modo di schierarsi per un’aperta condanna nei confronti di alcun personaggio in scena, e non può che limitarsi a contemplare con il giusto distacco il ritratto di un mondo condannato all’oblio, nella sua flemmatica dissolvenza verso il silenzio. Un grande romanzo sui fantasmi chimerici della libertà, sulla solitudine cui siamo destinati anche senza volerlo (e anche quando tutto sembrerebbe negarle asilo), oltre che sulla fragile sostanza della memoria, individuale e condivisa. Richiede una buona dose di pazienza ma sa ripagare chi non intenda gettare la spugna.

8.4/10

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Sticky Wickets

       

In questo momento sul mio PC scorrono le note di “Play This Intimately (As If Among Friends)”, che è il nuovo album di una band di nome Pugwash. Mai sentita nominare? Non preoccupatevi, siete la stragrande maggioranza del campione e, no, a meno che non siate patiti del retro-pop raffinatissimo anni ’70 – zona ELO per intenderci, con pesanti inflessioni à la McCartney – non vi siete persi nulla di così indispensabile. La vostra risposta implica comunque che vi siano sfuggiti del tutto i due dischi usciti negli anni scorsi sotto la ragione sociale “The Duckworth Lewis Method”, e qui la mancanza si fa un briciolo più seria visto che quello era il progetto parallelo di un idolo in analoghi territori, il Neil Hannon che ha regalato meraviglie nelle ultime due decadi sotto le spoglie dei/di Divine Comedy. Qui rispolvero il sophomore dell’avventura che il favoloso dandy nordirlandese ha condiviso con il paffuto frontman dei Pugwash, appunto. Non essendoci novità di rilievo sul conto di Hannon, non pare da buttar via questa del capitolo sesto della discografia degli irlandesi, al netto delle raccolte compilative. Se voleste rimediare riguardo al progetto condiviso, il  pezzo che segue su “Sticky Wickets” potrà senz’altro esservi d’aiuto, se non altro perché dovrebbe aiutarvi all’istante a capire se soffriate di orticaria a contatto con certe sonorità. Qualora foste immuni e abbiate passato senza intoppi anche l’ascolto, sappiate che il disco dei Pugwash esplora per l’ennesima volta i medesimi registri, solo con più equilibrio e meno amenità scherzose. Potrebbe fare al caso vostro, chissà. Io non ne scriverò prima di un mesetto, comunque. 
 

Più Bruno Schulz che Witold Gombrowicz. Più Bruno Schulz che Stanislaw Witkiewicz.

L’arte del perdersi nella forma prevale, rendendo accessorio lo spareggio per la piazza d’onore. Nella canzone d’autore di oggi torna la moda dei pazzi annegati, e poco importa se il ribellismo e la disperazione delle seconde scelte varrebbero vendite assai migliori. Per delucidazioni rivolgersi a Luke Haines e Cathal Coughland, genitori scriteriati di tante band di qualche successo (Auteurs, Black Box Recorder, Microdisney e Fatima Mansions), approdati lo scorso anno al progetto monstre dei North Sea Scrolls, condiviso nel segno d’una superba follia revisionista. Super-concept prima che supergruppo, nutrito da elefantiaca grandeur dada, impeccabile humour british e finezza narrativa che sarebbe riduttivo definire d’altri tempi. Prima di loro un azzardo simile era già stato tentato da un’altra coppia di colleghi dalle smodate inclinazioni letterarie, seppur esercitate su terreni prossimi più alla farsa che alla libera astrazione surrealista. Neil Hannon e James Walsh, ovvero i Divine Comedy e gli assai meno noti Pugwash, in una festosa joint venture Irlanda del Nord / Irlanda tout court promossa per celebrare il mito senza tempo del cricket. Tema alquanto insolito in ambito musicale, e tuttavia già cantato dai 10cc di “Dreadlock Holiday” come dal Roy Harper di “When an Old Cricketer Leaves the Crease”.

I Duckworth Lewis Method – questo il nome della bizzarra accoppiata – sono andati però molto al di là del nostalgico e sterile tributo. Hanno sublimato una semplice passione in qualcosa che rasenta l’esperienza mistica, tra slanci d’entusiasmo bambinesco e plateale nozionismo da maniaci. Nel loro incredibile album eponimo, appena quattro anni fa, si respirava l’aria frizzante dei trivia. Aneddoti a profusione, curiosità celate tra le righe in ogni strofa, così da trasporre specifiche e regole secolari in un’inesauribile fonte di metafore già pronte all’uso, filtro nella lettura del presente e patrimonio tascabile di natura quasi filosofica. Due cantori dalle parti della Village Green Preservation Society, insomma, ostinati nella salvaguardia di un mondo sopravvissuto a tutta una sfilza di rivoluzioni sotto le spoglie del dorato anacronismo. Giunti a un passo dall’aggiudicarsi il premio Ivor Novello, il minuto dandy biondo e il suo pacioso sodale hanno brigato parecchio per smentire una critica che troppo seriamente li aveva recepiti, spiegando apertis verbis che di un episodio estemporaneo si sarebbe trattato, con seguiti improbabili e comunque non più prossimi di un paio di decadi. Un successore tanto precoce, in perfetto orario per le Ashes Series di questo 2013, attesta impietoso che sotto quel paio di poderosi mustacchi e favoriti demodé dovevano ridersela proprio di gusto, gli impostori manigoldi.

