Jpod _Letture

       

Era un blog d’argomento musicale (generosamente autoproclamatosi tale), è diventato un raccoglitore di pseudo-recensioni di libri, anzi, quasi solo di opere di Douglas Coupland. E, a proposito di Coupland, con “Jpod” siamo un po’ al nadir di una carriera che troppo a lungo ha citato e riciclato se stessa, lo stesso immaginario pop, la stessa giocosa nostalgia e il medesimo breviario di disincanto pronto all’uso. Alla decima replica, sempre meno credibile e sempre più inquinata dal narcisismo (e dalle relative invasioni di campo), è inevitabile che qualcosa non funzioni più come un tempo. Se gradite queste atmosfere e questi personaggi tra il geek e il nerd, virate con decisione su “Microservi”, che è il modello a fronte della caricatura che non fa ridere.

Tra di loro si considerano reciprocamente alla stregua di “vacui cartoon umani”. Sono un campionario delle più disparate eccentricità pop partorite dalla sottocultura di massa degli anni ’80 e ’90, e condividono in sei un bizzarro habitat cubicolare, affettuosamente ribattezzato jpod in onore dell’iniziale dei loro cognomi, in seno a una mega-multinazionale canadese. La loro sfida più grande consiste nel mantenere la loro integrità di beati eletti nell’universo dei geek da battaglia, e soprattutto in quell’”avere un lavoro senza lavorare”, obiettivo davvero arduo da raggiungere all’interno di una compagnia “in cui la produttività viene misurata con ogni sistema metrico mai concepito dall’uomo”. Cowboy vive segnato dall’ossessione per la morte e l’astinenza sessuale; il “malvagio” Mark è sprovvisto di qualsivoglia senso dell’umorismo ed è puntualmente bersagliato dai compagni per questo; John Doe è cresciuto in una comune di invasate hippie che lo ha preservato, suo malgrado, da ogni possibile forma di contagio mediatico e commerciale, ragion per cui la sua massima aspirazione è al conformismo più disarmante, anche in ambito sessuale; Bree è per converso affetta da una specie di ninfomania d’elite che la rende fragile quanto volubile negli interessi come nelle relazioni; Kaitlin tende a recitare nei panni della prima della classe o semplicemente è solo la più sana di mente, e fatica per questo a integrarsi in un team che vive con estrema ripugnanza; con una simile accozzaglia umana in guisa a fargli da controparte d’elezione, parrebbe avere vita facile come specchio della normalità il mite Ethan, quello più razionale, meno infognato con gli assurdi dettami della filosofia nerd, quello che sembra provare sentimenti meno morbosi e più ortodossi (rivolti masochisticamente verso l’ostile Kaitlin, ultima arrivata).

L’apparenza inganna, e al lettore non serve troppo tempo per accorgersene. La quotidianità del giovane protagonista è infatti ammorbata da una coppia di genitori fedifraghi che sono un esplosivo coacervo di stravaganze e pericolose inclinazioni: mamma ha una piantagione di hashish in cantina, amanti più o meno giovani di entrambi i sessi e più di uno scheletro nell’armadio di cui sbarazzarsi con l’aiuto del malcapitato figlio; il babbo è invece un fallito il cui solo scopo nella vita è quello di ottenere finalmente una parte con battute in pellicole di infimo livello o spot pubblicitari (non ci riuscirà), e che affoga la propria rassegnazione nelle gare di ballo, nelle miscele di rum e Gatorade e in occasionali relazioni con le vecchie compagne di scuola dei figli. Figli, perché nel cast rientrano anche un fratello, Greg, agente immobiliare, e soprattutto il socio di quest’ultimo in affari tutt’altro che leciti, il minacciosissimo Kam Fong. Riusciranno i sei scoppiati del jpod (e il loro capo Steve, insopportabilmente idiota e ordinario, prima che un grosso trauma e l’eroina lo rivoltino come un calzino) a completare la progettazione di un videogame di skateboard, sabotato dai superiori con sceneggiature infantili o orrende derive fantasy, prima che l’azienda riveda i suoi piani e opti per la cancellazione? Tra lettere d’amore al clown di McDonald, Ronald, bizzarri esercizi matematici, brevi interviste (onanistiche) per fantomatici corsi di inglese e intere paginate di ciarpame informatico, assisteremo al naufragare di un candido sogno per perdenti, rimpiazzato dall’edulcorante sapore di una realtà vincente.

Per quanto destinata, magari, a lasciare il tempo che trova, una pur dozzinale analisi critica di “Jpod” non può in alcun modo prescindere dai necessari paralleli con le più simili tra le precedenti opere dell’autore. La domanda corretta da porsi, a romanzo ultimato, dovrebbe essere: “cosa resta della mitica Generazione X, quindici anni dopo?”. La risposta è nelle vostre mani, abbastanza impietosa. Non certo quel respiro ampio per quanto vago, generazionale appunto, che in quell’opera prima era una benzina sorprendente nonostante una prospettiva di sconfinato disincanto. Gli (anti)eroi di “Jpod” potrebbero essere i fratelli minori o, meglio, dei cugini giovani, ma in comune con Andy, Dag e Claire hanno davvero pochissimo. Non quello spessore “umano” fatto di debolezze e disorientamento, reso nelle psicologie con tendenza alla stilizzazione ma anche buona efficacia. Al confronto, questi quasi trentenni sono caricature del modello invecchiate male, figurine di carta ideate per rendere alla meno peggio una certa idea del disordine di questi anni, in ambito sentimentale, comunicativo, culturale. delle surreali favole di allora, praticamente non vi è traccia. La testimonianza confusa ma sincera dello smarrimento di quello che all’epoca era il ceto medio lascia il posto a una generale tendenza al divertissement, alla stravaganza pacchiana, al bombardamento di stimoli e rimandi a tratti contraddittori, che tendono a solleticare l’epidermide del lettore, a distrarlo senza soluzione di continuità. La trama semplice e divagante di un tempo è rimpiazzata da un groviglio di situazioni anche divertenti, ma fondamentalmente iperboliche e assai poco credibili. L’universo geek raccontato con grazia ed equilibrio mirabili in “Microservi” (ad oggi il vero titolo imperdibile dello scrittore canadese) è qui ridotto a una barzelletta che non fa nemmeno particolarmente ridere, una scenografia di cartapesta, un fondale privo di profondità, un pretesto più simbolico che altro, anche se svuotato di significati degni di una qualsiasi riflessione.

Poi certo, Coupland è sempre il solito fenomenale intrattenitore: infarcisce anche questo testo di dettagli grotteschi, curiosità assortite da fanatici della rete, spiccioli di weirdness colorata, tuffi a bomba nel grande e un po’ avvizzito calderone degli anni ottanta, con quell’immaginario condiviso che in maniera non troppo onesta ci pungola nel vivo, nostalgia canaglia. Non c’era internet ai tempi, mentre oggi siamo alla sovraesposizione. Un po’ come per l’inventiva di un autore che ha già raccontato questo tipo di attualità fino alla nausea – certe volte bene, certe volte meno – e ora si vede costretto a fare i salti mortali per non ripetersi, ricorre a qualche baracconata di troppo e sostanzialmente fallisce. Lo stratagemma di menzionare se stesso nella prima frase del libro, in qualità di residuato di una cultura pop bersagliata ma in fondo amatissima, poteva e doveva valere come campanello d’allarme. Alla quarta autocitazione, il narcisismometro tendeva ormai pericolosamente alla soglia di massima criticità. Ma ridursi a fare di sé un personaggio tra gli altri, ferocemente cinico poi (ma chi ci crede?), solo per ritagliarsi il più comodo degli alibi narrativi è un colpo davvero basso, duro da incassare, una trovata del tipo “raschiamo la morchia in fondo a questo barile” che dal buon Douglas non ci si aspettava. Tre stelle comunque, perché quest’uomo rimane un dannato, adorabile, fratello maggiore.

6.4/10

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Magic Kingdom _Letture

       

“Magic Kingdom” di Stanley Elkin era uno di quei romanzi che idealmente mi facevano l’occhiolino da tempo: collana “Minimum Classics” con il suo fascino innegabile, un plot pazzesco, il sodalizio Disneyland / morte che ha il suo perché. Come spesso capita quando le attese sono (magari irragionevolmente) elevate, la lettura si è rivelata una mezza delusione. Non perché la qualità manchi, visto che ironia e toni caustici sono espressi a buoni livelli, ma perché, boh, alla fine il risultato resta forse un tantino insipido, e le quattrocento e passa pagine non giustificano qualche brillante puntata nel grottesco. Una trascrizione filmica a opera di Wes Anderson potrebbe comunque essere grandiosa, chissà che non ci si arrivi prima o poi.

