Fool _Letture

       

Che stramaledetto spasso è farsi intrattenere da Christopher Moore! Quelli delle Edizioni Elliot lo hanno capito talmente bene che non si sono persi un titolo, se tralasciamo quel “Il Ritorno del Dio Coyote” edito da Sonzogno ormai una vita fa. Nella recensione che segue ho chiarito punto per punto perché questo pastiche sia irresistibile e compensi certi eccessi altrimenti ravvisati nell’autore statunitense, nel celebrato “Un Lavoro Sporco” ad esempio. Mentre divoravo entrambi i romanzetti non erano ancora usciti in Italia i rispettivi seguiti, “Il Serpente di Venezia” e “Anime di seconda mano”. Ci ha pensato la Elliott, come sempre, in tempi recenti. Sembrano promettere bene ma è difficile che sappiano entusiasmare come “Fool”, davvero Chris Moore al suo meglio.

Nel castello della Torre Bianca il vecchio re della fantomatica Britannia, Lear, ha deciso di farsi da parte e lasciare il regno a quella tra le sue eredi che mostri di amarlo con gli argomenti più convincenti. Tra le due figlie maggiori, le campionesse di perversione e crudeltà Goneril e Regan, è una bella sfida: con opportunismo da fuoriclasse, si servono delle lusinghe più spudoratamente false per gratificare il genitore, e il gioco paga. Non si abbassa al medesimo baratro di ipocrisia la più giovane Cordelia, che non nega all’anziano monarca lealtà e affetto ma nemmeno gli promette l’amore sopra ogni cosa, e per questo viene ripudiata, diseredata e costretta a un matrimonio senza dote con l’effemminato regnante di Francia. La partenza di quest’ultima, la messa al bando del più integerrimo dei cavalieri, il vecchio Conte di Kent, e l’esilio volontario del sovrano con un esiguo seguito di uomini in armi, spalanca di fatto le porte a foschi scenari e lotte intestine, con le sorelle pronte a strapparsi a vicenda l’altra metà del regno e l’infame figlio illegittimo del Conte di Glouchester, Edmund, pronto ad approfittare di una situazione generale non proprio trasparente per usurpare il titolo nobiliare e, se possibile, mettere le mani sulla corona dopo aver sedotto una a scelta tra le principesse fedifraghe.

Il solo ad aver intuito la gravità della situazione non è un nobiluomo, né un prelato o un magistrato, bensì il black fool, Taschino, il matto nerovestito, quella maliziosa e irriverente “sputacchiera di saliva ancora calda” che un po’ tutti a corte vorrebbero da tempo veder morto, forse perché la sua “finissima arte” sfugge regolarmente ai malcapitati bersagli della sua satira. Un po’ tutti, si diceva, tranne quei pochi che, in un modo o nell’altro, stanno appunto levando le tende. Anche a lui è riservata la medesima sorte, per fortuna, una temporanea fuga dal centro del pericolo, ideale per architettare con pochi fidati assistenti – l’amichevole apprendista minus habens Drool, il Conte di Kent ringalluzzito da un incantesimo, uno spettro in forma di fanciulla che dispensa enigmi in rima, una terna di streghe bonaccione, e il severo alter ego in miniatura Jones, picchiatore manifesto in stretta sinergia con la sua velenosa linguaccia – un ardito piano di riscossa che rimetta tutto a posto e regali all’ultima pagina il più scintillante degli “…e vissero felici e contenti”. Per la redenzione dei malvagi irrecuperabili, come per il riscatto di chi era marcio nonostante le apparenze, non ci sarà spazio ma l’amore, almeno quello, non potrà che trionfare.

E’ un Medioevo distopico ma incredibilmente attuale quello in cui si trovano a recitare – in certi frangenti, letteralmente – gli attori di “Fool”. Proprio come oggi ci sono due papi (uno “scontato” e uno “al dettaglio”) e il sesso è al centro di tutto, un’ossessione quotidiana declinata con gioiosa esuberanza, quasi come in una versione del Decamerone riveduta e corretta per restare al passo coi tempi. In quello che è un mirabolante minestrone di tòpoi shakespeariani – intrighi, sotterfugi, sensi di colpa, sprofondi a intermittenza nella pazzia, streghe e fantasmi, mutuati per ammissione dell’autore da una dozzina abbondante di opere del Bardo – Christopher Moore si prende la briga di riscoprire e nobilitare la figura del matto, da semplice dotazione o “divertimento ornamentale” di corte a metafora stessa di vitalismo e imprevedibilità, da cantastorie, giocoliere e diletto per infante (più o meno cresciute) a strumento del caso come nelle carte, il “numero zero” dei tarocchi che sfugge qualsivoglia categorizzazione e può rimettere ogni dettaglio in discussione, persino farsi motore dell’azione in un’esilarante black comedy e scatenare una guerra senza spade (ma con pugnali) e armate, con la sola forza dell’arguzia e di un bastone con la testa da giullare.

