Il Maestro e Margherita _Letture

       

Finalmente è l’ora di Woland, di Behemot, Korov’ev, Azazello e compagnia cantante. Affrontato un paio di anni fa, devo ammettere che del caos vertiginoso ma anche del rigore morale di questo superclassico ricordo ben poco, al di là del colorato corteggio di figurine diaboliche e di qualche vaga reminescenza sulla figura di Pilato. Un bel guaio per la mia memoria zoppicante, non necessariamente un male però: quando dovessi riprendere in mano il bel volume dei Supercoralli, potrei sempre regalarmi una nuova “prima visione”…

 

Mosca, primi anni trenta. Sotto le spoglie del gentiluomo, esperto di magia nera e grande artista straniero Woland, presso gli stagni Patriaršie Satana fa la sua comparsa in città una sera di primavera. Si intromette garbatamente in una discussione all’insegna dell’ateismo tra Michail Aleksandrovic Berlioz, presidente del Massolit (una delle più prestigiose associazioni letterarie locali) e l’acerbo poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, detto Bezdomnyj, sostenendo senza la minima esitazione di aver conosciuto Gesù Cristo, come pure il filosofo Kant, e arrivando a vaticinare il cruento decesso del più anziano dei suoi interlocutori. Che si verifica a strettissimo giro di posta, quando l’esimio funzionario viene investito e decapitato da un tram nel tentativo non proprio lucido di denunciare il singolare personaggio come spia. Con il giovane letterato messo fuori gioco dall’apparente assurdità dei suoi resoconti e internato come schizofrenico nella casa di cura del professor Stravinskij, il (cosiddetto) maligno non ha problemi a interferire nella vita politica e culturale della capitale sovietica per smascherarne ipocrisie, iniquità e giochi di potere meschini, mettendo alla berlina tutta una serie di burocrati e intellettuali di regime, ma non disdegnando di far risaltare anche l’avidità e la vanità della ricca borghesia.

 

Accanto a lui, una piccola cerchia di pittoreschi servitori: l’enorme gatto nero Behemot, irriverente e spassoso; il grottesco illusionista Korov’ev (o Fagotto); il sicario Azazello, addetto ai lavori sporchi; la sensuale strega Hella e l’inquietante Abadonna, presago silenzioso di morte in occhiali rigorosamente scuri. Tra le numerose folli scorrerie che vedono come protagonista la cricca satanica, spiccano la farsesca rappresentazione al Teatro di Varietà, adescamento collettivo per i peggiori vizi della cittadinanza corrotta, l’incendio al magazzino alimentare Torgisin, simbolo del privilegio e dell’ingordigia delle classi abbienti, e quello al ristorante Griboedov, tempio vitaiolo dell’intellighenzia “integrata”, di quelle mediocri “anime morte” scelte da Bulgakov come bersaglio privilegiato della sua invettiva.

 

Lo smascheramento promesso da Woland come paradossale empito moralizzante non è rivolto tuttavia ad una giovane donna, la Margherita del titolo, il cui amore incondizionato e tenace per lo scrittore ormai senza nome, presentato al lettore come “Il Maestro”, rende di fatto immune dal marciume generalizzato. Colpito dalla purezza del suo sentimento, Satana le offre prima di vendicare l’infamia patita dall’autore (il cui romanzo “umanista” su Ponzio Pilato venne massacrato perché ritenuto un’intollerabile agiografia del Cristo, di fatto condannando il suo creatore alla pazzia e all’isolamento) – rendendola strega svolazzante e dandole licenza di devastare l’appartamento del più feroce dei critici letterari, Latunskij – quindi la invita a vestire i panni della “Regina” al gran ballo del plenilunio di primavera, o “Ballo dei Cento Re”, un Sabba fantasmagorico al cospetto delle più terrificanti anime nere giunte apposta dalle porte dell’inferno. Aver brillantemente superato la prova vale alla fanciulla, resa intrepida dalla speranza di riabbracciare la felicità perduta, il compimento del suo unico grande desiderio: ritrovare l’adorato Maestro e poter tornare a vivere serenamente assieme a lui, al riparo dalle infamie spicciole, dalla mediocrità imperante, dalla prevaricazione di chi non si faccia scrupoli a epurare i pensatori veramente liberi (e scomodi).

 

Il testo su Pilato e sui suoi tormenti per la condanna a morte del profeta eretico Jeshua Hanozri (Gesù Cristo, nella rilettura evidentemente apocrifa che propone Bulgakov) verrà letto e apprezzato proprio da quest’ultimo, che pregherà poi Woland per interposta persona (tramite il suo solo discepolo, Levi Matteo) di “risarcire” il Maestro e la sua Margherita con il riposo in un rifugio ultraterreno, preservandoli entrambi da un’esistenza passiva nel mezzo delle squallide miserie contemporanee. La richiesta verrà esaudita e la stessa pietà verrà riservata al dannato per eccellenza, Pilato, che avrà modo di incontrare in una sorta di lunare aldilà l’uomo che mandò a morte, per potergli finalmente prestare ascolto e placare il proprio sconfinato senso di colpa.

 

“Il Maestro e Margherita” è l’opera più intensa e celebrata di uno scrittore che amava definirsi “mistico”, evidentemente non a torto. Iniziato nel 1928, portato a compimento dalla moglie (postumo e alla quinta stesura) nel 1941, e pubblicato per la prima volta tra mille sforbiciate solo alla fine degli anni sessanta, ha risentito della tormentata gestazione che ne ha amplificato, revisione dopo revisione, i fascinosi squilibri. E’ un romanzo profondamente autobiografico che svela profonde analogie tra la parabola di Bulgakov e quella del suo protagonista, un letterato costretto dalla censura al silenzio e all’infelicità per il carattere “irregolare” delle sue parole (con tanto di manoscritto dato alle fiamme per entrambi). A metà strada tra sofisticata commedia nera e feroce satira di costume, scritto magnificamente e quanto mai fedele all’anima del grande romanzo russo dell’ottocento (per la coesistenza di realismo e slanci di natura spirituale), il testo tradisce nel contempo tutta la propria straripante modernità, affiancando con grande eleganza due piani narrativi ben distinti ma per molti versi complementari, quello della Gerusalemme raccontata dal Maestro nella sua sfortunata creazione e quello della Mosca del tutto fuori controllo trasfigurata con felice ironia da Bulgakov, un teatrino formicolante di figurine meschine e opportuniste, destinate senza più scampo alla sacrosanta dannazione.

 

Le pagine più limpide e appassionate sono quelle dedicate all’intima sofferenza del quinto procuratore della Giudea, dove i temi immortali della viltà e della scelta, del pentimento e della salvazione, sono affrontati con andatura piana ma solenne e riescono particolarmente convincenti. Non si può dire lo stesso di quelle ben più visionarie ambientate nell’attualità del grande romanziere russo, indubbiamente avvincenti, colme di un sinistro incanto, e nondimeno confusionarie, intriganti seppur smorzate nell’impatto dalla messe di allegorie che le popola, non sempre di agevole interpretazione. I personaggi principali, ad ogni modo, restano indimenticabili. Su tutti un Satana/Woland che rappresenta il male necessario in quanto legittimazione del bene (si veda anche l’epigrafe – eloquente – dal “Faust”), e appare più che altro come un giustiziere favoloso, una sorta di Krampus che ha mandato a memoria il Galateo e sa bene che l’amore, ultima vera speranza di un’umanità in ambasce, può avere davvero l’ultima parola, per fortuna.

8.7/10

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