Mark Lanegan

Among the Leaves

       

Proprio non poteva capitare in un’occasione migliore il recupero – a un anno buono di stagionatura – dell’ultimo album accreditato ai Sun Kil Moon. E’ di questi giorni infatti la mia personale infatuazione per la più recente uscita di un disco di originali scritto da Mark Kozelek (che di fatto è al momento il vero one-man-band celato dietro quel moniker), in questo caso una raccolta condivisa con il polistrumentista Jimmy LaValle altrimenti noto come The Album Leaf. Mi è bastato un ascolto fugace per correre ad accaparrarmelo nella lavagna delle prenotazioni dei redattori di Ondarock, e sarà con ogni probabilità il mio prossimo pezzo per la webzine. Teoricamente qualcosa di simile a quanto capitato con l’album che un altro celebre Mark, mister Lanegan, ha accreditato a se stesso e ad un poco conosciuto fingerpicker londinese in fissa per il folk del deserto. In entrambi i casi, quindi, due mattatori che optano per un profilo un po’ più basso della norma lasciandosi accompagnare in esclusiva da un solo musicista tuttofare, possibilmente restando fedeli alla propria impronta distintiva. Quello di Lanegan & Garwood, ‘Black Pudding’ (che ho appena recensito qui), è un discreto lavoro che riannoda i fili con il passato già distante dei primi album solisti del cantante di Ellensburg, seppur in una confezione spartana che guarda alla sostanza e resta avara in fatto di grandi emozioni. Un discorso diverso lo merita ‘Perils From the Sea’, frutto di un sodalizio che musicalmente offre nuove prospettive all’ex leader dei Red House Painters motivandolo in una prova assai più convincente di quella a nome Sun Kil Moon uscita appunto lo scorso maggio. Che, beninteso, è sempre un album di Kozelek, quindi qualità superiore. Più dimesso e intimista rispetto alle dissertazioni passate, più attento ai piccoli spunti del quotidiano che non alle riflessioni ad ampio spettro sui massimi sistemi. Niente di veramente epico ma anche una prospettiva più concreta, più spicciola, su un autore straordinario di questi anni avidi. Un lavoro diverso, come confermato dal respiro nuovamente più lungo e contemplativo dell’ispiratissimo tandem con LaValle, in arrivo appunto in questi giorni. Poi beh, con Kozelek e pochi altri non ha torto chi sostiene che basti il canto. Chitarra o minimalismo sintetico, fa lo stesso. Se siete tra coloro (me compreso) che amano perdutamente la sua voce inconfondibile, anche il meno pregiato dei suoi LP varrà di certo l’acquisto. Anche a scatola chiusa e anche se la copertina è ben lontana da quelle indimenticabili dei Red House Painters.

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Mark did it again…

        