Nei quattro anni di malattia di suo figlio Liam, Eddy Bale si è affermato come il “mendicante più in vista e più famoso dell’intera Gran Bretagna”. Ha messo a durissima prova buongusto e senso del limite, racimolando cifre importanti, ottenendo un’insperata visibilità e spendendosi fino allo stremo delle forze per salvare la vita al bambino, massacrato dai medici di mezzo mondo anche se “con tutte le migliori intenzioni”. La morte del ragazzino dodicenne, offerta come il suo intero calvario alla cupidigia famelica del grande circo mediatico, ha di fatto annientato la sua famiglia, inducendo la scettica mogli Ginny a fare le valigie. Eddy tuttavia non si rassegna a una conclusione tanto amara e sceglie di consacrarsi anima e corpo a una nuova folle impresa, una missione di vita in aperto contrasto con le logiche di accanimento terapeutico che avevano consumato il povero Liam in maniera tanto disumana. Il progetto, apparentemente assurdo, consiste nell’organizzare un viaggio a Disneyland per un gruppo di sette giovanissimi affetti da malanni feroci e ormai giunti all’ultima spiaggia. Ancorché morbosa e sconclusionata, l’iniziativa ha successo anche grazie al modesto contributo iniziale di una Elisabetta di Windsor oltremodo glaciale. Bale seleziona personalmente un ristretto staff di collaboratori quasi “stesse scegliendo dei partigiani, una banda ben assortita per un colpo gobbo”, un manipolo di professionisti e “briganti del cuore”. Ne fanno parte l’infermiere omosessuale Colin Bible, già angelo umanissimo negli ultimi giorni del suo figlioletto; Nedra Carp, in passato tata dell’eroe delle Falkland, il principe Andrea; il dottor Moorhead, primario di pediatria più noto d’Inghilterra ma snobbato, incredibilmente, dagli alti papaveri quando sono in ballo inviti mondani od onorificenze di grido; e Mary Cottle, segretaria tabagista incapace di generare figli sani. Affidati alle loro cure, sette infelici che impareremo a distinguere più per la specifica sintomatologia dei loro morbi che non per effettive peculiarità caratteriali, eccezion fatta forse per l’esuberante Benny Maxine e il tenero Charles Mudd-Gaddis, di fatto un ottenne con l’Alzheimer e tutti gli acciacchi di un anziano con un piede e mezzo nella fossa. Come andrà a finire la loro avventura nel Regno Magico all’altro capo dell’Atlantico lo si intuirà presto, anche se i consuntivi, come è giusto che sia, saranno tracciati nel bel bagno di disincanto delle ultime pagine.

Sulla carta “Magic Kingdom” aveva tutto. Un soggetto pazzesco, tanto per cominciare, perfetto per saltabeccare a piacimento tra i registri del dramma e della farsa. Quindi i bambini, fattore di imprevedibilità narrativa per eccellenza. E ancora, un protagonista di quelli che tendono al memorabile, affiancato da un ristretto circolo di comprimari non meno degni. In ultimo, per l’edizione italiana (al solito impeccabile nei Classics di Minimum Fax), la benedizione urbi et orbi firmata da Rick Moody oltre a un più generale encomio sull’arte di Elkin, autore ancora colpevolmente invisibile nel nostro paese. Anche il fattore rischio poteva rientrare tra le variabili significative, una sorta di coefficiente di difficoltà aggiuntivo che appare inevitabile quando ci si veda costretti, nel trattare di minori attaccati dal cancro, a primeggiare in uno slalom gigante tra la melassa e le copiose lacrime di rito. Il libro riesce benissimo in quest’ultima prova, perché schiva a monte tutte le peggiori tentazioni della retorica sentimentalistica, perché è onesto nei confronti del lettore e ammirevole, anche, nel risparmiare i trucchetti da bassa macelleria di un cinismo oggi tanto in voga, à la Palahniuk per intenderci. L’atteggiamento di Elkin è distaccato e umano a un tempo, neutro e pietoso, una condotta che non conosce cedimenti nell’arco di circa quattrocento pagine e fa onore all’autore statunitense. Che cosa, allora, non funziona in questo romanzo? Beh, le altre premesse, quelle citate a inizio paragrafo, vanno perdendosi un po’ per volta, così che un senso di delusione non può che balenare, sottile ma inesorabile. Il protagonista, si diceva: Eddy Bale scompare a un certo punto, e riappare pallidissimo solo in chiusura, svuotato di ogni spessore, provato forse dal corso degli eventi e incapace – per volontà del suo creatore – di lasciarci morali più valide di un’inattesa scopata finale. I bambini, allora? Sono figurine non meno tiepide e impalpabili: anonime le tre ragazzine, che distinguiamo solo per i raccapriccianti segni esteriori della loro condanna; sfocati anche i maschietti, ridotti con le altre a un debole complemento oggetto, un sussulto psicologico assai poco incisivo, un’increspatura attanziale ideata in pura contrapposizione – d’innocenza candida ma imperfetta – allo squallore problematico del mondo dei più grandi.

E’ interessante come Elkin ami indugiare nel racconto di un autentico “groviglio di intenzioni, sentimenti e propositi asincroni”, ragioni complesse e prospettive contraddittorie. Il suo talento è tutto in questo sguardo quasi cinematografico (oggi diremmo in stile Todd Solondz, Paul Thomas Anderson o Noah Baumbach, solo che questo libro è arrivato almeno una dozzina di anni prima dei loro migliori film), mantenuto con un rigore persino prodigioso dall’inizio alla fine. Un tocco appena di ironia, che è sempre arma di classe, ma senza farsi prendere la mano rovinando la miscela. E’ geniale il contrasto di fondo, quello che anima e ingloba tutti i contrasti personali come un fuoco più ampio e potente: che i piccoli protagonisti si trovino a vivere la loro esperienza più reale in un mondo di fantasia e speranza, un parco a tema che sa di paradiso ma con una costante impressione di surrealtà, un senso di orientamento sempre distorto. La maggiore attrazione dell’Epcot Center è il “Mondo del Futuro”, e non può che suonare come una beffa per i giovani visitatori da tempo privati del loro domani; Pippo, Pluto e Topolino dovrebbero essere i meravigliosi compagni dell’infanzia, ma gli attori dietro le maschere sono individui meschini, e l’immagine riflessa sul soffitto di un ambiente buio li rende comunque terrorizzanti, non certo icone di un dolce conforto. Forse ha ragione Ginny, nella lettera scritta al marito e letta addirittura con un anno di ritardo: “non l’hai ancora capito che gli adulti sono molto più interessanti dei bambini?”. Stanley Elkin ci crede, ecco perché sceglie di sacrificare la sua carta vincente senza battere ciglio. I quattro “caratteristi” che accompagnano Eddy nella sua folle trasferta sono rispettosi ed equilibrati solo quando si tratta di salvare le apparenze, perché per il resto è il grottesco a scandire i loro disastrati retropalchi. Ecco quindi una tata ossessionata dal mito di Mary Poppins e da un passato di fantasmi incestuosi; un medico annientato dalla mania di grandezza che lo rende onnipotente, nell’illusione di poter indagare e prevedere ogni fenomeno clinico senza falle; un infermiere che nasconde le proprie insicurezze affettive sotto una corazza di praticità e gentilezza; e una donna condannata a ripudiare la propria femminilità e, al tempo stesso, incapace di liberarsi della propria enfasi masturbatoria come motore di una vita sconfinatamente triste.

Nessuna pietà per questi adulti che sono “meglio” dei bambini, anche perché e proprio con loro, e non con i secondi, che ci si può concedere di andar giù pesanti, senza remore. Nasce in questo impietoso affondo anche la consolazione di un libro per altri versi di lucida disperazione: non deve poi essere il peggiore dei mali perire da piccoli, se si ha sempre il conforto di una spiegazione logica (per chi crede di poterla trovare, comunque vada) a tutto, anche al male, al dolore, alla morte di creature che non hanno sbagliato. E solo, forse, perché non hanno ancora avuto modo di commetterli, i loro tragici errori. Il contentino dell’autore è quella sfilata paradossale offerta da Colin Bible ai sette ragazzini come alternativa al trito cerimoniale fiabesco del parco di divertimenti: quella galleria di uomini e donne sfatti, brutti, infelici e deprimenti, un rosario di esistenze scadute che a loro, almeno a loro, potranno essere risparmiate. Poco, tutto sommato, per riscattare le sorti di un romanzo che poteva essere memorabile ma non lo è quasi mai. Che procede freddo per la sua strada, crudele e impassibile in una distanza che al lettore non è dato modo di riassorbire. E che pecca continuamente di prolissità, vanificando una scrittura anche eccellente e brillante. Frasi e periodi troppo lunghi, persino angoscianti, trattini che aprono diramazioni del senso, che inglobano e fagocitano altre riflessioni, con dentro suggestioni che hanno dentro altre riflessioni, fino a perdersi. Spiace, perché “Magic Kingdom” rende perfettamente l’idea di quanto fosse intelligente e caustico Elkin, di quanto la sua arte e il suo sguardo si mantenessero ben fuori da un sentire e un narrare ordinari. Un vero peccato che il romanzo non sia stato al passo con le sue premesse: poteva uscirne qualcosa di epocale, ma non è questo il caso.