Moore è scrittore effervescente e pirotecnico come pochi, anche genuino con quel suo entusiasmo refrattario alle etichette e ai filtri di tanta letteratura di successo. Non sempre, tuttavia, i suoi pastiche pop grotteschi riescono gustosi e convincenti fino in fondo. Il deragliamento è eventualità sempre plausibile, il pericolo di indigestione kitsch molto più che concreto, per cui si rischia di ultimare la lettura dei suoi coloratissimi romanzi (uno per tutti, “Un Lavoro Sporco”) quantomeno provati dal bombardamento di rimandi alla cultura di massa. In “Fool” questo inconveniente è scongiurato dalla fluidità della sua penna, per una volta equilibrista con i fiocchi, e dalla felicissima maestria con cui questa piccola farsa è costruita e raccontata. Ma realmente cruciale, ancor più dei dialoghi efficacissimi o di una parodia che non si fa mai travolgere dall’amore viscerale per i suoi modelli, è il protagonista incontrastato. Lo scrittore statunitense è davvero sorprendente nell’animazione del suo genio fuori dalla lampada, incalzante nelle allusioni e salace negli affondi, ma sempre con una sottigliezza che gratifica e profuma d’intelligenza. Libertino, caustico, amarissimo: Taschino suona come una via di mezzo tra il Woody Allen migliore (quello anni settanta) e un buffone coprolalico e sessuomane à la Luttazzi dei bei tempi andati. Il bello, peraltro, è che non si esaurisce solo nella maschera comica. Supera lo stereotipo in agilità perché è figura umanissima con un triste passato alle spalle e, in barba ai connotati logori del matto, si muove nella storia con una lucidità che a tutti gli altri pare preclusa.

Un libro, insomma, divertentissimo. Il titolo ideale, forse, per chi voglia fare amicizia con Christopher Moore.

8.7/10

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Joshua allora e oggi _Letture

       

E, finalmente… Mordecai Richler. Ok, “La Versione di Barney” l’abbiamo letta tutti, ma l’errore comune è di limitare l’autore canadese a quello che resta il suo indiscusso capolavoro. Richler però non era solo Barney Panofsky, e a ribadire l’assunto pensa soprattutto il romanzone che qui vi presento. Prima di lui c’è stato infatti Joshua Shapiro, altro calco autobiografico superlativo. Il confronto tra i due, in differita di oltre tre lustri a vantaggio di quest’ultimo, può rivelarsi operazione non meno avvincente della lettura di quest’opera datata 1980, già vertiginosa per l’intreccio, per le digressioni esaltanti oltreché per la profusione di figurine minori (ma irresistibili) dalla generosa galleria richleriana. Una tirata d’orecchi alla Adelphi, che ha impiegato davvero troppo tempo per pubblicare questa meraviglia (privilegiando magari testi minori e prescindibili, libricini per l’infanzia o raccolte di articoli del Nostro). Ad ogni buon conto, meglio tardi che mai!

Montreal, fine anni settanta: Joshua Shapiro è in convalescenza per un brutto incidente stradale. Giornalista sportivo e televisivo, miscredente di origini ebraiche, autore letterario di un certo successo in Canada, ha perso temporaneamente il controllo sulla sua vita. L’amatissima moglie Pauline è scomparsa nel nulla, uno scandalo sessuale montato ad arte sta danneggiando la sua reputazione e, come non fosse abbastanza, c’è anche un ambiguo ispettore che non esita a fargli le pulci per un comodo tornaconto personale. Su di lui e i suoi tre figli vegliano però come angeli custodi il padre Reuben, ex promessa del pugilato ed ex scagnozzo del boss della mafia locale, e il ben più azzimato suocero, rappresentante del Quebec patrizio e per lunghi anni senatore influente. Impossibilitato a far altro che riposare e tornare indietro con la memoria, Joshua si perde tra i mille rivoli incoerenti del suo passato, quasi a voler cercare brandelli di senso alle attuali, sfavorevoli circostanze, all’allontanamento della donna conquistata con perseveranza ammirevole (e mai tradita) e all’irriducibile corruzione del bel mondo ipocrita che aveva imparato a conoscere e fronteggiare, che ora gli sfugge e pare pronto a espellerlo come il corpo estraneo che è sempre stato.