E rieccoli, dunque, calati nei loro bei costumi di scena da avventurieri all’equatore. Intenti a vergare con pugno sicuro cronache da un lontano impero di cui non restano che pallidi ricordi, diligentemente idealizzati. Alla maniera degli spiriti affini North Sea Scrolls, brandiscono l’iperbole kitsch quasi fosse una spada d’audace foggia, sposando l’eleganza delle atmosfere oniriche con lazzi e smargiassate di bassa lega. L’elitario incontra il popolare per regalarsi una sbornia con tutti i crismi, magari nell’attimo stesso in cui si racconta il malinconico trapasso di una sobrietà ormai inservibile. E’ il caso di ‘The Umpire’ e del fascinoso soft focus adottato con mano scaltra dal crooner di Londonderry, direttore della fotografia in fissa per le suggestioni umide, il lirismo rigoglioso e quel tocco di ineffabile decadentismo esposto in bella mostra, là sulla mensola più alta: Just a relic of yesterday, ovvero come un giudice di gara soppiantato dalla tecnologia possa farsi paradigma di un’inadeguatezza più universale, disincantata, strisciante. E’ la stessa regia a evocare con grazia i fantasmi dell’era coloniale e a curare il catalogo di esotismi sinfonici nel gustoso pastiche dedicato a Shahid Afridi, stella pakistana che per il cricket odierno dovrebbe valere quanto Pelé o Maradona nel calcio di ieri.

Hannon è decisamente in parte e si da pena per dimostrarlo. Soltanto quei suoi occhi svelti e volpini restano fuori inquadratura, ma li si intuisce. Mattatore ben più che nell’esordio, affida al compagno ruoli significativi solo nei frangenti in cui un brio à la McCartney non suoni sfrontato: una ‘Third Man’ che in tema d’esagerazioni è ben piazzata, visto il cammeo con spoken word per Harry Potter in persona, e quella ‘Out in the Middle’ che sembra riesumare il Paul sbarazzino della lunga parentesi Wings. Mentre par quasi di sentire Linda ai cori, nelle retrovie, il mimetismo espressivo approda a esiti davvero sensazionali, plasmando un fedelissimo calco vintage dei tardi seventies con tanto di turgida chitarra addetta alle precisazioni calligrafiche. Quando già ci si è incamminati verso la conclusione, riammiriamo in ‘Judd’s Paradox’ gli estenuati tramonti dei Divine Comedy di “Victory For the Comic Muse”. Neil quieta le acque con la necessaria perizia, per offrire poi il meglio del repertorio in quelle sue inconfondibili pose estatiche, da contemplativo vagheggino di casta superiore. Gli “Sticky Wickets” cui allude la raccolta sono i campi da gioco di difficile praticabilità e, per estensione nel figurato, tutte le circostanze amletiche o disagevoli in cui ci si trovi coinvolti in quel gioco ben più arduo che è la vita. Nella categoria rientra per forza anche il paradosso che presta il titolo all’episodio ed è affidato all’aspro recitativo dell’inglesissimo attore Stephen Fry: il conflitto intimo tra la gioia dell’atto ludico in sé e le implicazioni meno lusinghiere che questo sport si porta dietro in quanto simbolo di una violenta prevaricazione culturale.

Chiedersi quale delle due anime abbia la meglio al termine della fiera suonerà come il più futile degli esercizi retorici, considerati stoffa e trascorsi degli interpreti. L’impronta di massima resta quella delle silly songs impregnate di pungente arguzia, e con una cover goliardica come questa dello striker d’annata sul bel pitch immacolato non potrebbe essere altrimenti. I momenti di pura ilarità non si contano. Dal divertissement sovraccarico che apre le danze in un clima di lussureggiante eclettismo pop anni ’70 (il medesimo – marca Electric Light Orchestra – già sfoggiato nel precedente inning) e strizza l’occhio a “Sticky Fingers” degli Stones, alle vaghe reminescenze dei Kinks di “Arthur” nell’eccentrico e squillante vaudeville intestato ai “gaudenti cavalieri”, un po’ marcetta e un po’ provocazione guascona à la Monty Python. Neil recita senza fallo nei panni del professore di facezia, tra vertiginosi scioglilingua con tastierina in accompagnamento (‘Mystery Man’), spacconate electro-funk circa primi ’80 (‘Line and Lenght’) e toni da frivolo circo equestre stile “Bang Goes the Knighthood” opportunamente rispolverati (‘It’s Just Not Cricket’). Il Duckworth Lewis Method della ragione sociale non è altro che l’astrusa modalità di calcolo dei punteggi finali nelle partite interrotte da un clima particolarmente bizzoso. Di tutti questi arzigogoli nell’omonima brigata a due non vi è però traccia, tranne forse quell’implicita ironia di fondo che ogni sproposito tende a portare con sé.

Quella di Hannon e Walsh è musica da sole splendente. Che non si fa scrupoli quando si tratta di condurci a bella posta in una dimensione altra, immaginaria. E che bissa con profitto i registri ampollosi e fiabeschi dei Magnetic Fields di “Realism”, nei suoni l’aura ovattata di un sofisticato balocco, di una giostra, di tanta magia vittoriana. La costruzione ossessiva e ritornante dell’interminabile sfilata d’ospiti (Neil Finn e Carl Barât, tra gli altri) che chiude il disco può riportare alla mente quella della vecchia “The Booklovers”, e non per caso. Incastonata nel ciondolante motivetto riproposto fino alla nausea, risplende infatti un’altra perla identitaria che vale l’intera posta: “We don’t want to be superstars / cause that’s not really who we are”.
Neghiamo loro le colorate architetture di quel pretesto concettuale e avremo solo – si fa per dire – due splendidi esemplari di pazzi contemporanei.
Umanissimi, serafici, sorridenti.
Rigorosamente sommersi.