Mark l’ha fatto ancora. Difficile dire come ci sia riuscito, così tanto tempo dopo l’ultima volta e sull’onda di un azzardo insolitamente confezionato, ma quel che conta davvero è il risultato, qualcosa che rasenta il miracolo. Un nuovo disco di Lanegan e solo di Lanegan, nonostante il dettaglio della parola “band” sulla copertina, è già di per sé un evento. Dopo ‘Bubblegum’ ed il relativo tour, il tenebroso rocker statunitense confessò in più di un’intervista che un seguito sarebbe arrivato a strettissimo giro di posta, che molte idee erano già state abbozzate e, insomma, si sentiva ben disposto a battere il ferro ancora caldo fatti salvi eventuali intoppi di percorso. Non so se sia corretto considerare Isobel Campbell uno di tali inconvenienti, visto che due dei tre album realizzati nel frattempo con lei da Mark mi sono anche piaciuti, né saprei dire se il volume delle numerose collaborazioni / ospitate imbastite dal Nostro come i grani di un rosario sia davvero la causa unica di un così cospicuo ritardo. Sia come sia, restano gli otto lunghissimi anni tra la precedente fatica solista e questo nuovo ‘Blues Funeral’, un intervallo di tempo siderale ed in fondo non giustificabile. L’impressione – dopo un’adeguata razione di ascolti – è che comunque ne sia valsa la pena, indipendentemente dalle legittime recriminazioni sul conto dell’eroe navigato della Seattle che fu. Basterebbe da solo l’atteggiamento, sfrontato ed intelligente, con cui le nuove canzoni si presentano: illudendo. Promettendo una rivoluzione che sa tanto di specchietto per le allodole (i critici, che in linea di massima non sembrano aver troppo apprezzato) e rimane di fatto tutta sulla carta. All’innegabile dirottamento dell’orizzonte sonoro non corrisponde infatti un analogo cambio d’abito mentale, e il disco va quindi articolandosi come una profonda e puntuale riflessione sul passato dell’artista. Si riparte, inevitabilmente, da dove ci si era fermati ai tempi di ‘Bubblegum’, con una ‘Gravedigger’s Song’ che puzza di fuliggine e pistoni né più né meno della vecchia ‘Metamphetamine Blues’. Proprio quell’animo rock torbido e siderurgico riesce ad imporsi sui foschi artifici formali approntati per il nuovo lavoro quasi fosse un istinto insopprimibile, con meno sfumature rispetto alle precedenti e più ortodosse produzioni  ma fondamentalmente con tutto ciò che serve al posto giusto. Non si potrebbe spiegare altrimenti il tono aggressivo e pestone oltreché squillante dietro l’irresistibile pastrocchio di ‘Quiver Syndrome’, ibrido impossibile (e felicemente pacchiano) tra gli Screaming Trees galoppanti di ‘Uncle Anesthesia’ ed i Dandy Warhols più esuberanti e pop. La dark-wave (o cold-wave, che dir si voglia) si ritaglia un ruolo da protagonista come eloquente in uno dei pezzi di punta, ‘Grey Goes Black’, ma è innegabile che i cupi pastelli colorati ed i synth abbiano su la stessa identica polvere che ammantava le chitarre elettracustiche delle ‘Field  Songs’.

Un po’ a sorpresa per chi temeva da lui il passo falso (che non arriva), Mark convince proprio per l’abilità con cui ha saputo piegare la forma alla sostanza evitando di svilire lo stile nella maniera, lasciandogli seguire al contrario la propria più intima natura di cantautore. In pochi avrebbero saputo rendere tanto autentica e naturale una sterzata espressiva rilevante come questa, senza cadere nel ridicolo o quantomeno in una sgradevole sensazione di artefatto. Ancora capace di un romanticismo d’altri tempi, Lanegan si è rivelato inappuntabile nel non sacrificare classicità ed epos alle sirene di un suono oggi di moda , riuscendo nell’impresa di conciliare questi suoi tratti peculiari con l’estetica nuova, elegante e funerea, che da smalto ad un pugno di irresistibili murder ballads. Nondimeno il Nostro ha voluto conservare – in linea con il titolo scelto – quell’impronta blues che è da sempre nel suo bagaglio d’artista, per quanto oggi trasfigurata da questo make-up sonoro tetro e modernista. Le atmosfere agri di un passato non troppo distante, ricontestualizzate da sottili sporcature o da inserti volutamente incoerenti (‘Deep Black Vanishing Train’), un finale degno dell’epica ruvida di ‘Whiskey For The Holy Ghost’, perfino gli spifferi di un’inquietudine che chiama in causa i migliori fantasmi dell’era grunge (Cobain il riferimento scontato in ‘Leviathan’): a uscire realmente esaltata da questo spericolato viaggio a ritroso è la protagonista di sempre, quella voce allucinante e catramosa. Che satura gli interstizi armonici di un nuovo, magico esorcismo metropolitano (‘St. Louis Elegy’), o si lascia incorniciare da un contesto sonoro alieno ma mai sopra le righe, anzi, sempre impeccabilmente al suo servizio: tastiere liquide, elettronica retrò a manciate, drum machine inesorabili (‘Harborview Hospital’, che sembra una di quelle vecchie pellicole del cinema muto colorate ad acquerello). Se i singoli episodi convincono, è il disco nel suo complesso a funzionare come affresco coerente ed ammaliante: quel che ci si aspetta da un Mark Lanegan in buono stato di forma quale è a tutti gli effetti l’autore di ‘Blues Funeral’ , album capace di commuovere, affascinare e spiazzare (‘Ode To Sad Disco’,  tutto un programma) assumendosi tutti i rischi del caso senza commettere ingenuità o passi falsi. Quando si parla di fuoriclasse…