Senza fornire pratiche guide ai suoi itinerari, Mordecai Richler ci invita a seguire Joshua nel dedalo dei suoi trascorsi, saltabeccando tra i duri anni della fanciullezza, a ridosso del secondo conflitto mondiale, e quelli in apparenza più confortevoli dell’affermazione professionale, tra le scapigliate disavventure giovanili a Ibiza – qui fascinosa e pressoché incontaminata – nell’inseguimento impossibile al mito delle brigate internazionali nella Spagna della guerra civile e la boheme povera ma onesta spesa in una Londra ancora ben lungi dal potersi fregiare dell’accattivante etichetta swinging. Tra furfanti matricolati, parenti serpenti, circoli di scrittori boriosi e comunisti da operetta, riccastri drogati di mondanità e vecchi amici pronti a pugnalarsi alla schiena, ricostruiamo assieme al protagonista il rutilante mosaico dei primi cinquant’anni della sua vita, simpatizziamo con lui, pure non sempre impeccabile, e con gli anticorpi che ha sviluppato strada facendo in contesti quasi immancabilmente vili, urticanti, cinici e gretti, la corazza formidabile per sopravvivere con la necessaria purezza senza soccombere alla stupidità o al moralismo imperanti.

Pubblicato diciassette anni prima del celeberrimo “La Versione di Barney”, “Joshua Allora e Oggi” è sicuramente ben altro che la pallida copia di quel capolavoro. In primo luogo poiché, appunto, questo romanzo è stato scritto parecchio tempo prima; quindi perché non si tratta affatto di un’opera minore. Molto scaltri e in fondo comprensibili quelli della Adelphi, che battono sul ferro ancora incandescente di quella sensazionale sorpresa letteraria del 1997, assicurando che anche in questo caso il lettore avrà modo di trovare un validissimo surrogato al titanico protagonista del più scintillante successo di Richler. Dimenticano di dirci che ci sono voluti trentatre lunghi anni perché questo libro fosse pubblicato in Italia e che, forse, con un po’ più di avvedutezza allora, sarebbe stato ridimensionato proprio il clamore suscitato poi dalla scoperta de “La Versione”, per come sono andate le cose un autentico fulmine a ciel sereno. Sia come sia, un ponte tra i due romanzi esiste innegabilmente, ma solo perché sono lo stile e l’immaginario di Mordecai, entrambi vividissimi ed entrambi cruciali, a fare la differenza e legare questi titoli.

Sostenere che qui l’autore canadese abbia fatto le prove generali per il ben più tardivo gioiello è sensato. Ma non si deve negare a “Joshua” la dignità che merita. Se volessimo fingere per un istante di non esserci mai imbattuti nel successivo caso letterario, dovremmo ammettere che sì, questo libro brilla di luce propria perché anche stavolta, in tempi non sospetti, Richler ha infilato tantissimo di sé. L’infanzia umile a St. Urbain Street è calda e croccante. La McGill solo agognata e relativa invidia per i rampolli della Montreal bene che hanno potuto frequentarla è puro, superbo, rancore autobiografico. Non parliamo poi dell’ininterrotto compendio di ironia sull’essere ebrei in una società avida di profitti e riconoscimenti, nonché incline all’ipocrisia e al perbenismo: per Joshua Shapiro è pane quotidiano, gliel’ha insegnato l’indimenticabile Reuben tra una visita mancata alla sinagoga e una bella Labatt’s ghiacciata. Ma Joshua e Mordecai condividono tra le altre cose anche la venerazione per Hemingway, un avventuroso soggiorno a Ibiza nei primi anni cinquanta e fondamentali trascorsi londinesi, prima del ritorno in patria da autori affermati e padri di famiglia. E poi l’intelligenza, il bagaglio più prezioso di queste anime eternamente nomadi.