6.8/10

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Il Ladro di Gomme _Letture

       

Cosa è diventato Douglas Coupland in questi ultimi anni? Un artista pop fighetto. Uno che fa del presenzialismo sulle copertine, che flirta con attori e musicisti, che si cimenta con la televisione e il giornalismo alla moda, con sculture monumentali e personali nei musei di arte contemporanea, con la non-fiction e il design. Occasionalmente riesce ancora a trovare qualche margine per la sua attività di romanziere, anche se non può stupire la sostanziale mediocrità dei suoi libri recenti. Tra questi, uno dei meno peggio è sicuramente “Il Ladro di Gomme”, una delle poche occasioni in cui il canadese ha provato ad attualizzare certe formule vincenti della sua narrativa senza scadere nel grottesco. E’ anche l’opera che presenta i maggiori punti di contatto con il suo “Generazione X”, certo con l’originalità ridotta al lumicino di qualche pallido espediente metanarrativo. Di questi tempi, comunque, prendiamo e portiamo a casa.

Quarantenne, divorziato, la dolorosa morte di un figlio piccolo alle spalle, Roger Thorpe è ormai persuaso di essere giunto anzitempo al capolinea, in un teatro di “balordi negativi e falliti” dove il completo disastro sembra il pane quotidiano che accomuna tutti, condito da una sofferenza che è ovunque, insormontabile. Lavora come malinconico e anacronistico commesso in mezzo a un’orda di anonimi colleghi ragazzini presso Staples, megastore specializzato in articoli per ufficio, e si vede come un uomo senz’anima, pressoché invisibile agli altri, desideroso di fuggire da se stesso per quanto apparentemente incapace di una simile impresa. Sue uniche valvole di sfogo sono “Lo Stagno del Guanto”, assurdo romanzo sulla crisi della coppia borghese, oltre al diario in cui raccoglie riflessioni in ordine sparso sulla vita sdoppiando la propria prospettiva tra un canonico io narrante e lo sguardo solo immaginato della giovane compagna di lavoro Bethany (con la quale condivide senza saperlo una generalizzata sfiducia negli esseri umani). Quando la ragazza, giunta a conclusioni non troppo dissimili attraverso un sentiero se possibile ancor più cupo e nichilista, metterà per caso le mani su quel documento, sceglierà di stare al gioco e rispondere con una lettera dando il la a un carteggio sempre più liberatorio per entrambi. Ne verranno coinvolti anche DeeDee, madre della giovane, anch’essa gravata da enormi problemi di natura relazionale, e Joan, ex moglie dello stesso Roger, così da conferire un carattere polifonico al mosaico via via articolato e da suggerire al lettore le possibilità di una serie di svolte caratteriali che, di fatto, non troveranno effettivi riscontri nelle loro esistenze così zoppicanti.

Erano davvero buone le premesse di questo nuovo romanzo di Coupland, al di là dell’insistenza con cui l’autore ha optato per un ristretto cast di protagonisti al solito provati da ogni sorta di sventura, condannati a correre a velocità ridotta sui binari di una vita a dir poco imperfetta eppure non privati dell’eventualità di un riscatto inatteso, di un raggio di sole improvviso e bellissimo. In questo caso si rivela originale, soprattutto, la struttura narrativa (che è anche metanarrativa, dettaglio importante), un congegno magari caotico ma estremamente vitale, il cui autentico colpo di genio è rappresentato dagli inserti dell’opera grottesca partorita dall’inventiva di Roger, quasi una pièce teatrale su una coppia di tetri coniugi che sembrano trapiantati nell’attualità da un passato tendente alla mitologia (viene citato il matrimonio tra Elizabeth Taylor e Richard Burton come efficacissimo termine di riferimento), emblema dello sfiorire delle passioni e della bellezza. Finché le sorprese vengono gestite in maniera armonica e i personaggi principali restano attendibili nel loro quadro di moderato sconforto quotidiano, tutto funziona decisamente bene, assai meglio che in opere (degli stessi anni) stiracchiate e non troppo genuine come “Generazione A” o “Eleanor Rigby”. Poi però l’umanità, il tocco gentile e l’ottimismo di fondo per cui il canadese è noto prendono inverosimilmente il sopravvento: i personaggi si auto-rivoluzionano nel volgere di poche pagine (Bethany passa da dark girl a ragazzina acqua e sapone in maniera persino stucchevole), salvo poi tornare sui propri passi appena in tempo per la morale conclusiva: stravolgersi non ha senso, occorre accettarsi per come si è o, quantomeno, provare a convivere dignitosamente con se stessi.

Nella prima parte, ad ogni modo, uno dei migliori Coupland degli ultimi anni: lucido, divertente, con più di un lampo di genio e – ma non è una novità per lui – senza scadere nel cinismo di comodo à la Palahniuk. Il collage di narrazioni brevi che affiora dal ricco scambio di spunti tra i due protagonisti può ricordare lo storytelling romantico e decadente che animava “Generazione X”, l’opera per cui Douglas verrà più o meno giustamente ricordato. Non è un caso, allora, che Roger Thorpe somigli molto da vicino ai quasi trentenni di quel primo romanzo: invecchiato, sbiadito, intristito, promessa non mantenuta degli anni novanta in un presente davvero privo di bussole e prospettive. In tal senso resta indubbio come Coupland sappia ancora raccontare benissimo il nostro tempo e, con esso, il declino impietoso che ci abbruttisce, ogni giorno di più. Così per l’opaco antieroe, il cui massimo gesto di ribellione consiste nel rubare gomme da masticare sul posto di lavoro nel momento stesso in cui si fa licenziare, finendo per specchiarsi grazie a un pregevole gioco di specchi nel protagonista del testo di fantasia dello scrittore di successo Kyle Falconcrest, uno dei personaggi principali de “Lo Stagno del Guanto”. La vertigine dietro questa prospettiva-matrioska e ancor più l’ironia con cui si chiude il libro (che scopriremo essere tutt’intero il saggio di fine anno per uno squallido corso di scrittura creativa) valgono forse come sole ancore di salvezza degne di questo nome e assicurano a “Il ladro di gomme” una sufficienza comunque piena.

6.5/10

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Moby Dick o La Balena _Letture

       

Per una volta presento un classico e allora è meglio non dilungarmi in inutili introduzioni all’opera. C’è la recensione, nella quale ho cercato di limitare al minimo il florilegio di banalità, luoghi comuni, cose già dette e stradette, minestrine critiche riscaldate e via andando. Non sono certo di esserci riuscito ma, se non altro, uno straccio di parere l’ho tirato fuori, e quello è. Il romanzo mi è piaciuto e merita. Lo dico a quelli che lo considerano ancora un’avventuretta da prima media, ma anche a altri – sicuramente meno – che a leggerlo davvero ci hanno provato, salvo gettare la spugna alle prime avversità, le lunghe trattazioni zoologiche nozionistiche sui cetacei. Gli scogli capitano sempre, l’importante è non arenarsi, aggirarli con cura e pazienza per proseguire nella navigazione.

Bene, la storia la conoscete tutti.
Ismaele, giovane uomo di grande buonsenso con appena qualche precedente nella marina mercantile, sceglie di dedicarsi alla navigazione per “cacciare la malinconia”. Opta per la “nobile ma poco considerata” arte della baleneria, si sposta nella leggendaria Nantucket e qui stringe amicizia, a sorpresa, con il pagano Quiqueg, considerato dai più un selvaggio terrificante ma di fatto persona d’animo gentile e di straordinaria lealtà. Entrambi si arruolano nei ranghi del Pequod, uno dei tre bastimenti in partenza, il primo come semplice marinaio e il secondo come ramponiere. Sin dal primissimo istante alcuni strani segni sembrano però presagire che la spedizione pluriennale della vecchia imbarcazione sarà destinata a un viaggio ben più solenne e impegnativo che non la semplice ricerca del pur favoloso spermaceti di Capodoglio. L’intera missione risulterà infatti presto assoggettata al cieco volere del comandante della nave, il celeberrimo Capitano Achab, che non avrà timori a rigettare come banale pretesto la normale predazione per scopi commerciali dei grandi cetacei marini, plagiando l’intero equipaggio con tutta la forza visionaria del suo eloquio e condannandolo di fatto a seguirlo tra i dannati – e a non fare ritorno – nella caccia a una sola incredibile preda, il famigerato Moby Dick.

