King Tuff

       

Davvero lieto che sia giunta l’ora di recuperare questo che per me è stato un album imperdibile dell’ultimo lustro. “Un anno di stagionatura” recitava la rubrichetta specializzata in recuperi sul Mucchio. Beh, in caso dell’eponimo di King Tuff sarebbe corretto parlare di “due anni e mezzo di invecchiamento”, questo per rendere conto di come mi sono ridotto da queste parti nella presentazione dei vecchi pezzi. Avrei sperato di celebrarlo alla grande, offrendo insperate ma succose novità sul conto del ragazzaccio del Vermont, ma mi ha detto male: di aggiornamenti su Kyle non ce ne sono, in barba alla trentina di mesi trascorsi dall’uscita di questo fantasmagorico capolavoro. Trenta mesi, pensate un po’: in territori affini, gente come Ty Segall o i Thee Oh Sees avrebbero fatto uscire non meno di otto LP, qualche split pulcioso e quelle due o tre raccolte di rumenta per completisti. Lui no invece, è tornato a eclissarsi e non sembra impensabile che debbano trascorrere altri due anni e mezzo per risentirlo, evidentemente abbonato ai multipli del cinque (questo per i patiti della cabala). Nell’intervallo trascorso, il disco in questione l’ho scaricato, amato, comprato e recensito in un pezzo nel quale ho convogliato tutto l’affetto di cui mi sentivo capace. La cosa più carina che ho scritto di lui è quell’etichetta – glam con la forfora – che non è neppure mia ma credo gli calzi a meraviglia. Per il resto c’è tutta la sbrodolata a base di istantanee impietose ma ficcanti che gli ho cucito addosso con inesausto entusiasmo (voilà, allitterazione servita). Dimenticavo solo di scrivere, a margine del ritratto, che il vinile è fantastico, ricco di cartoline con tutti i testi (può ricordare vagamente “No Code” dei Pearl Jam), ma soprattutto che mi sono a tal punto innamorato della copertina, chiaramente pensata da un garagista drogato di hard rock pulcioso, che non ho potuto esimermi dall’acquistare la relativa T-shirt, rossa fiammante e non meno magica del disco stesso. Cose del genere si impossessano del mio senno molto di rado, ma con King Tuff proprio non c’è stato modo di opporsi all’impulso d’acquisto. E non c’è stato modo di vietare al succitato vinile di piazzarsi sul giradischi dopo forse un annetto per accompagnare queste squallide, stiracchiate parole di introduzione. Rieccomelo nelle orecchie, fichissimo come la prima volta. Buttiamo giù queste fottute pareti, porco mondo!

Brattleboro non è proprio il posto migliore in cui recitare la parte del morto.
Da bravo ragazzo, Kyle Thomas ci ha provato. Si è applicato, diciamo, ma la noia del Vermont sembra già una bella grana per gli esseri umani in carne e battiti, figurarsi per un alias artistico celebrato nella più assoluta sordina come cavallo a fine corsa. Cinque anni fa l’ultimo episodio, King Tuff Was Dead, trasmesso in edizione più che limitata ai pochi depositari del suo culto. Oggi l’improvviso margine per un ripensamento, con la resurrezione affidata agli svolazzi di una bestia trionfante che fa tanto tenera apocalisse. Cranio cornuto per ingraziarsi il dio dei riff, ali di un pipistrello evidentemente scampato al morso dell’Ozzy di turno, bacchetta magica in una zampa e la fidata Jazijoo nell’altra. Adottare un moniker dalle comic strip negli incarti delle gomme da masticare e regalare un nome di battesimo alla propria Gibson preferita saranno anche solo dettagli, ma raccontano già molto del personaggio. L’abito eletto con strategica noncuranza non può che fare il resto. Inorridiscano pure i maniaci dell’hype più sfrenato, qui nessuno potrà sentirli urlare: le pesanti camicie di flanella a quadrettoni d’ordinanza, lunghi e luridi capelli indirizzati sulle spalle da baseball caps rigorosamente non indossabili, se ancora ci si possa dire dotati di una qualche forma di umana dignità. Tutto già visto e in versioni migliori, non in un ritardo tanto clamoroso, addosso a quella vecchia canaglia di J Mascis. Ecco, proprio lui. Accostare il dinosauro e il cadetto nella stessa inquadratura potrebbe sembrare un azzardo, come immortalare l’attimo esatto di un’investitura o lasciare che il giovane Bowman della galassia indie dia una sbirciata alla versione più bianca e disincantata di sé. Eppure è successo. J dietro ai rullanti, Kyle nei panni del leader, in un pungente e grossolano carnevale stoner intitolato Witch. Anni tumultuosi sono trascorsi da allora, con in sottofondo il folk acido dei Feathers e le sfarfallanti armonie sunshine del progetto Happy Birthday, prima uscita dell’apostolo fricchettone per l’etichetta che fu di Kurt Cobain e della vampa grunge.