Il gioco delle differenze allontana peraltro i rischi della mera operazione fotocopia. Rispetto a Barney Panofsky, Joshua Shapiro è meno estremo, meno politicamente scorretto (anche se si fa tramite, per il suo creatore, di alcune stoccate niente male contro la legge 110 in difesa della lingua francese, all’epoca tema di scottante attualità), meno disastrato e irrecuperabile. Al contrario, è ben più concreto nella sua ammirevole, ostinata lotta da autodidatta per l’indipendenza e il riconoscimento, in primis personale. E’ caustico, impulsivo, pragmatico, non di rado antipatico, sempre umanissimo. Se l’intreccio ostico per la sua frammentarietà resta l’elemento di massimo contatto tra i due romanzi, proprio ciò che affiora quando si entra nel vivo vale la più netta delle distanze tra essi. Ne “La Versione di Barney” la malattia conduce a un disgregarsi della memoria, a uno sfilacciarsi sempre più confuso della verità che pare perdere ogni certezza assoluta; in “Joshua” si prospetta al contrario una progressiva presa di coscienza, un faticoso riappropriarsi del passato per interiorizzare ciò che di più doloroso vi è sepolto, la consapevolezza che gli errori si pagano, che luoghi e persone cambiano – spesso e volentieri in peggio – e che la giovinezza vola via senza che ce ne accorgiamo. In questo c’è forse più amarezza e disincanto che nel futuro bestseller: le pagine sul ritorno a Ibiza dopo un quarto di secolo non potrebbero essere più malinconiche e sconfortanti.

“I giorni sono lunghi ma gli anni volano”, diceva la nonna di uno dei compagni di scuola di Shapiro. Un paradosso che ne nasconde un altro: le intricate manipolazioni dell’ordito non sono facili da sciogliere, eppure il libro vola via leggero, letteralmente, una sorpresa sbalorditiva dietro ogni curva. Continue irresistibili diversioni, piazzate con regolarità dallo scaltro Mordecai, confondono di continuo il lettore ma amplificano il piacere della lettura, moltiplicano risvolti e sottotracce, inaugurano e interrompono senza posa nuovi romanzi nel romanzo, uno più bello dell’altro. Le riunioni annuali della congrega goliardica della Mackenzie King Memorial Society, le lezioni di etica del padre manigoldo dal cuore d’oro, la dubbia moralità di una madre spogliarellista e fedifraga, la vacuità triste dello sventurato cognato Kevin, l’astiosa doppiezza di Jack Trimble, la limpidezza del “Senatore”, i ritratti imperdibili delle figurine minori (il cugino Sheldon, l’amico Murdoch, il crapulone Seymour Kaplan, l’ignobile Izzy Singer, il miserabile dottor Mueller, la perversa Jane Trimble e il poliziotto McMaster, che sognava di diventare come Wambaugh) implorano per essere ricordati e sostanzialmente lo meritano: sono queste le tessere che concorrono a rendere imperdibile “Joshua Allora e Oggi”, assemblate con maestria dalla sceneggiatura di un Richler in stato di grazia.

Peccato solo, forse, per un finale che gli inglesi definirebbero “pretty decent”: la genialità di “La Versione…” almeno qui, solo qui, manca. Ci sono però tali e tante pagine di straordinaria perfezione (le lunghe parentesi spagnole, l’inizio del legame sentimentale tra Shapiro e Pauline, il demenziale inciso su Mackenzie King e i suoi cani) che, assieme alla consueta profusione di dialoghi fenomenali, garantiscono anche a “Joshua” le cinque stelle piene e, alla buonanima di Mordecai Richler, una benevolenza incondizionata.

9.0/10

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L’Autunno a Pechino _Letture

       

Torno con immenso piacere a parlare di quel genio di Boris Vian. L’occasione mi è offerta dal recupero di uno dei suoi romanzi in assoluto più folli e pessimisti, “L’Autunno a Pechino”, salutato ormai cinquant’anni fa come il capolavoro dell’autore francese, stando a quelli della Rizzoli che si davano pena di promuoverlo. Con un rivale ingombrante come “La Schiuma dei Giorni” l’etichetta suona eccessiva, ma neanche poi troppo. Chiunque non abbia particolari problemi con il Vian più visionario e nichilista, quello dello “Strappacuore” per intenderci, in quest’opera rilanciata in tempi più recenti da Sellerio troverà pane per i suoi denti. Sembra un testo teatrale, anticipa il nonsense vertiginoso di un Richard Brautigan ed è un sublime lavoro poetico, un inno alla stupidità e all’inutilità che merita di non essere dimenticato.