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Gli Artisti della Memoria _Letture

       

Avete presente quei vecchi videogame da sala giochi, con gare automobilistiche in cui la permanenza in pista era vincolata dal passaggio attraverso determinati “cancelli” a tempo? Bene, questo (ex)blog sembra essersi ridotto ormai a nulla più che questo. Ogni mese un pezzo di recupero su un libro o un disco di attualità pressoché nulla, caricato sempre più a ridosso della mezzanotte del 31. Mi ero posto come condizione essenziale che se un determinato mese non avessi pubblicato nulla avrei chiuso baracca e burattini. Beh, è evidente che ci siamo quasi e la corsa sta per finire. Il cancello di luglio 2015 passa per il rotto della cuffia, e solo grazie a un romanzetto senza troppe pretese di Jeffrey Moore, autore canadese che aveva fatto un lavoro discreto con l’esordio, “Una Catena di Rose”, ma che con questo “Gli Artisti della Memoria” sostanzialmente delude le aspettative. Ad ogni conto, anche stavolta qualche spunto buono non manca, a cominciare dalla vivacità (almeno quella) dell’intreccio per concludersi ai numerosi rimandi a pittori simbolisti inglesi. Io ho cercato le loro opere qui menzionate – per lo più dedicate a giovani fanciulle affogate – su google immagini e ammetto di essere rimasto piacevolmente colpito in più di un caso.

Noel Burun presenta sin dall’infanzia i tratti tipici del vero genio. Educato già in tenera età a privilegiare l’arte e il bello nella loro forma più compiuta – la poesia, “zenit della creatività – ha ricevuto in eredità dai suoi avi una memoria assolutamente prodigiosa, accompagnata però dal pesante fardello collaterale di una complessa sensitività sinestetica, una distrazione “in scala di colori” dalla realtà, alquanto limitante e non certo agevole da contrastare. Grazie all’aiuto di un controverso neuropsicologo, il professore svizzero Emile Vorta, la sua faticosa quotidianità sembra stabilizzarsi su uno standard di accettabile compromesso, nell’illusione sfuggente che la sua singolarità possa davvero riassorbirsi. Così almeno lo ritroviamo, dopo un cappello introduttivo che ce lo ha presentato bambino prodigio, nei panni di un trentenne riservato e intelligente, non esattamente schiacciato dalla tirannia dei suoi talenti, e alle prese, più che altro, con problemi dolorosi nella loro ordinaria quotidianità, su tutti l’Alzheimer che sta minando un po’ alla volta le facoltà cognitive dell’adorata madre Stella. Siamo così invitati a seguire (senza troppa passione, in realtà) quella che è la sua rincorsa, di pochi mesi appena, per trovare il giusto rimedio sperimentale alla malattia materna, per conquistare un’insperata normalità che annulli come d’incanto tutti gli ostacoli, e per far breccia nel cuore della bella Samira, non meno indecisa negli affetti del personaggio da lei interpretato al cinema in “Una sposa per tre sposi”, sotto il misterioso pseudonimo di Heliodora Locke. Accanto a lui, un ristretto team di giovani dallo scintillante intelletto, idealmente capitanato dal gelido (e insopportabile) dandy saccente Norval Blaquiere, duro come il granito e in apparenza spietato nelle relazioni con il gentil sesso, per cercare di dimenticare in verità una pagina tristissima del suo passato.

Se nel delicato rapporto tra Noel e Stella traspare la grazia, quella gentilezza à la Coupland che è per definizione nelle corde di Moore, è innegabile che “Gli Artisti della Memoria” si conceda qualche scivolone di troppo in una banalità buonista abbastanza fastidiosa, mentre la presunta straordinarietà del protagonista è annacquata per esigenze pratiche e di copione (per favorire l’identificazione nel lettore, ad esempio) in un carattere d’intelligenza non così estrema o problematica. La narrazione è inframmezzata da stralci del “diario sinestetico” di Noel – effrazioni letterarie suggestive e in fondo funzionali – e da quelli più tangibili di sua madre (cronache del disagio di una mente alla deriva), di Norval (una dettagliata tassonomia delle proprie conquiste carnali, manifesto di quell’arte “esecutiva” denominata “Alpha Bet”, da lui praticata per scommessa come narcisistico atto di ribellione) e della fragile Samira. Se il romanzo si avvantaggia in questo modo di una vivacità innegabile, movimentato dal flusso discontinuo come da una colorata polifonia multiprospettica in stile Rashomon, questi stessi espedienti sono sviluppati in maniera prevedibile e rischiano di risultare troppo “facili” per un lettore smaliziato ed esigente.

Dopo il lieve ma assai brillante “Una Catena di Rose”, questa volta Jeffrey Moore non riesce altrettanto convincente e tende a deludere proprio in quelle che dovrebbero essere le migliori qualità della sua scrittura: la toccante umanità, la leggerezza concreta, realistica, una resa psicologica semplice ma opportunamente sfumata. Qui si sconfina spesso e volentieri nella melassa (emblematici i tarallucci e il vino del finale – con l’amaro calice riservato al solo amico/antagonista), nulla di quanto narrato è anche solo lontanamente credibile e i personaggi sono pretenziosi, tagliati con l’accetta, e non mancano i passaggi a vuoto (tipo il resoconto postumo su Vorta affidato ai ritagli di giornale). Se i due protagonisti faticano terribilmente a risultare credibili (e, in sostanza, falliscono), l’asticella dell’intrattenimento si alza in via esclusiva quando è Jean Jacques “JJ” Yelle a rubare la scena, campione spumeggiante di stravaganza e auto-deprezzamento, inventore, scrittore, umorista fallito quanto indefesso, erborista, alchimista, “celestiale idealista”, sorta di idiot savant che funziona come valido contraltare al razionalismo poco entusiasmante – “Cieco al miracolo” – di Noel e si trasforma in un megafono ideale per l’irriducibile ottimismo dell’autore canadese.

