Un Amore  _Letture

      

Ritrovare Buzzati dopo quasi vent’anni è stata una sorpresa, forse, ancor più che un piacere. Negli ultimi anni ho definito una sorta di implicito veto sugli autori italiani. Quelli relativamente “classici” li ho affrontati negli anni del liceo, alcuni anche in quel paio di esami di letteratura sostenuti durante il mio segmento universitario. Quelli che classici devono ancora diventarlo, invece, i nostri veri contemporanei, li lascio volentieri fuori. Ho i miei pregiudizi, come tutti, ma fatico a trovare nella prosa attuale artisti che meritino davvero attenzione. C’è uno splendido aforisma di Thoreau che mi piace citare, ed è quasi un mantra per me da quando si è ridestata in me la voglia di leggere, la sera, piuttosto che offendere il mio tempo davanti allo schermo vuoto della televisione: “Leggi per primi i libri migliori: potresti non avere l’occasione di leggerli tutti”. Non me ne vogliano i romanzieri italiani celebrati nelle classifiche di oggi, se preferisco dedicarmi a loro colleghi stranieri. Sarebbe come preferire autarchicamente il cinema italiano attuale a quello degli altri paesi, compresi tutti quelli emergenti, per il fatto stesso di essere un bene nazionale. Una sciocchezza colossale. Di cinema su queste pagine parlo pochissimo, ma il cinema è sempre stata una delle mie poche, vere passioni. Questo deriva anche forse dal fatto di essere italiano, e dal fatto che il Cinema italiano è stato uno scrigno di assoluti capolavori, per tanti e tanti anni. Oggi non è più così, inutile illudersi. Si afferma ogni tanto un autore di spessore con il suo stile importante e personale, così abbiamo di tanto in tanto i ‘Gomorra’ e ‘Il Divo’ in cui specchiarci con compiaciuta soddisfazione, al di là dei contenuti evidentemente non troppo edificanti. Ma quella che per il nostro cinema una volta era la norma, ora è l’eccezione. Qualche valido nuovo regista solo ogni tot anni, sceneggiatori con la esse maiuscola manco a parlarne (siamo fermi alle commedie amare da trentenni immaturi da quanto? Alla faccia degli Zavattini, dei Flaiano e delle Cecchi D’Amico), attori degni di questo nome solo sui peana marchettari della solita stampa. Per la letteratura (e anche per la musica, purtroppo), non vedo grandi cose da almeno venti anni. Forse è solo un mio limite, ripeto, ma non posso farci nulla. Tutta questa lunga e noiosa premessa solo per dire che qualche mese fa ho preso in mano ‘Un amore’ di Buzzati, autore maiuscolo che non incontravo dai tempi de ‘Il Deserto dei Tartari’ o ‘La Boutique del Mistero’, ed è stato colpo di fulmine.

In uno sterminio di formiche frenetiche assetate di benessere e lascivia, nell’alveare caliginoso di un’ininterrotta ed operosa periferia, il cinquantenne Antonio Dorigo conduce senza grandi slanci la sua tranquilla esistenza di borghese piccolo piccolo, relativamente benestante, di intelligenza media e – sostiene lui – alquanto fortunato. Non ha particolari problemi se si omette l’incapacità cronica di rapportarsi in maniera men che fallimentare con il gentil sesso. Per riscattare la sua natura di uomo impacciato e poco brillante opta quindi spesso per l’amore a pagamento e frequenta assiduamente la scuderia di ragazze di una quantomeno decorosa maitresse, la signora Ermelina, dando così forma “ad un sogno realizzato, ad un colpo di bacchetta magica, per ventimila lire”. E’ proprio in questa casa di appuntamenti che conosce Laide, una giovane squillo genuina e impertinente, ragazzina senza testa lanciata alla disperata attraverso il mondo, che per il povero infatuato diventerà presto la più devastante delle ossessioni rendendolo involontario epigono del professor Unrath de ‘L’Angelo Azzurro’.
‘Un amore’ è in primo luogo la cronaca dettagliata e dolorosa di questo affetto non corrisposto e messo a dura prova da tutta una gamma di altre emozioni minuziosamente tratteggiate dalla penna precisa dell’autore, impietoso nel lasciar scorrere senza filtri le angosciose riflessioni del suo antieroe, dal risentimento a tutto campo ad una gelosia destinata a sconfinare nel patologico.
A Buzzati interessava raccontare al meglio la crudeltà implacabile di cui è potenzialmente portatore il più nobile dei sentimenti quando assuma i contorni di un’esperienza totalizzante e squilibrata, quando va in scena la persecuzione di un pensiero fisso in ogni istante millimetrico della giornata e ci si ritrova prigionieri coscienti di una passione “falsa e sbagliata”, quella sorta di triste autunno evocato nelle bellissime pagine che chiudono il libro. In questo viscerale e bellissimo romanzo lo scrittore milanese è riuscito però a fare molto di più. Ha saputo rendere avvincente, per esempio, una trama altrimenti pretestuosa e ripetitiva riportando con vividezza la paranoia di Antonio e al tempo stesso evitando di sbugiardarne i fondamenti grazie ad una mirabile ambiguità di fondo, rendendo cioè il lettore perennemente malfermo sulle sue fragili ed incerte convinzioni.