Tra le dune della misteriosa Exopotamia è in programma la costruzione di una linea ferroviaria faraonica. Poco importa se si tratterà della più classica delle cattedrali nel deserto: il consiglio di amministrazione della società che in Francia si è assicurata l’appalto pare lanciatissimo, anche se nelle pompose riunioni dei suoi altissimi papaveri il clou è rappresentato dalla condivisione di cartoline pornografiche, e per le scelte operative si lascia molto alla buona sorte o all’immaginazione. Un direttore dei lavori, il pavido omosessuale Amadis Dudu, ha già avuto il suo bravo incarico; peccato sia giunto sul posto per puro caso, inconsapevole di quanto lo attendesse e condotto là da un autobus della linea 975 che non si capisce come abbia potuto attraversare mari e monti in una mezzoretta scarsa. Poco male, l’impatto con l’ambiente sembra corroborarne lo spirito e lo trasforma dal vessato per eccellenza nell’incubo di quelli che saranno i suoi sottoposti, giunti anch’essi nella desolata regione senza averlo programmato: Angel e Anne, due amici ingegneri entrambi di sesso maschile a dispetto del nome (“nome da cane”, scrive più volte l’autore), il secondo dei quali ha una fidanzata, Rochelle, platonicamente amata dal primo e qui presente in veste di segretaria; il professor Mangemanche, medico del cantiere che pare più interessato a dilettarsi con i suoi modellini d’aereo e a tormentare il suo assistente che non a esercitare con profitto la professione; il personale esecutivo, ovvero i nerboruti Carlo e Marin addetti al lavoro “di fatica”, con i rispettivi figlioli.

A tutti loro l’Exopotamia non sembra avere grandi svaghi da offrire, se si eccettuano alcune anomalie bizzarre (degne per inventiva, in futuro, di un Richard Brautigan) e la compagnia di pochi altri diavoli che vi si trovano imprigionati con serena accettazione: l’attempato archeologo Athanagore e il suo piccolo staff, con in testa la provocante “donna oggetto” Cuivre; la macchietta italiana Pippo Barrizone, proprietario tuttofare dell’unico albergo ristorante; il grottesco abate Petitjean e il suo protetto, l’eremita Claude Leon, riparato in Exopotamia dopo l’omicidio di un ciclista (con l’attenuante che si trattava di un conformista) per esercitare una forma di ascetismo non proprio ortodosso. Nella stasi e nell’apatia che l’ambiente regala in virtù della sua stessa conformazione geologica, il lettore è invitato a seguire il naufragare dei sogni dei pochi idealisti, assieme all’esplosione delle psicosi dei ben più numerosi (e disastrati) comprimari, mentre nulla di quanto programmato procede come dovrebbe, i binari vengono posati senza che una massicciata sia stata approntata e la morte si prepara a mietere il proprio raccolto, quasi con sollievo da parte delle annoiate vittime qui radunatesi.

“L’autunno a Pechino” è un’opera incredibile. Ha il suo stuolo di detrattori come è naturale che sia, trattandosi di narrativa pindarica e non particolarmente mansueta. Chi abbia già una certa familiarità con lo “stile Vian”, per aver affrontato in precedenza i ben più celebrati “La Schiuma dei Giorni” o “Lo Strappacuore”, non dovrebbe faticare a entrare in sintonia anche con questo testo, meno esplosivo in quanto a pirotecnia linguistica e fantastica, meno anarchico nella struttura, eppure di una buona spanna sopra la già ragguardevole media di cupezza e nichilismo dell’autore francese. L’avvio è folgorante. Un’autentica delizia nonsense, pura giocoleria dadaista, introduce uno alla volta i vari personaggi celebrando la poesia del contrattempo. Si fa “bu” agli orologi per mandare indietro le lancette e il giochino funziona, almeno per quella dei secondi; gli uccelli suonano col becco il tema de “I Battellieri del Volga”, ma steccano miseramente; le immagini riflesse nelle vetrine hanno il vizio di sgraffignare la merce esposta nei negozi; e le comuni sedie di legno possono essere operate e perire come qualunque paziente umano in sala operatoria. Terminata questa fase, il romanzo prende a normalizzarsi, a darsi un certo contegno formale, ma mai del tutto. Che senso avrebbe piazzare una ferrovia in un deserto, esattamente sopra un sito di scavi archeologici, e incaponirsi a farla passare proprio dove si trova l’unica costruzione già presente, costringendo all’esproprio coatto e a una demolizione dell’edificio ancor più demenziale in quanto incompleta? Nessuno, se si eccettua un’occasione d’oro per decantare la stupidità immortale di chi è al comando.