Il consueto profluvio di citazioni dispensate ad ampio raggio (da Primo Levi a Baudelaire, da “Le mille e una notte” ai pittori simbolisti inglesi di fine ‘800) riscatta soltanto in parte i limiti di un testo troppo forzato per riuscire avvincente.

6.3/10

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Tales Of A Grass Widow

       

L’ho riletto e lo posto volentieri questo pezzo sulle Cocorosie. Che è poi anche, in parte, un pezzo su come la critica le abbia sempre affrontate in maniera deleteria, nelle lodi spropositate ai tempi del graziosissimo esordio “La Maison de Mon Rêve” come negli impietosi attacchi che vennero con i successivi lavori, non certo entusiasmanti ma nemmeno causa di ogni male sulla Terra. Io le guardavo con indubbia simpatia all’inizio. Le incrociai quasi senza conoscerle undici anni fa al Café Procope, quando stavano per esplodere come fenomeno underground, e ne rimasi affascinato. Le ritrovai a stretto giro di posta all’Hiroshima, il salto già fatto ma ancora genuine come prima di emergere. Poi le ho seguite solo su disco, apprezzamenti sempre più freddini ma senza affondarle con bordate. Gli album, non sempre nuovi, devo averglieli comprati praticamente tutti, perché quella scorta di affetto non si è mai esaurita e poi un pugno di buone canzoni sapevo che ce le avrei trovate. Ma quando le ho riviste in tempi più recenti (si fa per dire, saranno quattro o cinque anni) mi hanno fatto – lo dico senza mezzi termini – francamente cagare: un carrozzone trash e kitsch ormai ripetitivo, tirato in burla, tirato all’eccesso, prendendosi per giunta un po’ troppo sul serio. Pensavo di averci messo una croce sopra e amen, un ricordo tra gli altri di quando la mia vita universitaria era agli sgoccioli. Poi mi sono imbattuto in questo loro quinto LP e l’effetto madeleine è stato apprezzabile. La leggerezza di un tempo, là dove mai più avrei sperato di ritrovarla. Spiace non averlo potuto promuovere abbastanza, e spiace essermi perso la prenotazione su Ondarock fregato sul tempo da quel provocatore da due soldi che rispondeva al nome di Giorgio Moltisanti, e che di lì a breve sarebbe stato giustamente espulso con ignominia dalla webzine. L’unica testimonianza che mi resta di questo pur blando ritorno di fiamma è allora l’affettuoso ritratto affidato a suo tempo alle pagine di Monthlymusic. E’ passato del tempo, chissà che non sia pronto, magari, un nuovo capitolo del loro (comunque avvincente) romanzo…
 
 

I once fell in love with you
just because the sky
turned from grey into blue

Una favola raccontata fino allo sfinimento può sbiadire.
Se le fandonie si consolidano replica dopo replica, così da riciclarsi in verità anabolizzate, la parabola imbevuta di magia allo stesso peso del piombo rischia di sfarinarsi in una sterile processione di parole, e amen.
Di troppo incanto ci si ammala.
Chi lo accoglie con scetticismo può soffrire d’invidia, chi lo emana senza criterio è quasi condannato a dissiparlo. Così almeno è capitato alle sorelle Sierra e Bianca Casady – i nomignoli Rosie e Coco direttamente nel nostro apologo dal cuore di mamma – estro puro nel dilapidare un patrimonio di meraviglia pressoché sterminato.

Una vicenda, la loro, della quale era difficile non innamorarsi. Separate giovanissime dopo un’infanzia raminga in compagnia della madre, layered drink di sangue siriano e cherokee, le estati trascorse alla mercé di un padre scopertosi hippie con qualche lustro di ritardo, sballottate tra questa e quella riserva indiana alla ricerca di rivelazioni sciamaniche che sarebbero giunte, notevole opportunismo, solo nei giorni della loro bieca rivincita imprenditoriale. Quindi l’ellissi durata quasi dieci anni: Sierra a Parigi con sogni da soprano, Bianca intenta a prorogare a oltranza il suo ondivago presente di scapestrata fuoricorso. E poi quel ritrovarsi nemmeno preventivato in un appartamento a Montmartre, terribile estate canicolare 2003, con la promessa di non dividersi più. Quel disco partorito per gioco nella vasca da bagno quasi fosse un figlio indesiderato, in fondo, primo vagito dei loro talenti sin lì celati a chiunque. Sorelle e madri e levatrici le Cocorosie, l’una per l’altra, incapaci di custodire il segreto più a lungo d’un batter d’ali. Il nastro nelle mani dell’amico giusto valse l’imbucata in coda all’ultimo convoglio dell’espresso truffa, il famigerato prewar-folk, nel suo tragitto inaugurale e conclusivo su uno splendente binario morto. A legittimare l’apparentamento furono sufficienti la chitarra di Sierra, affogata senza sadismi nella bassa fedeltà che ai tempi vendeva ancora assai bene, oltre a quell’irresistibile weirdness ludica, fotografia fedele e insieme segno particolare sul documento d’identità del duo.

Si trattò di un miracolo autentico, di quelli che baciano in fronte i principianti mentre attorno è tutto un sollazzo. Imbandito senza star troppo lì a favellare, offrendo l’intera esclusiva alla propria amatoriale e sconfinata stravaganza. Proto-beat pulciosi, chincaglieria assortita, campionamenti da battaglia, strumenti giocattolo possibilmente rotti o scordati, effrazioni gospel e l’immancabile pizzico di pseudofilosofia, molto ben smerciata nel loro caso. Fu allora che le incrociammo in un piccolo caffè in centro città, passaparola carbonaro ormai prossimo a lasciare il campo alla gloria internettiana con i relativi crismi, elettricità da infatuazione sospesa nell’aria e volti ancora quasi puliti: appena una lacrima posticcia su quello di Sierra, e baffetti alla Dalì per una Bianca già stregata dal suo bel Devendra.
Momento irripetibile.