Fin qui ci siamo tutti: qualche bel volume illustrato incontrato in tenera età, la fama immortale di una storia che conserva il fascino dell’universalità, magari – per i più cinefili – qualche spezzone del non proprio indimenticabile film con Gregory Peck. Beh, “Moby Dick” è molto più di questa avvilente semplificazione culturale. In primo luogo perché non è un romanzo di avventura da intendersi in senso tradizionale. Non soltanto, per lo meno. Al di là del luogo comune un po’ logoro, si offre davvero al lettore come una formidabile riflessione sull’animo umano, non certo forzata in chiave espressionista, ma pur sempre penetrante, magnetica, indimenticabile. Lo sguardo di Melville è ben fissato, ovviamente, sulla tetra figura di Achab e sui suoi irriducibili tormenti interiori, ma sbaglierebbe chi riducesse a questa osservazione o alla sua (solo presunta) prospettiva moralistica un’opera meravigliosamente complessa e sfaccettata quale “Moby Dick” è a tutti gli effetti. Lo stesso Achab ci viene presentato solo a un certo punto e per via indiretta (dalle parole dell’anziano e chiassoso Capitano Peleg) come un individuo fuori dal comune, cupo, feroce e disperato, che parla poco ma sa farsi ascoltare incutendo timore o, meglio, “timor sacro”. Occorrerà poi un altro bel po’, con il Pequod già salpato da tempo, per incontrarlo finalmente, silenzioso e indecifrabile, e parecchio ancora prima che questi rompa il ghiaccio nella maniera più incredibile, con una sorta di folle predica e cerimonia pagana per motivare la ciurma in quella che è divenuta la sua vera missione di vita, vendicarsi una volta per tutte dell’infernale balena bianca che lo mutilò di una gamba.

Come hanno sottolineato in tanti, la cifra di “Moby Dick” non è certo quella delle comuni pubblicazioni per i più giovani. Nel testo riecheggia la retorica miltoniana, la tensione non è dissimile da quella di una delle grandi tragedie di Shakespeare e non è un mistero che l’impianto a blocchi stilistici sia stato ripreso, come numerosi apologhi e dettagli onomastici, direttamente dalla Bibbia. Pagina dopo pagina vediamo alternarsi i resoconti del testimone Ismaele, miti arcaici, dilettanteschi e antidiluviani trattati sui cetacei (un po’ pesanti ma a modo loro indispensabili per meglio comprendere i risvolti scientifici dietro le sequenze più movimentate), notazioni di natura squisitamente tecnica sulla navigazione e la pesca, inserti volutamente teatrali (con tanto di monologhi dei protagonisti e cori dei marinai) e parabole bibliche (come quella sulla condanna e il pentimento di Giona, recitata all’inizio nella cappella di New Bedford, di fatto il più chiaro degli ammonimenti). In questo modo la narrazione non potrebbe essere più vivace, discontinua, polifonica e stimolante. Allo stesso modo e fluttuante e incerta risulta la dinamica della voce narrante: da principio pare salda nella prospettiva in prima persona del testimone Ismaele. Ma questi scompare presto nella massa indistinta di marinai del Pequod, drogata dalle pazze lusinghe del comandante, così le vicende trascolorano nell’epica prima che l’io narrante torni a fare capolino sul filo di lana.

Al resto provvede lo stile asciutto di Melville, estremamente limpido nell’esposizione, forbito ma senza pedanteria, e nel contempo capace di stupefacenti slanci lirici, peraltro modernissimi e nient’affatto indeboliti dall’enfasi o dal tono drammatico. La scelta di affidarsi a un pugno appena di personaggi di contorno, tutti maschili e fortemente caratterizzati in senso archetipico (dalle infinite cautele e il senso del dovere di Starbuck alla mediocrità anonima di Flask, dal gioioso vitalismo di Stubb al candore di Quiqueg, dal disagio innocente di Pip al mistero incarnato da Fedallah) è funzionale all’idea di dar vita a un affresco sfaccettato dell’animo umano, più che a una canonica resa delle psicologie. Sul terreno rimangono le capziose speculazioni filosofiche sul vero significato del mostro marino. Ognuno chiuderà la lettura con le proprie impressioni, tutte sicuramente più che legittime. Per quanto riguarda il sottoscritto, nello spaventoso capodoglio bianco ritrovo il senso allegorico del male, proiettato in un altrove remoto e pauroso ma inscritto, a dirla tutta, dentro ciascuno di noi. Non Dio, contro il quale l’empio Achab sosterrà il proprio attacco destinato a fallire, bensì l’idea stessa di un limite che la nostra natura ci impone come insuperabile. Che andrebbe accettato con serenità anche se l’istinto rifiuta di accoglierlo. Un’ossessione che, fatalmente, ci porterà tutti con sé, nel baratro.

(9.1/10)

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Blue Movie _Letture

       

Nella recensione su Anobii l’ho definito una via di mezzo tra “Effetto Notte” (per le atmosfere e la vita sul set) e “Nynphomaniac” (per i contenuti e i loro eccessi). Ora mi aggrappo alla definizione cercando qualche imbeccata per un testo letto poco più di due anni fa e del quale è rimasto, nei miei archivi di memoria, proprio poco o nulla. Ricordo di aver riso, qua e là, specie nelle battute iniziali. Ricordo un’arguzia da volpone dello spettacolo che ne sapeva, eccome. Ma ricordo anche quell’impressione di scherzo tirato troppo in lungo, e poi uno di quei finali da lancio di ortaggi marci. Insomma, qualche buono (anche buonissimo) spunto e altrettanti *meh*. Carino ma trascurabile.

Boris Adrian è il miglior regista cinematografico al mondo. Seppur giovanissimo, si è già aggiudicato una quantità improbabile dei più ambiti riconoscimenti nei festival di mezzo mondo, riuscendo nell’impresa di mettere d’accordo sul proprio conto critica e pubblico, e conquistando a mani basse l’appellativo di “Re del grande schermo”. Sfiancato dai riscontri unanimi, l’autore sembra tuttavia aver perso ogni stimolo e la sua carriera langue, letteralmente ferma al palo da due anni nonostante le offerte che un ruspante amico faccendiere, Sidney “Sid” Krassmann, non ha mai mancato di procacciargli. E’ in occasione di una festa a dir poco “libertina” che l’annoiato Boris trova nelle seduzioni di una nuova sfida impossibile la determinazione per tornare a cimentarsi con la macchina da presa, imbarcandosi in quella che ha tutti i contorni dell’autentica missione: dimostrare al bel mondo di Hollywood che è possibile realizzare un film pornografico dal preminente profilo artistico. Grazie ai capolavori diplomatici del navigato collaboratore, troverà il modo di veder finanziata l’improbabile pellicola con fondi messi a disposizione dal principato del Liechtenstein – a patto che l’opera venga girata e proiettata in via esclusiva nel piccolo stato mitteleuropeo, come chiave di rilancio per l’inesistente turismo locale – e di farvi recitare da protagonista indiscussa nientemeno che Angie Sterling, diva più splendente del cinema mondiale, in barba alle restrizioni impostele da chi (agente e produttori) cura in maniera categorica ogni dettaglio dell’immagine e della carriera della diva.

Certo le reali intenzioni del visionario regista sono note solo ai suoi più stretti collaboratori ma non agli attori reclutati, per lo più stelline di film “balneari”, celebrità mondiali delle pellicole d’intrattenimento per adolescenti o attempate (e discinte) professioniste del Silver Screen già decisamente “arrivate”. Sul set ci sarà spazio per ogni sorta di esagerazione legittimata in nome dell’arte e avranno modo di risplendere le scintillanti doti di equilibrismo diplomatico dello spregiudicato artista e del suo fidato staff di manigoldi (che comprende anche l’ardito sceneggiatore Tony Sanders – alter ego del romanziere – e l’eclettico scenografo omosessuale Nicky Sanchez), specie nell’estenuante gestione della capricciosa attricetta, adescata con le lusinghe di una grande svolta artistica personale e via via logorata psicologicamente, umiliata, narcotizzata e indirizzata al più tragico dei gesti che non fermerà peraltro il perverso magnate necrofilo C.D. Harrison dallo sfruttare per profitto anche la più sfavorevole (e luttuosa) delle situazioni.

Fa oggettivamente impressione il curriculum di Terry Southern, uno scrittore che per il Cinema (con la maiuscola) ha lavorato a lungo riuscendo ad apporre la firma su testi davvero pazzeschi, dal soggetto di “Barbarella” alle sceneggiature de “Il Dottor Stranamore” (qui anche citato) e “Easy Rider”, oltre a quella determinante sponsorizzazione nei confronti di William Burroughs e del suo “Pasto Nudo”. “Blue Movie” è una delle sue opere più folli, dissacranti, e riflette il suo spirito di radicale libertà in tempi di profonde rivoluzioni per il costume. Questa carica esplosiva e prorompente riesce incontenibile in quella che è in fondo una prolungata e gioiosa provocazione, un romanzo esplicito come mai fino ad allora e, in primo luogo, una brutale messa alla berlina del dorato universo delle megaproduzioni hollywoodiane, delle sue ipocrisie allucinanti, dei suoi tic perbenisti stereotipati nel quadro di una generale aurea mediocritas operativa. Per tormentar la piaga, Southern sceglie di affidarsi a un paio di protagonisti emblematici nelle loro qualità iperboliche (e simboliche): il creativo assoluto che sul set è un cinico manipolatore, fior di psichiatra che “muove gli attori come le proverbiali pedine sulla scacchiera, ottenendo più di quanto non siano in grado di dare”, e non prova alcun rimorso anche quando il suo progetto naufraga nel dramma; e poi la diva assoluta, inarrivabile per la mole di incassi generati (che il genere sia “tette e culo” non importa), in apparenza mangiatrice di uomini ma di fatto ingenua e fragilissima, nell’infruttuoso inseguimento di vane velleità artistiche, schiacciata dai vincoli imposti da chi ne ha fatto una stella incapace di brillare di luce propria, ma anche da chi non esita a prometterle l’opportunità di un riscatto anche umano, chiedendole in cambio il più avvilente dei sacrifici.