Non c’è dettaglio che non faccia pensare a un testo ideato per il teatro (dell’assurdo, si intende). I protagonisti in prima battuta, tutti tendenzialmente sgradevoli e fortemente caratterizzati come tristi caricature, che paiono palesarsi solo per recitare le loro battute sotto i nostri occhi; quindi la scena, desolante ancor prima che desolata, con un pugno di ambienti asettici e tristanzuoli. La struttura espressiva fortemente regolata e il ricorso massivo ai dialoghi non rappresentano tuttavia un limite, bensì un valore aggiunto: la lettura va infatti avanti che è una bellezza, nonostante l’umore saturnino che fa da padrone. Vi sono pagine realmente sublimi, tra le migliori mai scritte da Vian, come quelle del viaggio per mare visto attraverso gli occhi dei due ragazzini innamorati, Olive e Didiche. Il tono visionario, a rilascio graduale e molto ben disciplinato, è ancora una miniera di suggestioni, con lievità e armonia, “dolce come il canto del chiurlo fischione”. Certo come festa dei paradossi “L’Autunno a Pechino” non potrà che lasciare però l’amaro in bocca, visto che l’insensatezza ha rotto gli argini e ha intaccato senza più speranze ogni ambito, testuale e metatestuale (a cominciare dal titolo che, l’avrete capito, è del tutto gratuito, per continuare con le citazioni prive di significato piazzate in testa a ogni capitoletto): l’autore si riserva giusto poche comparsate esplicative o “passaggi”, che più che guidare demoliscono con pungente ironia le poche certezze rimaste a chi legge.

In fin dei conti si tratta di un inno all’inutilità, disincantato e folle quanto basta (come se Vian vi si fosse dedicato dopo essersi perso anche lui nelle porzioni di deserto delimitate dai raggi neri del matto sole exopotamico). Inutile è la vita, che con estrema leggerezza abbandona le spoglie di tanti di questi figuranti; inutile è il lavoro, che premia i parassiti e non produce nulla di utile o bello; inutili sono l’amore e le sue illusioni, ben rese dalla rivalità amore sacro / amor profano nello scontro senza vincitori tra Angel e Anne con l’insoddisfazione appostata dietro il primo angolo, pronta a avvelenare anche il cuore sulla carta più puro. Inservibili sono sia la religione, una scappatoia per i delinquenti, che la ragione, opportunamente affidate in chiave dissacrante ai due personaggi davvero indimenticabili del romanzo: il pretazzo crapulone e donnaiolo Petitjean, con i suoi rosari un tanto al chilo, il suo blocchetto di dispense autoassolutorie e quelle irresistibili filastrocche in vece delle più canoniche preghiere; e il medico Mangemanche, un macellaio in camicia gialla che al giuramento di Ippocrate ha preferito pericolose forme di rimbecillimento. La risposta è l’alienazione di chi sceglie di dimenticare. Come Athanagore, che recupera reperti integri e li distrugge. O come il consiglio di amministrazione, che insiste a perpetrare gli stessi errori a oltranza. In cima alle voci ormai inutilizzabili Vian colloca infatti la storia, quella con la esse maiuscola: costretta a ripetersi fatalmente con le sue tragedie e incapace di insegnare alcunché alle future generazioni. Un romanzo profondamente pessimista “L’autunno a Pechino”, a tratti eccezionale.

8.8/10

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Fidanzata in coma _Letture

       