Non durò, infatti. Infastidita dal genio elusivo di chi non vuol saperne di lasciarsi blindare da un’etichetta, innervosita dal suo stesso irrazionale entusiasmo della prima ora, la critica promise di sconfessare quello che andava per forza ripensato come un equivoco e giurò loro vendetta. La schizofrenia degli imbrattacarte, occorre dirlo, contagiò in negativo anche le sorelline venute dagli States. Troppo fragili, quando per eccessiva ingenuità si limitarono a tracopiare le linee variopinte dell’esordio e vennero messe in croce per l’innocuo cattivo gusto di una copertina. O troppo spavalde, quando al giro successivo confusero presunzione e coraggio inzaccherando con una certa strafottenza alcuni validi spunti nel peggior pantano break-beat, jungle o trip-hop. Drogate dal bisogno di stupire sempre e comunque, attente al mood e a un esotismo atrocemente artefatto, maniache dello stile per lo stile e distratte da una miriade di stimoli extramusicali, le Cocorosie si sono trasformate in una macchina da guerra pacchiana, quando non grottesca, capro espiatorio perfetto per gli spacciatori d’hype con troppe tardive riserve sul loro conto. Il risultato? Album massacrati ben al di là degli effettivi demeriti, antipatia rimarcata con enfasi crudele, e un circo barnum a rimorchio sempre più avaro di emozioni sincere. Incontrate dopo anni sul cammino, abbiamo dubitato seriamente delle nostre facoltà nel ricordare. Fattucchiere da strapazzo invece delle fate d’un tempo, una triste idea di teatro spacciata per arte a zavorrarle in scena, e tutta la poesia di ieri come dispersa, evaporata.

Le avremmo dimenticate volentieri come ogni bella storia finita male. Con il superfluo corollario dell’inevitabile linea di moda, il make-up osceno delle ultime incursioni o l’avant-pop collaterale dei trascurabili Metallic Falcons, non fosse intervenuto a dissuaderci questo nuovo ‘Tales of Grass Widow’, il disco meno temerario e arrogante di tutta la loro carriera. Gli sconsiderati che delle Casady avevano venerato più di tutto quell’involuzione paurosa ora storcono il naso. Noi che le guardavamo con simpatia all’inizio, accenniamo un sorriso. Bentornata gentilezza, possiamo dirlo. Di tutte le strambe ideazioni affastellate negli anni per raggranellare altri denari dai fanatici gonzi, l’unico estraneo a scopi lucrosi – il collettivo Future Feminists – sembra esser stato il più sensato. Quest’album nasce come implicito megafono alla sua mission. “Dalla parte delle bambine”, avrebbe potuto esserne il sottotitolo, come il celebre saggio di una grande pedagogista italiana. E a guardar bene, di un pur anomalo concept si tratta, indagine sulla solitudine delle più deboli tra i deboli, vittime di abusi in contesti retrogradi obbligate ad aggrapparsi con disperazione a una realtà trasfigurata per necessità. Protagoniste tante piccole, cresciute come loro con la sola stella polare di una prospettiva escapista. Così la sposa di cinque anni che si consola guardando crescere libera l’erba fuori dalla sua finestra, così la bimba rinfrancata dalla compagnia dello sparviero o la ragazzina che affida all’anziana necrofora il suo amore negato, affinché sia custodito in santa pace dalla terra. Un filo conduttore forte, quindi, che ha costretto Coco e Rosie a disfarsi dell’estremismo da galleria d’arte per perseguire il fine a lungo trascurato della leggerezza.

Torna in auge il registro fiabesco ed è un porto sicuro, al pari dell’ennesima ospitata strappacuori per l’usignolo Antony, una Madre Natura buona e opulenta questa volta. Le suggestioni si assottigliano. Le atmosfere in sottofondo guadagnano crediti. Non di rado le sollecitazioni rasentano il glitch-pop e accarezzano l’epidermide senza graffiarla. Non hanno rinunciato al loro mentore islandese Valgeir Sigurðsson le Cocorosie, né alla smisurata dotazione di cliché adoperati con lui quando registrarono il controverso “The Adventures of Ghosthorse and Stillborn”: il tono mesto del pianoforte, i gorgoglii sintetici, i bjorkismi di Bianca e le velleità da melomane di Sierra. Il tutto è gestito con quel polso che all’epoca era mancato e che ora rende gradevole persino il romanticismo affettato nella malmostosa interpretazione della più giovane, evidentemente qualcosa di inestirpabile. I contrasti rimangono il loro pane, e lo stesso vale per la destrezza nel proporre refrain tanto elementari quanto micidiali. Poi certo, se i ghirigori celestiali di Rosie saranno traviati dal consueto pastone rap di Coco o dal pencolante rumorismo dell’amico Tez, non si potrà che concludere che è sempre di kitsch che si sta parlando, e non potrebbe essere altrimenti. Ma la misura nel pastiche stavolta è corretta, l’amalgama funziona, le frattaglie elettroniche non prevaricano come bulli di rione e le smargiassate restano un ricordo da mettere sotto teca, da affidare all’oblio di una ghost track tenuta opportunamente fuori mano. La voce adulta di Sierra e quella da bimbetta capricciosa di Bianca, due anime che tornano a fondersi in maniera armonica. Incontro e non scontro, voglia di far breccia con l’intatta naturalezza di quel torrido agosto in un bagno parigino. Il cielo che aveva fatto incupire perfino gli oceani, suoi pazienti dirimpettai, sembra disperatamente bisognoso di ritrovare la gaiezza luminosa del suo colore perduto.
La buona notizia, per noi, è che forse torneremo presto ad innamorarci.

