Lo Strappacuore _Letture

      

Non è proprio il libro di Vian che consiglierei così su due piedi, questo “Lo Strappacuore” (o “Lo Sterpacuore”, a seconda dell’edizione), ma resta forse la più potente testimonianza della sua arte visionaria, anche più del capolavoro riconosciuto “La Schiuma dei Giorni”. Un testo apparentemente folle, impazzito come il calendario nelle pagine del diario del suo protagonista, Giacomorto, prima che il finale ne sveli con lucidissima amarezza la logica ultima, crudele ma tutt’altro che gratuita. Le riflessioni sull’amore e la libertà qui contenute, cupe e violente come forse nemmeno nei volumetti hard-boiled firmati dall’alter-ego Vernon Sullivan, sono tra le vette della produzione narrativa di Vian. Nel testo rimane però un senso di minaccia costante, sgradevole, perturbante, che lo rende di certo meno accessibile rispetto ad altri del grande autore francese. L’immaginazione si conferma comunque al potere, e con prepotenza. Se piace il genere e magari si è già fatta la conoscenza di Vian, un titolo imperdibile.

Giacomorto è un bizzarro psicanalista incapace di provare e “assimilare” le passioni dei suoi pazienti. Sul finire di una non meglio precisata estate lo troviamo ai margini di un’amena località costiera, in cerca di un posto tranquillo in cui esercitare una forma estrema di analisi, sorta di identificazione compiuta per mezzo di brame, pensieri intimi e inconfessabili, in un “gran consumo di menti”. La gente del paese, “un po’ rozza ma interessante e ricca”, sembrerebbe fare al caso suo. L’esordio nella cittadina è peraltro già una discreta avventura e lo vede impegnato nei panni della levatrice per l’intrattabile Clementina e i suoi inquietanti tremelli, Joel, Noel e il più carismatico Citroen. Dotato di spiccate qualità di osservatore apparentemente asettico, Giacomorto si insedia così nella dimora e nella vita di questa nuova famiglia, iniziando a registrarne le dinamiche (la moglie opta per un’astinenza radicale e per il rifiuto anche fisico di suo marito Angelo, che nel contempo non riesce a imbarcarsi in relazioni extraconiugali e sceglie di salpare con una barca di fortuna verso lidi ignoti) senza riuscire peraltro a influenzarne l’inerzia, rivelandosi incapace di andare al di là della pura prevaricazione sessuale nei confronti della stizzosa cameriera Culobianco e limitando i successi in ambito professionale alla (fin troppo) riuscita psicanalisi compiuta su un gatto nero. In questa specie di folle diario dello psicologo forestiero, il tempo inizia a correre come impazzito fino a deragliare: i giorni diventano mesi, i nomi dei mesi si mischiano confondendo ogni logica prospettiva e negando ogni appiglio allo sprovveduto lettore. I bambini sembrano crescere in maniera abnorme e arrivano ben presto a operare come autentiche appendici della madre, veri mostri con doti straordinarie sapientemente occultate, oscuri pulcini amorali tratteggiati come evidenti caricature della strisciante tirannia esercitata dai neonati. Segue un paio di iati lunghi anni e molte prospettive vengono sorprendentemente rovesciate, con il protagonista che si dice assuefatto (“Sono stato posseduto. Questo posto mi ha posseduto”), privato di ogni vitalità, e decide di dedicarsi all’interpretazione dei pensieri del maggior reietto della piccola comunità, il tormentato La Gloria. Al tempo stesso Clementina si lascia progressivamente schiacciare dall’ossessione per i figli, come a voler punire qualche rara e innocua disattenzione dei primi tempi. Un sacrificio assurdo scambiato per sincero amore la spinge a nutrirsi dei soli scarti avariati dei pasti dei bambini, in un crescendo di disgustosi deliri e privazioni autoinflitte. Via via appare sempre più paranoica, angosciata dalle “sanguinose fantasticherie” sugli innumerevoli pericoli che i figli potrebbero correre di continuo. E