A risultare particolarmente riusciti sono entrambi i personaggi principali. Non soltanto quello titanico – con tutte le accezioni negative del caso – di Dorigo, ma anche e soprattutto quella Adelaide ‘Laide’ Anfossi che a detta di molti non sarebbe molto più di una figurina senza profondità alcuna, dimenticando però come lo sguardo sempre condizionato di Antonio ne capovolga pietosamente il ritratto nelle battute conclusive, rivelando un’umanità fino a poco prima inimmaginabile. Questa miscela esplosiva di sfrontatezza invereconda, sete confusa di vita, gusto di vendicarsi dell’umile sorte, popolaresco orgoglio e candore di bambina è in realtà elemento cruciale nel romanzo per le innumerevoli implicazioni anche allegoriche portate in dote con sé. E’ eletta a simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermenta di insaziabile vita intorno alla noia dei borghesi, con impliciti rimandi di tipo socio-politico che pare fin superfluo ribadire. E’ poi descritta più volte come l’”ignoto” o l’”avventura”, come colei che si scatena la notte ballando il rock’n’roll, e col senno di poi la si potrebbe agevolmente ricondurre, come personificazione pure grezza, ai fermenti di una gioventù che solo un lustro più tardi avrebbe dato vita al sessantotto.
A risultare fondamentale è anche la sua natura di ballerina prima ancora che di meretrice, perché in un rapporto in cui il desiderio sembra contare assai più del sesso nudo e crudo, la danza diviene per Dorigo il simbolo lirico del femminile, del corpo, della passione, dell’attrazione e, in definitiva, della bellezza. Ultimo decisivo parallelismo è quello che vede specchiarsi in Laide una Milano promossa da semplice sfondo al rango di coprotagonista: dura, sfacciata, insolente, equivoca, corrotta e condannata per indole ad uno stravolgimento radicale in nome del denaro e di un benessere ipocrita e astutamente perbenista. Nel 1963 la città stava cambiando pelle, la società anche: una sola fotografia rende testimonianza di questa duplice rivoluzione in atto.

‘Un Amore’ è davvero un’opera sorprendente. Sorprende la qualità mimetica di un’indagine introspettiva realmente aliena all’artificio, agevolata da spunti autobiografici innegabili ma abbastanza fine da non restare invischiata nella morbosità gretta ed insulsa per guardare invece a principi e sentimenti universalmente validi. Sorprende la freschezza agevole della prosa, soprattutto per quel fare ardito che stravolge modi, tempi e persone, ed alterna lunghissimi monologhi interiori a dialoghi serrati e assai puntuti, panorami fulgidi come quinte teatrali e straordinari inserti onirici, senza colpo ferire. I pensieri affastellati a perdifiato in sequenze incoerenti, senza pause, con una punteggiatura disinvolta quando non volutamente latitante, ben rendono il caotico incalzare delle divaganti impressioni di un protagonista dalla mente vivace, oppure la frastagliata e pullulante ricchezza umana della grande periferia, con tutta la densità di mille vite che fermentano, quel senso delle case intorno una attaccata all’altra, verticalmente rigide, grigie, sature di vite umane, sipari tremendi uno sull’altro asserragliati.
E’ anche un romanzo onesto nella sua critica sottile e mai gratuita a certi falsi miti borghesi ormai in ambasce. Coraggioso e profondamente in anticipo sui tempi per come ha saputo rompere la crosta di tanti tabù logori in fatto di costume e comune senso del pudore, senza abbassarsi a svilire la forza del proprio messaggio con trovate volgari o di pura sensazione. Intendeva raccontare l’uomo e la società del tempo, in fondo, evitando accuratamente di lasciarsi andare a tratti e caratterizzazioni troppo marcate: una mosca bianca in un’epoca in cui l’autocensura e l’iperbole fasulla andavano ancora decisamente per la maggiore.

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