      

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Hawk

 

Penso di esserci andato giù pesante con il terzo e – si spera – ultimo album della premiata ditta Lanegan/Campbell ma tant'é, di forzare la sincerità del giudizio per sostenere a priori due artisti che pure ho sempre stimato non me la sono proprio sentita. Non questa volta. Questo disco, a dirla tutta, non avrebbe dovuto neanche nascere. Già 'Sunday At Devil Dirt' sapeva per molti versi di corda tirata, di rischio grosso. Una scommessa vinta comunque, miracolosa, un lavoro che ad oggi continua a piacermi se possibile anche più del primo capitolo di questa strana collaborazione. Sono opere riuscite per l'equilibrio estremo e la coesione che mostrano. Una magia, in un certo senso. Qualità che in 'Hawk' sembrano andate a farsi benedire, senza possibilità d'appello. Anche stavolta la critica generosa (o ottusa, fate voi) ha scelto di non voltare le spalle al tenebroso rocker e alla soave cantante scozzese, tirando in ballo giudizi alquanto campati in aria, fotocopie di quelli già sfoderati nelle precedenti occasioni ma in questo caso decisamente a sproposito. Non occorrono orecchie chissà quanto fini per rendersi conto che a questo giro prevalgono la noia, qualche idea di scarto e la replica sbiadita di quanto già fatto. Considerata la marginalità di Mark, nella scrittura come nel cantato, è presumibile che il nostro abbia accettato suo malgrado il rinnovo di contratto, senza crederci affatto. Prospettiva opposta a quella della deliziosa Isobel, che a queste canzoni ha dimostrato di tenerci pur non potendo salvarle da un senso di diffusa inutilità e di mediocrità, anche. Il suo lavoro e la sua abnegazione restano ammirevoli, come la sua voce e quella del compagno d'avventura. Ma l'urgenza è zero ed anche il materiale di partenza francamente modesto rispetto a quello dei primi due album. Quasi un disco solista per l'ex voce femminile dei Belle & Sebastian, con ospitate non proprio memorabili qua e la (pessime quelle di Willie Mason), che potrebbe aver senso come episodio anomalo ed interlocutorio nella sua carriera ma che vale veramente poco collocato sulla stessa linea di successione di 'Ballad of the Broken Seas', copertina (bella) a parte. Va bene ascoltare la Campbell che si cimenta con le ballate desert folk o con gli stereotipi dell'Americana più tradizionalista, ma se questo deve comportare un periodo di pausa ulteriore per l'ormai troppo rilassato Lanegan è meglio metterci un punto al più presto. L'ultimo suo vero disco, 'Bubblegum', è uscito ben sette anni fa. E' pretendere troppo che l'ex Screaming Trees la smetta di giocare a nascondino approfittando di qualsiasi progetto collaterale e torni a impegnarsi in qualcosa di veramente struggente e di suo? Da fan di entrambi, con tutta la benevolenza di cui sono capace, vorrei far sapere loro che di dischi come 'Hawk' nessuno sente il bisogno, forse neanche loro stessi. Se di lacrime e sangue si deve cantare, allora ci diano lacrime e sangue veri. Non un brodino insipido come questo. 

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