In questo quadro disarmante non c’è salvezza per nessuno e tanto vale lasciarsi andare al corrosivo piacere di uno scherno generalizzato, in campo lungo come nel più impegnativo (e impietoso) dei primi piani. Funziona e bene, “Blue Movie”, come romanzo demenziale a ritmo adrenalinico, esilarante commedia degli equivoci in cui i paradossi si presentano in sequenza e non c’è un attimo per rifiatare. Convince meno l’esuberanza a luci rosse del testo, nelle battute iniziali sorprendente, disinvolta, non priva di ironia e perfino di una sua eleganza, ma alla lunga ripetitiva e fastidiosa nell’efferata e meccanica ostentazione di oscenità, proprio come la realtà che vorrebbe demolire di schianto. Complice un finale debolissimo e raffazzonato, sorta di farsa fantapolitica, non ha modo di – e nemmeno prova a – elevare il canovaccio dal tenore di uno scherzo tirato troppo in lungo. Peccato, perché poesia e intuizioni parrebbero nelle corde dell’autore, perché i passaggi intelligenti non mancano e ci si trova a ridere spesso e volentieri di gusto. Il clima vivace e irriverente dell’epoca si coglie con buona verosimiglianza a più riprese e l’invecchiamento risulta oggi marginale. Spiace che non si sia voluto affondare il colpo portando questo caustico pamphlet a un livello più elevato della semplice, torbida burla. Un’occasione mancata, quindi, più che altro.

(6.8/10)

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Biancaneve (di Donald Barthelme) _Letture

       

Lo scopo della letteratura è la creazione di uno strano oggetto coperto di pelo che vi spezza il cuore. Così scriveva Donald Barthelme, formidabile autore di racconti, romanziere con licenza di sabotaggio, ideatore di satire, nonfiction, graphic novel, libri per bambini, critiche letterarie e cinematografiche. A giudicare dal suo primo romanzo, una rilettura a dir poco anarchica del superclassico dei Grimm (via Disney), strano e peloso quell’oggetto non poteva che essere, per quanto si mostrasse forse più idoneo a elettrizzare le menti che a spezzare i cuori. La sua Biancaneve è figlia del libertinismo e della frizzante iconoclastia del sessantotto, oltre che di un vorace e bizzoso postmodernismo, anche se il disincanto e la follia pop che emana erano se possibile ancor più in anticipo sui tempi. Il risultato sarà apparso senz’altro dirompente al lettore del 1967, mentre oggi i suoi eccessi suonano un tantino forzati e l’impressione è che il testo non sia invecchiato proprio benissimo. Ma è tutta una questione di suggestioni, o meglio, di disposizione d’animo e sintonia. Se si è di buzzo buono, la lettura di “Biancaneve” riuscirà gustosa quanto basta. Viceversa potrebbe risultare irritante come diverse altre opere di rottura (e a cavallo tra generi) dell’epoca. Con me è andata abbastanza bene, le mie difese critiche dovevano essere distratte da altro o comunque rabbonite. Ma io non faccio testo, specie quando si parla di cose strane e pelose che ingarbugliano le mie emozioni di contemplativo che ha voglia di aggregarsi alla festa. 

A cosa pensa Biancaneve? Nessuno lo sa.
E’ una governante stretta in una morsa dall’insoddisfazione. Annoiata, lunatica, irrazionale e costantemente assorta nei suoi pensieri, scrive lunghe poesie oscene e sembra non abbia alcun problema a starsene un po’ per conto suo, rimirandosi nuda nello specchio o lasciando correre fuori dalla finestra i lunghi, splendidi capelli corvini. Abituati alla sua compagnia in una quotidiana coesistenza decisamente “promiscua” (ma torbida rende meglio l’idea), i suoi sette coinquilini – paranoici e formalissimi individui, più che i paciosi nanetti della fiaba dei Grimm – cominciano ad “avere in uggia” la cosa e la loro inziale preoccupazione comincia a tendere a un aperto nervosismo, almeno da parte di Bill. Che è sì il leader del gruppo, ma un leader in declino, schiacciato da troppi tormenti (morali e non solo), logorato dallo scetticismo e quindi più somigliante a un monaco, polemico e disincantato.

Assieme ai fratelli Kevin, Edward, Hubert, Henry, Clem e Dan, campa confezionando omogeneizzati di carne cinesi dai nomi improbabili, lavando palazzi (perché i palazzi puliti “riempiono gli occhi della luce del sole, e il cuore dell’idea che l’uomo sia perfettibile”) ma anche di piaceri sottili come l’osservare le ragazze in strada, o di piccoli espedienti come rubacchiare in casa dell’”amico di famiglia” Paul, pretestuoso artista monominimista che parrebbe avere un notevole ascendente su Biancaneve. Quest’ultima si fa ogni giorno più criptica e insofferente, sempre meno appagata dalle sue mansioni collaterali di svago carnale per i compagni e frustrata per l’incapacità di andare più a fondo nelle relazioni con l’altro sesso. Il misero fallimento di una sua provocazione, alla maniera di Raperonzolo più che della Biancaneve classica, la persuaderà circa l’impossibilità di incontrare nel desolante teatro contemporaneo qualcuno che abbia anche solo vagamente fattezze e condotta da principe, con il conseguente deteriorarsi di ogni rapporto umano nella sua sfera d’influenza.

Barthelme confonde costantemente i riferimenti, ubriaca il punto di vista del lettore servendosi di depistaggi e divergenze del senso, salvo adottare poi inattese corrispondenze incrociate tra pensieri di personaggi diversi, quasi a simulare danze sensuali o rituali di corteggiamento del tutto immaginari. Prime e terze persone si rincorrono in un affannoso gioco di specchi, e plurali o singolari non fa certo differenza se capita di imbattersi in pagine di strabiliante poesia come il capolavoro di auto deprezzamento regalato dal disilluso Bill/Brontolo a una Biancaneve poco attenta alle sue angosciate riflessioni, per non parlare del monologo interiore imbevuto di misoginia dello scellerato Hogo De Bergerac. In una prospettiva antinarrativa come quella perseguita dall’autore in questo pastiche, tra morbide invettive e falsi spunti documentaristici sulla cultura e la società statunitensi, inserti-caricatura d’argomento psicologico e fumose digressioni in flash-forward, è inevitabile che sia affidato al nonsense il compito di tenere assieme una narrazione ironica e cerebrale quanto sfilacciata, e non può stupire che Barthelme strizzi spesso e volentieri l’occhio ai suoi lettori attraverso tutta una serie di dispositivi metatestuali d’avanguardia (all’epoca, in linea con il clima di accesa sperimentazione del periodo), tra cui un questionario sulla fruizione stessa piazzato grossomodo a metà del tragitto come stimolo e presa in giro.

Il risultato è un’opera completamente folle, la rilettura di un classico che definire libera è puro eufemismo. Originale, a tratti divertente, ma poco incisiva nella sua burlesca negazione di qualsivoglia appiglio strutturale. Inutile girarci attorno: è innegabile che buona parte di questa cervellotica pirotecnia retorica sia destinata ad andare perduta con la traduzione, pure valida. E’ un limite insormontabile per un visionario postmodernista della parola quale Barthelme è stato, nell’accezione più pop e irriverente che possiate immaginare. In fin dei conti la sua scrittura – e quest’opera in particolare – può rappresentare un’avventura stimolante, se la disposizione d’animo e la fame creativa sono quelle giuste. Viceversa, potrebbe essere un’esperienza alquanto terribile. It’s up to you!

(7.0/10)

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Zucchero di Cocomero _Letture

       

Riemergo dal mio buco nero giusto per concludere il mini-ciclo retrospettivo su Richard Brautigan, del quale ho già scritto a proposito di “Willard e i suoi trofei di bowling” e “Sognando Babilonia”. L’occasione è propizia, tuttavia, perché quello che presento stavolta è un romanzo favoloso. “In Watermelon Sugar” rappresenta una vera sorpresa, almeno per me che non aspettavo nulla più che un libricino bizzarro e ho invece incontrato un testo evocativo come pochi nel raccontare la morte prematura dell’utopia sessantottina (e delle utopie tutte): prematura anche perché il libro venne pubblicato proprio nel 1968, e il disincanto che lo abita ha del sorprendente. Allegorica, inquietante, favolistica, tristissima, è un’opera apparentemente marginale e in realtà potente. Ha una magia tutta sua (a mezza strada tra il quasi coevo “Where the wild things are”, celeberrimo albo illustrato, e una pellicola come “The Village”) e gioca con le sue regole, pretendendo dal lettore di adeguarvisi (un po’ tutto Brautigan è così, in fondo), ma proprio non lascia indifferenti. Stupisce che per la prima pubblicazione italiana ci siano voluti ventidue anni, e stupisce ancor di più che quella edizione di Serra e Riva del 1990, assai modesta, non abbia avuto seguiti: né la Isbn né Marcos Y Marcos, che negli ultimi due decenni hanno meritoriamente ripubblicato quasi l’intero catalogo dello scrittore di Tacoma, sembrano essersi accorti del romanzo più folgorante di Brautigan, il cui ingiusto oblio prosegue. Forse non c’è nemmeno ragione per stupirsi, in realtà, le cose più belle passano spesso inosservate. E poi a un autore amabilmente decadente come lui, il tenero e sfarfallante Richard che scrisse una volta “All of us have a place in history. Mine is clouds”, finire dimenticato nella catasta delle opere dimenticate del nostro ridondante presente sarebbe piaciuto senz’altro. Peccato però che sia stato accontentato così facilmente: quello in cui è stato confinato “In Watermelon Sugar” è un dimenticatoio che grida davvero vendetta.