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L’uomo che andava al cinema _Letture

       

Ed ecco un libro di cui non ricordo praticamente nulla. Dire che non è trascorso che un anno o poco più, eppure dovessi citare a spanne qualche pagina memorabile, un’impressione forte, un’atmosfera, credo finirei per fare scena muta. Mi rendo conto non suoni proprio come la miglior reclame per questo testo, vincitore del prestigioso National Book Award nel 1961 (immeritatamente, mi viene da dire, visto che tra i finalisti quell’anno concorreva un certo “Revolutionary Road”). Sia come sia, scopro dalla recensione buttata giù a caldo (di cui afferro ben poco, porca miseria) che il libro non è male, ha un protagonista in anticipo sui tempi e a suo modo indimenticabile (io non faccio testo, evidentemente), delle valide ambientazioni e poco altro. Insomma, magari lo consiglierei pure, se me lo ricordassi. Nel dubbio, no: preferitegli senza la minima esitazione un qualunque Richard Yates, ché andate sul sicuro.

Ama raccontarsi come un individuo del tutto ordinario, Jack “Binx” Bolling, agente di cambio trentenne, inquilino e cittadino modello cui piace comportarsi esattamente come ci si aspetta da lui. Ma è la sua immaginazione incontenibile a tradirne l’eccezionalità. I suoi pensieri si accavallano infatti in un flusso torrenziale e incoerente che cataloga l’esistente attraverso schemi in realtà ordinatissimi, per quanto febbrili, come la più scoppiettante delle sceneggiature. Così i ricordi del padre morto da tempo gli valgono come costante termine di paragone attraverso cui misurare ogni ipotesi di legittimazione nella stirpe dei Bolling; così le visite alla madre e ai fratellastri servono come indispensabile emancipazione dalla realtà formale della famiglia paterna, una salutare valvola di sfogo che sa di concretezza seppur dolorosa (emblematico il rapporto toccante con il fratellastro malato); così la scenografica Gentilly, il sobborgo residenziale di New Orleans in cui vive nella tranquillità del suo isolamento e delle sue manie, lavora egregiamente come teatro funzionale per misuratissime paranoie; e così le partner occasionali nel suo passato – niente più che segretarie stagionali, in realtà – appaiono intercambiabili in tutto e per tutto come elementi di tappezzeria identificabili esclusivamente in base al nome di battesimo. Le sue vere passioni sono la televisione e, ancor più, il cinema, sorta di paradiso in cui Binx ama rifugiarsi indipendentemente dalla qualità della pellicola proiettata. Gli attori sul silver screen diventano il metro di riferimento essenziale della sua singolare ma disciplinata esistenza, le figure archetipiche tramite cui identificare e classificare ogni essere umano incrociato sul proprio cammino: stelle che cadono, scompaiono e riappaiono, scandendo lo scorrere dei suoi giorni in linee di attimi e rivelazioni sempre ritornanti.

Ha però il terrore del vuoto, Binx, dell’horror vacui esistenziale, del poter “diventare nessuno in nessun luogo”, ed è forse per questo che indossa con abnegazione la propria “buffa forma di serietà, che non è affatto serietà bensì disperazione mascherata da serietà”. La sua vera ossessione, disinvolta ma ben dissimulata, è quella che lui chiama semplicemente “Ricerca”. Non una generica aspirazione alla bellezza, perché l’ideale romantico da esteta gli è stato estirpato assieme all’innocenza al fronte, in Corea, dove il saldo delle cicatrici incise nell’anima è andato ben al di là del numero di ferite subite. Non è il bello ciò che insegue e vorrebbe perseguire, la corsa al bello è – senza troppi giri di parole – “una puttanata”. Questo appare tanto più vero considerando che sono di natura economica le sue maggiori soddisfazioni e che il suo cuore resta diviso a lungo – in bilico per l’intera durata del romanzo, praticamente – tra una segretaria sensuale e non troppo inibita ma neppure chissà quanto incantevole (Sharon), e una cugina minata nelle fondamenta della sua psiche da una fragilità emotiva e una depressione per molti versi sconfinate (Kate). La “Ricerca” è piuttosto uno studio, imperfetto e fallace nella sua dimensione irriducibilmente umana, sulle possibilità di una vita semplice che fugga gli angusti limiti della routine per aprirsi alla meraviglia e provare a regalare ancora, di tanto in tanto, qualche barlume di ardita felicità.

In questa sua prospettiva, onesta nella serena accettazione delle proprie sconfitte, risiede la modernità di un personaggio davvero complesso e sfaccettato come Binx Bolling, umanista rassegnato e idealista senza più ideali cui aggrapparsi, ma encomiabile nella sua certosina negazione di ogni traccia tangibile di residuo pessimismo. Il suo bluff è del tutto invisibile agli occhi degli altri, che lo stimano per la brava persona che è o non ne colgono l’elevata statura morale scambiandola per egoismo e freddezza, come nel sermone finale dell’adorata zia Emily, altro personaggio “forte” del testo. Il lettore ha però il vantaggio di potergli leggere dentro grazie agli spunti offerti dalle sue ininterrotte riflessioni in prima persona, e lo esercita anche senza volere, cogliendo tutta la sofferenza e la fatica della scomoda posizione del protagonista-narratore, vittima e insieme salvatore, seppur in sordina.