Qualche anno fa ho preso una sbandata per Douglas Coupland, forse l’autore del quale ho scritto maggiormente qui dentro. Un’infatuazione ragionevole, considerando che i primi suoi romanzi che ho letto sono “Generazione X” e “Microservi”, i migliori (e per distacco) di un catalogo già piuttosto ricco. Dopo un’infilata di mezze boiate ho recuperato questo “Girlfriend In A Coma”, uno dei due testi a suo nome pubblicati in Italia da Feltrinelli, relativi a una fase ancora piuttosto remota nel tempo (1998) e quindi con buone speranze. Pareva uscirne una delle sue opere più desolanti e meno autoreferenziali, grazie al cielo, una sorta di fuori onda più che disincantato dell’era Reagan e dell’era Clinton, non fosse che il canadese ha poi deciso di riservare una doppia sterzata narrativa – prima di taglio macabro, poi all’insegna di un miserabile buonismo – che sul lettore smaliziato ha l’effetto di un Ko. Magari sono io a recitare la parte del duro, come ogni innamorato scottato un passo alla volta dalla delusione. Forse ci si può accontentare del titolo rubato alla canzone degli Smiths, o delle plausibili ricadute cinematografiche del libro forse più cinematografico del Nostro (in un certo senso ero stato buon profeta nella recensione, anche se la serie Tv della NBC con Christina Ricci è stata cancellata poco dopo l’annuncio) però, non so, ho l’impressione che il buon Douglas, oggi drammaticamente a corto di idee, qui abbia voluto esagerare e abbia di fatto “sputtanato” una delle sue cose più pregevoli. Il mio amore per lui, ad ogni buon conto, si è da tempo raffreddato.

Vancouver, Dicembre 1979. In un tranquillo sobborgo abitato da un “ceto medio, che più medio non si può”, sei ragazzi prossimi al diploma trascorrono le loro giornate all’insegna della spensieratezza, tra gite sulla neve e allegre serate alcoliche. Hanno da poco perso un compagno cui erano tutti legati, Jarod, stroncato dalla leucemia, ma cercano di non scoraggiarsi facendo affidamento gli uni sulla compagnia degli altri. Sarebbero solo buoni amici ma di fatto costituiscono tre potenziali coppie d’acciaio: lo scavezzacollo Hamilton e la svampita Pam, legittime aspirazioni da modella e relative ossessioni alimentari; i cervelloni Linus e Wendy, due con la testa il più delle volte tra le nuvole e voti ampiamente sopra la media; e poi Richard e Karen, quelli più “normali” della cricca, verrebbe da dire, quelli tra cui l’amore vero sembra sul punto di sbocciare. E sotto una trapunta di stelle, su una cresta innevata, una sera la magia si compie davvero. E’ la prima volta per entrambi, sembra l’inizio di una bella storia sentimentale tra adolescenti, ma qualcosa non va. Lei è strana, confessa di sentirsi minacciata da qualcosa di oscuro, lamenta una certa inquietudine per alcune fosche visioni che ha avuto e affida molti dei suoi timori sul futuro a una lettera che consegna al ragazzo, pregandolo di aprirla solo nell’eventualità che qualcosa di brutto le capiti. Il ché accade puntualmente forse neanche un paio di ore dopo. La giovane prende un valium, lo accompagna con un paio di drink annacquati e poi crolla a terra, abbattuta come da un fulmine a ciel sereno. Non si risveglierà che diciassette anni dopo, deperita nel fisico ma con lo stesso brio di un tempo, solo per scoprire di aver avuto una figlia, Megan, cresciuta poi in sinergia forzata da sua madre Lois e dal fidanzato dei giorni felici.

E’ proprio Richard a diventare così, prestissimo, il protagonista della vicenda, il punto di osservazione privilegiata tramite cui seguire con i sei ex sodali l’appassire di un legame che non si spezzerà mai del tutto, e che troverà anzi nuova benzina dall’insperato risveglio della bella addormentata. Attraverso la soggettiva del giovane ci è offerto un manuale di disincanto in perfetto Coupland-style, amareggiato magari ma mai cinico. E si attraversano tutti d’un fiato gli anni ’80, le cui contraddizioni e falsi miti rappresentano una pietra tombale inequivocabile per i sogni ancora innocenti dei due decenni precedenti. Si entra nei novanta della “Generazione X” – sempre lei! – e le miserie di un’età adulta ormai priva di vere bussole sono apparecchiate con la consueta disinvoltura, anche grazie a un campionario simbolico che per chi abbia letto altro dell’autore non potrà che suonare risaputo, almeno in parte. Certo c’è meno ironia del solito, non si ride che a denti stretti, la rassegna di simpatiche bizzarrie è ridotta all’osso mentre l’ormai trita autoreferenzialità del romanziere canadese resta espediente non pervenuto, grazie al cielo. Il diventare adulti, in Coupland, non è mai stato tanto desolante. Chi aveva un bel cervello lo ha impiegato male. Chi ha sfondato nella moda ne è poi uscito con le ossa rotte. Chi ha ceduto alla droga è condannato a un presente di dipendenze e sostanziale solitudine. E poi c’è Richard, che continua a essere quello “normale” del lotto, anche se la paternità da minorenne non la si può archiviare tra gli eventi ordinari, e le difficoltà della salita vanno a crescere esponenzialmente con la pendenza: l’alcolismo diventa lo sbocco inevitabile per chi non aveva gli strumenti adatti a sobbarcarsi tutto il peso del mondo, e si offre anche nel contempo come il più comodo dei luoghi comuni letterari, giustificando non senza opportunismo la quotidianità sbandata dell’acerba Megan.