E’ un protagonista-narratore senza nome (o con qualunque nome il lettore abbia cuore di dargli) quello che ci introduce nell’amena e inquietante comunità di Ideath, bellissima e splendente, dove tutto pare essere stato costruito grazie allo zucchero ricavato dagli onnipresenti cocomeri. In questa sorta di idilliaca comune, ognuno ha una mansione che svolge con continuità e serena abnegazione: la sua, dopo il sostanziale fallimento in qualità di scultore (non portava a termine alcun lavoro), dovrebbe consistere nella realizzazione di un libro, il primo che veda la luce a Ideath dopo trentacinque anni, ma il condizionale nel suo caso rimane d’obbligo. L’argomento, sempre che il testo venga effettivamente scritto, non potrà che vertere su Ideath stessa e la sua tranquilla esistenza bucolica, tra individui con pari dignità che convivono amabilmente in seno a una natura docile mentre ogni ipotesi di minaccia o disarmonia è fermamente mantenuta al di fuori dei suoi limitati confini: quell’incombente hic sunt leones rappresentato dalle sterminate cataste delle “opere dimenticate”, terra d’oblio e inquietudine da cui parrebbe cosa buona tenersi a debita distanza.

Il clima è pacifico, la caricatura stessa della beatitudine; lo spirito è solidale, amichevole, collaborativo, e non esiste l’ombra di un attrito. Certo questo quadretto celestiale presenta molte bizzarrie, e forse non tutto è oro quel che luccica: le stelle risplendono rosse, dei fiumiciattoli scorrono nel bel mezzo di case che appaiono prive di pareti, e nei loro letti vengono collocate per tradizione tombe in vetro illuminate da luci fosforescenti; non si contano le statue eclettiche d’ogni genere, e le trote che sguazzano indisturbate nei tanti corsi d’acqua. Per il resto tutto sembrerebbe rispecchiare una canonica piccola comunità nordamericana, non fosse che il centro pulsante di tutto è il grande opificio in cui si lavorano i coloratissimi cocomeri, e che i beni appartengono a tutti e a nessuno in particolare. Vi è tuttavia un impalpabile senso di minaccia che aleggia sulla comunità, che grava in maniera implicita come una nuvola nerastra e trae la sua origine direttamente dal misterioso passato del luogo: risale forse al tempo in cui le tigri parlanti sparsero il panico in zona decimando gli abitanti, prima di essere a loro volta sterminate, nell’illusione che con loro si potesse cancellare l’idea stessa della morte (da qui il nome dell’immaginaria confraternita); o, piuttosto, si tratta dell’influenza maligna esercitata dai cumuli di masserizie nelle distese di “opere dimenticate”, tra libri condannati all’oblio, impiegati esclusivamente come carburante, e insoliti artefatti dai quali è possibile distillare whiskey, una miscela diabolica che ha condotto alla perdizione l’irrequieto Inboil e i suoi accoliti derelitti.

E’ un romanzo veramente strano e tristissimo questo, una fantasiosa raccolta di allegorie e surreali invenzioni nonsense, per illustrare alla maniera dell’autore, in evidente anticipo sui tempi, l’inconsistenza e la fallacità di tante utopie o, meglio, della grande utopia degli anni sessanta. I personaggi di questo assurdo racconto incantato coltivano il sogno di un’esistenza anestetizzata, nel più radicale rifiuto della tecnologia e di qualsivoglia forma d’organizzazione gerarchica, convinti che infelicità e violenza possano essere banditi dal posto, estirpati ed emarginati in un remoto dimenticatoio come i manufatti e la cultura del passato ignoto. Ma il male in quanto tale, il male di vivere in primo luogo, non potrà essere silenziato a lungo nemmeno in questa sorta di stucchevole arcadia, e a farne le spese saranno quei pochi – come la malmostosa Margaret – che abbiano il coraggio di mettere in discussione la logica spersonalizzante su cui l’intero dorato sistema si regge. L’unica via d’uscita, purtroppo, sarà l’annullamento di sé, l’estremo rifiuto delle regole di questo allucinante “gioco di società”, e ciò non potrà che avvenire nel più eclatante dei modi possibili, tra inconsulti lampi visionari di feroce disincanto (la mattanza di gruppo nel vivaio delle trote, il suicidio della ragazza).

Non occorre altro per chiarire come, dietro la melensa armonia di questo piccolo universo con il suo garbo e la sua alienante democraticità, si nasconda la sconfinata amarezza di Richard Brautigan verso l’ideologia di un presente che si vorrebbe scevro da ideologie, ma non può esserlo. “Zucchero di Cocomero” si candida così a essere una delle sue opere in assoluto più gelide e disperate, pur attraverso un superbo lavoro di dissimulazione: nera, senza suono e dal sapore (apparentemente) dolcissimo, come il sole e i cocomeri del giovedì. Una parabola che non offre spiegazioni per la propria insensatezza (un po’ come la prima parte del film “The Village”, sicuramente influenzato da questo libro) ma sorprendentemente funziona: invita a porsi delle domande e illustra, pur nella sua natura di specchio deformante, l’attualità, in maniera tanto più efficace quanto meno parrebbe somigliarle. Il talento di Brautigan, almeno in questo caso, risiede davvero nell’aver saputo tratteggiare un grottesco affresco del suo tempo, affidandosi al fascino di un’intuizione letteraria che sembra (a dirla tutta) senza tempo, fuori da ogni prospettiva nota eppure quanto mai credibile.

(9.2/10)

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Sognando Babilonia _Letture

       

Secondo di tre appuntamenti con Richard Brautigan.
Provo a non ripetere quanto già scritto di recente a proposito di “Willard e i suoi trofei di bowling”, anche se mi rendo conto che la presentazione del personaggio resti lacunosa e questa nuova critica non faccia granché per invogliare una sua riscoperta, a più di tre decenni dalla morte. So che tre romanzi letti sui dieci pubblicati rappresentano un campione parziale, anche perché ogni testo dello scrittore di Tacoma era un po’ un mondo a parte, però non credo di dire una sciocchezza sostenendo che questo “Dreaming Of Babylon” rappresenta un episodio anomalo, persino sorridente e fumettistico, all’interno del suo catalogo. Una personale rilettura del genere hard-boiled, ironica, nostalgica e per nulla gravata dalle consuete allegorie (non sempre di facile interpretazione) o dal nonsense imbizzarrito grazie al quale l’autore di “Pesca alla trota in America” viene ancora blandamente ricordato. Forse mi è piaciuto anche per questo, nella consapevolezza che si tratta di un’operina assolutamente marginale. Un momento di svago, risalente al 1977, che anticipò il più lungo periodo di inattività per lo scrittore, cinque anni di paranoia e alcolismo galoppante (ma anche di viaggi in Giappone) chiusi con le ultime due amarissime pubblicazioni (postuma la seconda), “So the Wind Won’t Blow It All Away” e “An Unfortunate Woman”, e con quel maledetto colpo di 44 magnum alla testa.

C. Card è un detective particolarmente disastrato ma inguaribilmente ottimista. Senza più segretaria, auto, soldi per l’affitto e per mangiare, con una reputazione ai minimi storici, vive quasi da abusivo in un appartamento “così scuro che sembra l’ombra di un appartamento” ma non si perde d’animo e campa grazie a qualche meschino espediente. A salvarlo dalla disperazione sono le frequenti sortite in un rilassante universo di fantasia in cui tende a rifugiarsi da quand’era ragazzo, quella pirotecnica “Babilonia” che obnubila fatalmente le sue facoltà cognitive mettendolo senza posa nei pasticci più neri, e che lui stesso sceneggia sull’onda di un entusiasmo fanciullesco (nei panni dell’eroe senza macchia e senza paura, del campione di baseball o del superdetective, regolarmente affiancato dalla giunonica donna dei suoi sogni, Nana-dirat), ora in forma di pellicola cinematografica, ora di romanzo, di spettacolo shakespeariano, sceneggiato a puntate (“Smith Smith contro i robot ombra”) o di comic strip. Ridotto allo stremo da una sorte non esattamente benevola, abituato com’è a prenderla “in culo dai massimi sistemi”, ha l’insperata occasione per una rivincita coi controfiocchi quando – a metà del libro, praticamente – una misteriosa e sensuale cliente, gran bevitrice di birra, gli commissiona dietro lauto compenso il furto del cadavere di una prostituta, dall’obitorio in cui lavora un medico suo conoscente.