Sbaglia davvero di grosso chi ha letto in questo “The Moviegoer” un nuovo ritratto eccentrico e sopra le righe, perfetto spaccato di un’epoca di transizione, alla maniera di Ignatius Reilly (paragone presumibilmente dettato più dal mecenatismo postumo messo in campo da Percy nei riguardi dell’opera di John Kennedy Toole, che non da un’effettiva somiglianza antropologica tra i due primattori). Binx si erge effettivamente al rango di figura chiave per la letteratura statunitense dei primi anni sessanta. Si presenta ancora oggi, più di cinquant’anni dopo, come un (anti)eroe attualissimo in evidente anticipo sui tempi, ma più che altro nel senso di “santo” attribuitogli da Peter Handke (cito dalla quarta di copertina). E’ un campione della disillusione, come ben dimostra la stupefacente lezione di disincanto delle ultime pagine. E’ un Harry “Coniglio” Angstrom che ha da tempo smesso di correre e ha scelto, finalmente, abbracciando con serenità il proprio destino. Non tutto funziona comunque come Percy avrebbe forse sperato. Attorno a un protagonista così indimenticabile, si muove una realtà fumosa e sfuggente, una nebbia che rende talvolta inafferrabili e prolisse anche le sue dissertazioni, annoiando spesso e volentieri, perdendosi nell’irresistibile piacere perverso di digressioni incapaci di condurre in alcun posto. Più apprezzabili in questo caso le pur fugaci rappresentazioni dei luoghi – meglio, dello spirito dei luoghi – come fondali inquietanti che restano comunque scolpiti nella memoria: una New Orleans triste e non certo folle teatro (o cartolina), a differenza che in “Una Banda di Idioti”; e poi una Louisiana torbida ma genuina, umida e autentica; e una Chicago oltremodo minacciosa e perturbante. In questo lavoro da fine paesaggista metropolitano risiede la vera grandezza di un romanzo discontinuo ma tutt’altro che disprezzabile, il cui protagonista – è bene dirlo – in duecento e passa pagine non entra in una sala cinematografica che un paio di volte.

7.2/10

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Until In Excess, Imperceptible UFO

       

Penso che questa sul quarto disco dei canadesi Besnard Lakes sia davvero una delle migliori recensioni che ho scritto. In linea con la prospettiva “astratta” di Monthlymusic, quasi tattile nel dare forma a quello che ho tratteggiato come un sogno che svolta in incubo, ma pur sempre attenta a raccontare il disco. Il genere musicale ha reso possibile una trattazione non più rigida, e mi sono divertito a infarcirla di spunti sinestetici. Su tutto la ciliegina di quella sventurata località del New Mexico cui è dedicato il brano conclusivo dell’album, scrigno fenomenale di implicazioni sia su vecchi fantasmi della guerra fredda che su certi sfasci della bulimica way of life americana negli anni delle amministrazioni Reagan. E i Besnard Lakes, ci si chiederà? Novità (nei due anni intercorsi tra la pubblicazione dell’Lp e il presente) non ne abbiamo, a parte un avvicendamento nei tour tra chitarristi. Nello scritto, comunque, loro ci sono a mo’ di abitanti di quella radura onirica. I coniugi Lasek, che chissà perché all’epoca chiamai a più riprese Lacek. Dai, alla fine – per una volta – quella consonante confusa è l’unico appunto che mi sento di fare a me stesso.

Alamogordo è dove la speranza va agli alberi pizzuti.
Se avete presente l’isola di Böcklin, ripensatela priva di aneliti romantici ma con carica simbolista elevata a potenza. E senza i cipressi possibilmente, solo deserto. Potrete anche darci una passata di sgrassante al limone, ma rimarrà il simulacro triste e corrotto in cui una certa idea di progresso l’ha trasformato. Sì, perché Alamogordo è il luogo dove il genio evase dalla bottiglia per non esservi mai più intrappolato. Demone scaltro, idolo amaro. Il posacenere in cui hanno lasciato a consumarsi il caro vecchio totem della frontiera, e un’utopia appena rimessa in tiro dopo i rovesci della grande depressione.
Alamogordo è il primo giorno di uno sterminato autunno.
Non proprio un bel posto per escursioni oniriche, ma spiegatelo voi all’estro bizzoso dei coniugi Jace Lacek e Olga Goreas, origini nell’est Europa e adozione canadese, al riparo dagli spifferi della guerra fredda. Fin troppo facile il nesso, ma chissà che gli sposini della scuderia Jagjaguwar non ci abbiano visto dell’altro. Il risvolto cinico della poetica del fanciullino 2.0 brevettata da Steven Spielberg, perché no? Alamogordo è anche il nulla in cui andò a rovinare la luccicante navicella del nostro amato E.T., partita in un trionfo di commozione sui titoli di coda del film per poi schiantarsi con il sigillo Atari nel fondo tossico di un’immonda discarica abusiva. Il più brutto videogioco di tutti i tempi e insieme la più incredibile metafora partorita dagli anni ottanta, per un rovescio della medaglia che ha saputo adeguare il mito di Icaro ai visionari da strapazzo del presente, non senza puntualità. E forse è proprio in questa desolata bruttura che si specchia il nuovo disco dei coniugi Lacek, riuscendo però nell’impresa di sublimarne gli spunti in una trama densa di suggestioni liriche quanto elusive. Rispetto alla fragorosa grandeur o all’epica squassante di ‘The Roaring Night’, ai disastri mentali e gli sperimentalismi arrembanti di ‘The Dark Horse’, qui il loro collettivo, Besnard Lakes, ha curato una raccolta assai più sfuggente. Impalpabile, come opportunamente suggerito anche dall’ermetismo in pillole di titolo e copertina, per quanto il fascino nelle loro canzoni riesca se possibile più plastico che in passato. Il flusso sonoro ha raggiunto un equilibrio che prima era sempre mancato e l’album si candida a diventare la perfetta trasposizione di un sogno. L’assenza di steccati nella sceneggiatura ricorda Gondry, satirica anarchia esclusa, mentre la grana fotografica mette al bando i contrasti che erano un po’ la loro firma nella luce.