quegli stessi bimbetti che nelle prime pagine parevano destinati a bruciare ogni tappa quasi fossero depositari di un misterioso genio superomistico, salto dopo salto nell’intreccio sembrano in realtà sempre più bloccati in una fase puerile e primaria del loro sviluppo, la stessa in cui li costringe una madre terribilmente asfissiante, con la sola significativa costante di sinistre predisposizioni e curiosità verso il rigoglioso universo che esplode attorno a loro. La strada che conduce a un’indicibile rovina è segnata, con i muri e il terreno nel giardino della grande casa sostituiti per volere di Clementina da perimetri e tappeti fatti di “invisibile assenza”. E’ il paradosso dell’ossessione iperprotettiva e anestetica della donna, nel suo idealismo liberticida: “Bisogna costruire loro un mondo perfetto, un mondo pulito, gradevole, inoffensivo, come l’interno di un uovo bianco posato su un cuscino di piume”.
L’esatto contrario, insomma, del mondo di fantasia particolarmente cupo e sgradevole delineato con abilità surrealista da Vian, con Giacomorto a rappresentare il lume della ragione e della civiltà nel suo incontro/scontro con una comunità retrograda e crudele, dove gli anziani sono dileggiati e smerciati in apposite fiere di piazza e i bambini vengono sfruttati barbaramente nei lavori di fatica fino a una morte puntuale, priva di clamore. E dove le responsabilità del marciume, i mali, il peccato, il rimorso, sono scaricati senza troppi complimenti nel fiumiciattolo rosso che conduce in paese, dove il vecchio La Gloria è pagato oro (che non potrà mai spendere) per ripescarli e farsi carico dell’altrui vergogna con silenzioso fatalismo. Questo angusto e squallido teatro si configura dalla prima all’ultima pagina come un concentrato di insensata violenza e immoralità trionfante, con la penna dello straordinario autore francese particolarmente cruenta e barocca nella raffigurazione dei suoi incubi opprimenti (la crocifissione del cavallo e il terribile abbattimento degli alberi, tra i più feroci) e delle sferzanti deformazioni riservate tanto all’ambiguo opportunismo della fede (memorabili le grottesche celebrazioni di un curato ossessionato dall’idea della religione come lusso dovuto a Dio) quanto alla risibile sterilità della psicanalisi, due sfere accomunate dal culto spropositato che sempre le circonda e dall’inadeguatezza a fornire valide risposte. Più che un semplice romanzo, “Lo Strappacuore” è quindi un’allucinante e dissacrante fiaba per adulti. Vertiginosa, nelle evoluzioni di un linguaggio al solito crudo ma vitalissimo, denso di calembour e ibridazioni lessicali, brulicante come il giardino sulla scogliera con le sue mille piante chiassose e infestanti. E impietosa, anche, per come mette a nudo i possibili squilibri di un amore malsano, o i guasti causati dall’egoismo che alberga nell’animo umano e tende a svilire ogni rapporto interpersonale (affetto, amicizia, collaborazione), sacrificandolo all’idolo del possesso cieco, indiscriminato, prevaricante. Con simili premesse, la disperata disillusione scatenata nello splendido finale pare non solo inesorabile ma anche inevitabile: da un lato l’impotente Giacomorto, destinato a raccogliere il triste testimone dell’ormai defunto La Gloria e a colmare il proprio vuoto con l’altrui vergogna; dall’altro Clementina, finalmente placata nella sua inesausta follia dopo aver definitivamente rinchiuso i figlioli in piccole gabbie, atto ultimo di una sopraffazione e di un arbitrio totalizzanti spacciati fino alla fine per amore.
“Non c’è niente di più poetico del buon senso”, sostiene lo sconsolato psicanalista in uno dei suoi fenomenali flussi di coscienza. Volendogli dare retta, “Lo Strappacuore” sarebbe tutto fuorché un’opera poetica. Vian era insomma anche uno straordinario bugiardo.

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