Come sempre, quando si parla di quest’autore folle ma accattivante, i margini per il non detto tendono a estendersi a dismisura, e il gioco bizzarro tra scrittore e lettore è mantenuto sul crinale di una farsa divertita e scoppiettante che annulla qualsivoglia criterio di veridicità nella fabula (e ancor più nell’intreccio, qui sabotato con malcelato piacere dai ricorrenti e coloratissimi inserti della fantomatica Shangri-La carnevalesca: valvola di sfogo, ribaltamento trionfalistico ed espediente narrativo cruciale in quanto fabbrica di spunti tragicomici per i segmenti in apparenza più seri). Un po’ come per le tre sorelle Logan in “Willard e i suoi trofei di bowling”, non è dato sapere le ragioni che spingano la femme fatale a commissionare il rapimento della salma, come non è dato sapere perché quella stessa committente e il suo autista dal collo monumentale “come una mandria di bufali” abbiano incaricato altre due distinte squadre di criminali (rigorosamente da strapazzo) per portare a termine con le buone o le cattive la medesima missione. E nemmeno c’è il tempo per provare a darsi delle risposte, visto che le ore dell’assurda giornata del tenero investigatore volano via come un refolo di vento, l’azione è ridotta all’osso, il nonsense è sconfinato (Dove va a finire tutto l’alcool ingollato dalla bellissima bionda? Perché “il Collo” scatta ogni volta che si pronuncia la parola “champagne”? Perché Smiley non smette di sorridere anche quando gli si spara in una gamba? Perché Babilonia sembra un baraccone pop peggio dell’America anni 60/70) e queste duecentocinquanta paginette vergate da Brautigan vanno via come il pane.

Un Richard più svagato (e ispirato) che mai confeziona con il giusto brio una sorta di agile romanzo pulp-umoristico, un noir macchiettistico, quasi una caricatura del genere hard-boiled dell’epoca. Al centro di tutto un personaggio, indimenticabile protagonista da fumetto, motore di una narrazione sfarfallante e gagliarda che ha nell’irriducibile tono ironico il suo vero propellente. Un libro prescindibile, insomma, quanto godibile.

7.5/10

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Dream River

       

Giudicare il proprio lavoro non è mai semplice e rischia spesso di rivelarsi un’attività antipatica, per un verso o per l’altro. Dei due, peggio sicuramente l’autoincensarsi a vanvera. E’ una pratica che evito come la peste, ma in rare occasioni l’eccezione è doverosa. Questa recensione “romanzata” dell’ultimo album di Bill Callahan, l’ormai remoto “Dream River” (sì, ci sarebbero i remix dub di “Have Fun With God” ma quella è arte apocrifa, compostaggio musicale), rientra nel ristretto novero di cui sopra. Così per una volta mi sbilancio e non ho problemi a dire che si tratta di una delle critiche migliori che abbia mai scritto. Forse perché non è una vera critica, bensì il ritratto di uno dei pochi personaggi degni di essere narrati tra i maestri della canzone di oggi. Chi già lo conosce dovrebbe convenire che, dietro quella vaga tonalità onirica che mima il vaporoso fascino del disco, la fotografia di Mr. Smog è esatta, e passi quella forzatura (comunque affettuosa) sulla storia d’amore sfiorita con Joanna Newsom. Ho provato a entrare nella mente di quel cantautore serioso, ma l’ho fatto con tutte le delicatezze del caso. Chi invece non conoscesse Callahan farebbe bene ad approfondire, partendo magari dal capolavoro solista di “Sometimes I Wish We Were An Eagle”, o meglio ancora dagli album a nome Smog (“Knock Knock” o “Dongs Of Sevotion”, perché no). A patto che il genere non comporti controindicazioni fastidiose, e può essere. Bill Callahan è un autore semplicemente strepitoso ma, come sempre in questi casi, proprio non è per tutti.
 
 
 

I have learned
when things are beautiful
to just keep on,
just keep on

 

E così lei ha fatto il grande passo, è notizia di questi giorni.
Dopo aver riposto in un baule l’abitino da fata silvana degli esordi, piegato con cura e corredato dalla corona di fiori colorati del ritratto di “Ys”, ha scelto di blindare la sua relazione con l’insipido attore comico Andy Samberg e il suo scintillante circo equestre televisivo. Lontane come non mai le suggestioni della New Weird America ma a un tiro di schioppo, in compenso, quella fama che le è sempre sfuggita, fuori dalla nicchia dorata degli indipendenti. Là dove con Bill Callahan avrebbe potuto vivere alla stregua di una regina per sempre giovane, addosso gli stracci belli di un’arte che può ancora permettersi d’essere povera, attorno la devozione di una corte di colleghi figuranti e l’invidia anche affettuosa del suo popolo adorante. Non deve essere comodo recitare nei panni della musa per un grande cantautore. Che non lesina quando si tratta di regalarti diamanti come pegno d’amore, ma sempre e solo in forma di canzoni. Chissà che noia per l’arpista ragazzina svezzata a pane e musica da quel professore galante e serioso, maturo per lei forse più del necessario. Chissà se almeno l’istantanea d’un pensiero, in una brutta copia appena abbozzata, si sarà soffermata sulla fiamma di ieri, in quei pochi minuti di stordimento sull’altare. E chissà quale pellicola sarà passata sullo schermo mentale di lui, distante mille miglia ma ancora sotto il tiro di un bel plotone di ricordi. Sciacquare via l’amarezza è impresa alla portata, se si viene fiancheggiati dalla tenacia e dall’igiene del tempo. La bellezza invece è tutto un altro paio di maniche. Il tipo di ferita che non si rimargina, le luci accecanti del regno che possono farti piangere, qualcosa che resta dentro e si può occultare, ma non si cancella. Il castano chiaro dei suoi capelli ha virato verso il cenere senza che il bianco e nero delle fotografie ne rendesse conto: un innocuo espediente che gli si perdona con benevolenza. Per la figura di Joanna intagliata nella memoria non si è potuto ricorrere, tuttavia, ad accorgimenti altrettanto validi. Così i diamanti hanno continuato a essere estratti dalla stessa miniera creativa e tagliati da quella sua penna essenziale nel tratto quanto aspra, maestra di disincanto, con la piena esclusiva concessa in questo caso ai soli affezionati ascoltatori.

Per registrare fedelmente il senso di vuoto e di sconforto era servito lo splendido “Sometimes I Wish We Were An Eagle”, quasi una testimonianza a caldo della propria sconfitta e insieme un gioiello di dissimulazione. “Apocalypse” si offrì a breve distanza come breviario folk disadorno, perfetto per l’ora dell’appianamento, mentre “Dream River” si presenta adesso e ha il sapore netto della rimozione. Non quella coatta e intransigente, quella che fa a cazzotti con il passato e strappa tutte le pagine andate del calendario, come fossero batteri da estirpare a forza. No, il nuovo disco di Bill conserva le prerogative dell’inessenziale cronaca di un viaggio. E di un sogno, anche, ovattato dalla bruma sdraiata a pelo dell’acqua, dal vapore mansueto di un treno sbuffante o dai fumi dell’alcol in un anonimo bar alla periferia dell’impero. Un dolce annebbiamento, le cui cadenze sono quelle di una danza che è più che altro un rilassato ciondolare. Birre e ringraziamenti come se non ci fosse un domani, con la sola rassicurazione di un’ironia sempre impeccabile al proprio posto. Come per la precedente raccolta, in bella vista risplende la pacificazione. Ma qui non nasce dall’abbraccio di una solitudine pure opportuna, da mandriano confuso nel paesaggio, bensì dall’appagamento offerto da una nuova relazione di coppia, la sola carta in grado di ricondurre la sua scrittura alla piena armonia con gli altri e con la natura. Con la vita. Anche il registro malinconico non pare poi così irrinunciabile, alla fine, e la posa può aspirare al temperamento oracolare del Leonard Cohen dei tardi capolavori, senza più timori reverenziali. Musicalmente si insiste nel solco delle migliori esplorazioni degli ultimi anni, quelli spesi evitando di nascondersi a oltranza dietro a un moniker, per confortevole che fosse. Si coltiva la medesima essenzialità nient’affatto cruda – levigatissima semmai – del secondo album a proprio nome, con le chitarre nel ruolo esatto che fu degli archi, magico cesello, senza disdegnare di tanto in tanto una sottile increspatura o un modesto fuoco bianco a base di riverberi. I lievi arabeschi di allora, quell’eleganza non pedante, sono lontani ma nemmeno troppo. In un quadro votato a una frugalità di pura sostanza, parsimoniosa e priva di spigoli, con i suoi occasionali scorci luminosi Callahan sembra voler confezionare a sorpresa una collezione di brani intensamente oldhamiani, un country anomalo e zampettante che superi proprio il Principe nel suo stesso terreno d’elezione. Gli arrangiamenti colpiscono nel segno, ancora una volta. Merito di un flauto rubato al Nick Drake di “Five Leavers Left” o “Bryter Layter” – a seconda della vivacità – capace magari di conferire un retrogusto agrodolce davvero prezioso. E merito di quelle sei corde in veste elettroacustica traviate proprio dalla vitalità dionisiaca dei fiati, ora in preda a convulsioni gentili, ora disinvolte nel dispensare sfumature finissime come i Wilco meno marziali.