L’elegia in soft focus di questo ‘Until in Excess, Imperceptible UFO’ ha indotto la critica a largheggiare con l’aggettivo “cinematico”, nemmeno a sproposito peraltro. Ralenti, piani sequenza, campi lunghi se non lunghissimi. Rimangono un’ostinata prerogativa della band di Montreal, il suo capriccio più amabile, per non dimenticare la predilezione per le riprese in esterni. Anche questa pellicola è girata in spazi aperti, interamente, e si apre nel pallore umido di una foschia caparbia, adagiata come soffice trapunta su una distesa erbosa. Nell’incertezza superba in cui ci troviamo abbandonati ci accoglie Olga, dalla sua casa fantasma sulla collina. Fattezze di sirena, voce suadente come il riverbero di una malinconia che non possa davvero far male. Eppure dietro questa calma alberga il lustro spento della morte, par quasi di sfiorarne l’ombra. E la nebbia è un muro, una presenza che irretisce e non esclude sinistre pressioni. Il gruppo ci culla con un dream-pop al calor bianco, tra refoli sonici e nuance space-orchestrali che saturano i già ridotti margini di manovra e sommergono anche la maestosità del coro, per poi renderne tutta l’energia nel bagliore di un attimo. Quando ci si presenta Jace, il suo falsetto è una dolce lama che fende la bruma. Quieti con la loro elettricità sempre finemente atmosferica, maliardi nel concedersi il balocco di piccole vampe azzurre innescate con le chitarre, ma abbastanza subdoli da non lasciare riferimenti validi. Nessun appiglio per noi avventati ospiti del loro miraggio. Sembra quasi che scherzino con gli ascoltatori i Besnard Lakes, con gentilezza. I cavalli neri di un tempo soggiogati e chiamati ad abbellire la vecchia giostra su cui danziamo un girotondo, la cui eleganza classicista trascolora un poco per volta alla stregua di un ricordo che si sfaldi, inesorabile. Poi un lieve sibilo, e lo scenario si rivoluziona: uno scorcio finalmente rischiarato dall’accompagnamento pop limpido, senza prefissi né suffissi, ma con l’amichevole adesione di uno Spencer Krug chiamato a ricambiare qualche favore arretrato. Ci diremmo lucidi in quest’oasi rinfrancante e soleggiata, e invece siamo nel cuore della creatività laboriosa del subconscio, con entrambi i piedi nella Fossa delle Marianne del sonno. E negli anfratti scivolosi di un torpore privo di regole, riecco inaspettata la mansuetudine fumosa della memoria. L’etereo splendore tratteggiato come in una tregenda d’angeli ancora non caduti – Les Paul Baritone, Epiphone Casino e la fedele Jazzmaster – omaggia l’inarrivabile altrove wilsoniano celebrandone l’inquietante, algida natura. L’invito, ancora una volta, è a lasciarsi andare, a far viaggiare incontrastata l’immaginazione, mentre il suono flessuoso solleva una polvere laminata che è incantevole sfarfallamento ma anche escoriazione a fil di pelle.

La mezzanotte arriva senza farsi annunciare e porta con sé tenui fuochi che destano meraviglia ma non sanno scaldare, e nemmeno bruciano. Nella rincorsa delle voci, il piacere di perdersi. Nella confusione, la fiducia di una notte nuovamente tersa, stellata, che chiama alla contemplazione. Finché le chitarre non scelgono di affollare la volta con una torma minacciosa di nuvoloni neri, l’impagabile schianto di un fortunale shoegaze già abbozzato negli sguardi come un’inedita tempesta del tardo William Turner. Ipotesi poi risparmiataci con l’allontanamento verso un’ulteriore solitudine, nel freddo di una passione disarmata, nei respiri congelati di un inverno che ricorda da vicino le tregue effimere ma bonarie dei L’Altra. Il viaggio conserva così i medesimi fragili contorni di quello pianificato con le sole forze del pensiero nel più riuscito lavoro di una band inglese che in pochi ricorderanno, Alfie, lei pure alquanto audace per indole astrattista. ‘Do You Imagine Things?’, titolo emblematico che può tornare utile. Stessa illusione di false simmetrie e specchi, stessa incorporea presenza. Le ascensioni pirotecniche degli Zeppelin e dell’Electric Light Orchestra, la fumisteria spigolosa e il virtuosismo progressive, i Fleetwood Mac rivisitati e le detonazioni a marchio Constellation: banditi dall’album di famiglia. Gli incendi sul mare e tutti i cannoni, conflitti ipotetici ma spaventosi, cedono il posto al maggior costrutto di una pace dilatata e pur sempre fantasiosa, al ghiaccio, alla rarefazione e le inquietudini intime. Pulite, ripiegate, conservate come candidi fazzoletti nelle tasche.
Infine Alamogordo, che è dove i sogni vanno a morire.
Le bombe all’idrogeno danno ragione all’apocalisse di un’umanità ormai senza speranze, identica a quella profetizzata da uno scrittore triestino tanti anni fa. I Besnard Lakes più visionari non mancano l’appuntamento con la paura condivisa. Volturano la loro creazione in incubo senza troppi complimenti. Sparecchiano la tavola e spalancano gli scuri a quasi tre minuti di raggelante e impassibile crepuscolo, ultimo panorama in cui s’intromette beffarda la rifrazione delle gocce di pioggia lontane – o sono lacrime? – di un delicato fallout. E intanto il lampo abbaglia e scortica i nostri occhi, indifferente.
Li chiudiamo invano nell’istante stesso in cui torniamo ad aprirli.

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