Oggi il risveglio della sua creatura solista. La vena psych da battaglia si ritaglia una frazione infinitesima della torta e concede ampio sfogo al candore pop rigorosamente deviato ma contagioso che Kyle teneva dentro da chissà quanto, tra bagliori sovraesposti di chitarre e quella vocetta dolciastra e sgraziata da ragazzino. Senza dubbio, una sorpresa. Un atto d’amore incondizionato alla stravaganza plebea dei Chuck Berry e degli Elvis, alla languida spensieratezza degli anni sessanta e a certe pose ormai fin commoventi dalla mitologia dei settanta, il tutto confezionato con spirito ludico sempre entusiasta e fede incrollabile nel potere lenitivo di un rutilante jukebox. Messa in questi termini si sarebbe indotti a immaginare il solito stanco revival, un campionario di cliché beat e powerpop mistificati dal risaputo velario della bassa fedeltà. Non è così. Questo disco eponimo incarna un’attitudine, una visceralità onesta, quella fanciullezza inerme e un po’ scoppiata che all’ascoltatore strizza l’occhio e da di gomito, invitandolo a buttarsi nella mischia senza star lì troppo a favellare. La differenza la fanno le melodie auree, forgiate con l’intuito dell’alchimista che sa trasformare anche un ritornello sbrindellato e senza spina dorsale nel più consolante e irresistibile dei sing-along. E la fa il miracoloso senso del ritmo, innato in questo autodidatta svezzato a latte e Cramps: sornione all’occorrenza, come quando cede il passo al romantico miniaturista (‘Unusual World’), irresistibile sempre. A tratti l’enfasi passatista si fa particolarmente accesa, come l’euforia quasi brada del suo inestinguibile fuoco sacro, e lo strappo dagli anonimi ma sereni integrati assume allora le proporzioni di una distanza incolmabile. Ripesca magari un jingle già rubato dai Dandy Warhols nell’unico passaggio di cui ancora ci si ricorda, ma dell’anticonformismo bohemien che spacciavano quei furbastri non resta che il raccolto magro del vero perdente per deformazione esistenziale, perfino orgoglioso nella sua fiacca e formidabile indolenza. Non ricerca applausi il ragazzo.

Quella del rinato King Tuff è pura weirdness d’assalto, miscela infettiva di ingenuità demodé e inconsapevole opportunismo. La benzina che infiamma il bubblegum (‘Bad Thing’), la sega elettrica che affetta i refrain alla meno peggio ed offre un nuovo smalto hard-rock a quello che altrove diresti un traditional irlandese da piola (‘Anthem’). Da ‘Alone & Stoned’ a ‘Stupid Superstar’, il Nostro non fa che dispensare limpidi autoritratti, elogi del dropout contemporaneo schiavo delle insindacabili passioni che lo hanno reso il delizioso reietto nostalgico di oggi. Nell’ironica mise en abyme l’identico tetro incanto dell’epopea surf, superando nello scatto anche il lanciatissimo Ty Segall degli ultimi tempi. Il senso di meraviglia è incontaminato e tradisce la sensibilità nello sguardo di un grande autore, camuffato da freak di provincia quasi aspirasse a prolungare in incognito la quiete del proprio felice anonimato.
Kyle è veramente l’idiot savant della nuova scena garage. Un prodigio autoconfinatosi nel polveroso retrobottega della tradizione canzonettara americana. Una speranza, un primitivista autentico, uno dei pochi rimasti. Il Mark Bolan con la barbaccia che fa i doppi turni giù al cantiere. La bonarietà inebriante del sidro di mela, che ti si arrampica su per il naso e si affranca con un’esplosione. Il mostro della laguna nera che vende zucchero filato al lunapark, con lo stereo sempre a palla. E’ il glam con la forfora, come hanno scritto i suoi più affezionati seguaci. Molto più numerosi, ora che la mano di uno sceneggiatore invisibile gli ha restituito quel debordante alito di vita. Solo dodici nuovi episodi a questo giro, solo un pugno di stupide canzoni che ti si attaccano addosso come i vecchi trasferelli. Abbastanza comunque per tenere sotto scacco la noia, nel Vermont come in qualsiasi altro posto.

4 Comments

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