Tutto questo senza indugiare nella calligrafia. Le ricognizioni di colui che si faceva chiamare Smog rimangono in prima battuta questioni squisitamente emozionali. Si spiegano così i non rari crescendo della parte strumentale, riflesso della necessità non derogabile di lasciarsi andare al cuore, alla primavera incalzante, con un pizzico di salutare negligenza. Bill vi si espone adottando un passo lento ma sicuro, come lo straordinario baritono che calza ormai come un guanto. Si mette a nudo e si confessa, trattando il sentimento invece che le cautele filosofiche di ieri. Ogni suo pezzo continua a essere una sorta di vino da meditazione, un amarone affinato in barrique. Equilibrato, morbido, da assaporare adagio. Il desiderio di potersi sottrarre al congedo dall’esistenza terrena è un’illusione appena, come una freccia scagliata in alto nel cielo e condannata a chiudere la propria parabola nella caduta, inevitabile. Nell’istante perfetto dell’apogeo, l’incontro con la più nobile aspirazione dei giorni trascorsi assieme a Joanna: quell’aquila che era stata l’emblema stesso della compiutezza e ora volteggia solitaria, il fiume come una mappa per orientarsi, prima di assecondare il capriccio onirico e sfumare in un gabbiano destinato a ben altri orizzonti. I contorni del tenue vagheggiare, agevolati dalle ombreggiature della Asat Classic, restano incerti anche quando va in scena la piena estate di un pittore di barche. Perso in una tempesta di pioggia e lampi cui farà seguito la ritrovata quiete dell’anima, il cumulo dei propri ricordi a rappresentare la sua più scintillante ricchezza. L’intimismo non è più un luogo angusto, né una passione astratta. E’ la curiosità che spinge il grosso volatile ad aprirsi e a esplorare in libertà, solo a sprazzi se occorre, prima che venga settembre e sia irresistibile la chiamata di ritorno all’oceano. O di rientro a casa su una strada bellissima e insidiosa, tutta ammantata di neve.

Non si può disconoscere la propria natura. Che richieda il conforto di un prestigio un po’ frivolo, o che induca a vivere come artisti dell’eremitaggio. La si accetta, provando a trarne magari una morale sempre nuova. A volte non occorre davvero altro, se si è bravi a far tesoro di tutta la bellezza incontrata sul proprio cammino e la si porta con sé, senza fermarsi mai.

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Willard e i suoi trofei di bowling _Letture

       

Brautigan, finalmente!
Giusto l’altroieri avrebbe compiuto ottantun’anni, non fosse che con lui siamo fermi al condizionale da più di tre decadi. Mi fa piacere che sia giunta l’ora di affrontare questo cappellaio matto della narrativa nord americana, questo hippie allegro e amarissimo che nemmeno gli hippie avrebbero voluto con loro, anche se forse era lui a isolarsi da tutto e tutti. Di Brautigan ho letto tre romanzi in pochi giorni, e poi più nulla. Forse mi tengo il resto per i giorni più adatti, chissà, l’impressione è stata di averne avuto abbastanza, che non si debba oltrepassare la soglia massima consigliata. Di lui sapevo quanto basta, giusto qualche nozione biografica. Non sapevo però che, almeno in Italia, è stato rimosso quasi del tutto come qualcosa di non gradito. Stringata in maniera persino offensiva la sua pagina italiana su Wikipedia, cassata quella a lui dedicata sul sito della Marcos Y Marcos (che ha pubblicato quattro delle sue novelle) , il suo nome nel relativo catalogo autori è assente e anche nei grandi negozi di libri online si trova pochissimo, tutto esaurito da secoli. Resta una canzone – “Brautigan (giorni che finiscono)” – che i Perturbazione gli dedicarono qualche tempo fa, e che ha più il sapore di un omaggio astratto. Così è inevitabile, pensando a lui, che affiori quel po’ di malinconia, indipendentemente dall’infelicità di un’esistenza travagliatissima, chiusasi per suicidio a soli quarantanove anni. Qui analizzo il primo dei tre testi citati, che è anche il più debole del lotto. Scritto in una fase particolarmente difficoltosa (e già declinante) della carriera, “Willard e i suoi trofei di bowling” si configura come un’operina bizzarra e nonsense, indebolita da qualche banalità di genere. Se il personaggio può ancora interessare (difficile perché lontanissimo dall’oggi), l’invito è a non partire da qui, un passatempo pure gradevole che si legge in un’oretta. Decisamente ha scritto di meglio, toccando punte di sbalestrata poesia che non meritano proprio l’oblio cui il suo nome pare destinato. Ne riparleremo, ad ogni modo, quando vi presenterò “Zucchero di cocomero”.

Bob e Constance sono una coppia ai limiti del patetico. Lei è una scrittrice di ventitre anni, apprezzata dalla critica e ignorata dal pubblico, lui un uomo colto e premuroso ma incapace in tutto, eccetto che nell’annoiare il prossimo e nel cedere poco per volta a un Alzheimer impietoso. Per dare un senso al proprio matrimonio dopo uno svogliato tradimento da parte della donna, che non ha portato altro che verruche nelle zone più delicate dei rispettivi corpi, i due imbastiscono uno “squallido teatrino di sadismo e disperazione”, a base di perversioni che – affogate nel mare magnum della plateale volgarità odierna – oggi fanno persino sorridere. Eppure nel loro legame così difettoso, dove letture fuori tempo massimo e giochini erotici ispirati a “Histoire d’O” servono come pur blandi surrogati di un brivido di piacere, regna una tenerezza sconfinata, con l’uomo che si affligge “per l’intera condizione umana” e la donna che, in silenzio, lo ammira. Al piano di sotto, in un piccolo condominio di San Francisco, vivono i loro amici John e Patricia, lui cineasta, lei insegnante di spagnolo, coppia eccentrica nel cui salotto risplende il bagliore “mistico” di una cinquantina di trofei di Bowling vegliati da un misterioso uccello gigante di cartapesta, il Willard del titolo, costruito con abilità da un artista hippie in seguito a un sogno e dotato di penetrante umanità, oltre che di uno sguardo cangiante. I cimeli sportivi appartenevano ai tre fratelli Logan, un tempo belle speranze di un’America pulita e ottimista, oggi devastati dall’ossessione per il furto subito e ridotti al rango di disumane maschere della ferocia, senza più un nome a identificarli nella loro recita da pallide macchiette (il “Fratello Logan lettore di giornalini”, il “Fratello Logan bevitore di birra”, il “Fratello Logan che fa tutto nervosamente”). Tra scherzi di un destino beffardo e esigenze di sceneggiatura, un fatale incontro tra queste tre piste narrative sarà inevitabile.

E’ poco più che un fumetto questo romanzo breve che Richard Brautigan scrisse a metà degli anni 70, in una fase in cui la sua penna scoppiettante stava scoprendo l’amarezza senza ritorno che lo avrebbe inghiottito. Tre storielle scorrono in montaggio parallelo fino all’intersezione conclusiva, ma le istantanee del presente e certi gustosi lampi in flashback sono proposti in maniera beatamente disordinata, sviando di continuo l’attenzione grazie a inserti incoerenti ma rendendo nel contempo inevitabile una previsione sul finale brutale che attende il lettore a un tiro di sputo dall’inizio. Nei frammenti del segmento relativo alla coppia felice “John + Patricia”, tutto l’interesse è riservato alla curiosa presenza in chiave nonsense degli oggetti che danno il titolo all’opera (e sembrano anche più vivi dei personaggi veri e propri), mentre gli spezzoni dedicati ai fratelli Logan (e indirettamente ai loro assurdi genitori, nonché alle tre misteriose “sorelle Logan”, sempre altrove, a far non si sa bene cosa) riescono deboli e farseschi, espediente letterario non troppo brillante per dare voce all’insensata violenza che albergherebbe per natura nell’animo umano, e a maggior ragione nell’America borghese e perbenista degli anni settanta. Per esclusione, le pagine più interessanti rimangono quelle riservate non senza affetto ai disastrati coniugi del secondo piano, eletti a emblema di un’incomunicabilità universale che non preclude, tuttavia, dignità dell’amore e che solo una follia cieca può annientare. Se questa operina non brilla insomma come altri testi dell’autore, Brautigan mantiene tuttavia una leggerezza nel tocco prossima al miracoloso e ha l’indubbio merito di farsi leggere d’un fiato al solo costo di qualche perdonabile banalità.

6.7/10

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