Quando l’adolescenza finisce, i sei compagni un tempo inseparabili si trovano allora, spesso e volentieri, separati per forza. Dell’amica in coma finiscono per dimenticarsi tutti, tranne il padre di sua figlia, e tutti si ritrovano a vivere nella certezza che la vita “possa acquisire magicamente significato da un attimo all’altro”, credendoci però sempre meno ogni giorno che passa. Invecchiano senza diventare saggi. Si sentono persi, incarogniti, “assestati con calma in un autunno della vita prematuro” in cui il divertirsi occasionale e poco consapevole non è altro che un velo a occultare l’isteria sottostante. Come nelle tremende premonizioni ricevute in gioventù, Karen si trova circondata da una congrega di “anime impantanate” che non hanno saputo far fruttare le proprie ambizioni, che hanno dimenticato la forza propulsiva dei sogni e si sono trasformati in quel che sono “per pura inerzia”. Ma arrivati a questo punto siamo solo a metà dell’opera. Accade il miracolo, è vero; ma anziché sedersi su allori strappalacrime, Douglas regala una bella sterzata, alquanto imprevista: oscura il cielo di bei nuvoloni neri, alza la posta dell’inquietudine con nuove sinistre evocazioni e, per non farsi mancare proprio nulla, si concede una notevole sbertucciata alla tv del dolore e all’ipocrisia del circo mediatico. Quindi spalanca le porte dell’apocalisse, con una perfidia grottesca degna di un Christopher Moore – le pagine dedicate all’ecatombe collettiva sono le migliori del libro, checché se ne dica, e con la loro amabile galleria di “squaglioni” umani superano il tanto celebrato “Un Lavoro Sporco” – e segna di fatto l’avvio di un’opera del tutto diversa, cupa, conturbante e disperata, ma abbastanza avvincente. Peccato che il gioco non duri a lungo, e il canadese inquini le ultime ottanta pagine con un buonismo da “seconda opportunità” che manda in vacca il tesoretto di tensione sapientemente raggranellato e che non potrebbe essere più fuori luogo di così. Il romanzo forse più denso e irregolare del suo catalogo, quello che meglio si presterebbe per una (o più di una, vista la varietà di spunti) riduzione cinematografica, va allora in archivio all’insegna di una speranza incondizionata nelle nuove generazioni (ipsilon o zeta, se i conti sono giusti) e di una sorta di “Stay hungry, stay foolish” ante litteram che puzza di (mezza) delusione.

Peccato, resto convinto che Coupland sia uno scrittore valido proprio per come sa gestire le emozioni, sentimentale senza sentimentalismi. Nel caso di “Fidanzata in Coma” ha finito per essere troppo didascalico proponendo a forza una morale (e un fantasma risibile) di cui non si avvertiva il bisogno, così un po’ di perplessità è da mettere in conto.

6.4/10

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Il Commesso _Letture

       

Ho da poco ultimato la lettura dell’ennesimo buon libro a firma Mordecai Richler, “L’apprendistato di Duddy Kravitz”, che per tematiche e ambientazione mi ha ricordato, e non poco, il capolavoro che qui presento. Di Malamud avevo affrontato solo il torvo (e irrisolto) “Gli inquilini”, ma “Il Commesso” è opera di tutt’altro livello, per finezza psicologica (il protagonista de “Le vite di Dubin”, letto recentemente, si conferma su questi eccelsi registri “filosofici”) e per la statura morale quasi dostoevskijana dei suoi protagonisti. Non certo un romanzo spensierato, anzi, il tenore tende al deprimente, ma anche una testimonianza che il realismo nudo e crudo (non sporco come in Richard Yates ma, insomma, a buoni livelli di grettezza) può dare forma a opere indimenticabili. Il fatto che mi sia tornato in mente dopo qualche anno lo dimostra, e a parti inverse non è detto che la simpatica canagliata del Richler giovane ci sarebbe riuscita: c’è un diverso spessore drammatico ad animare “il Commesso”, e dove là c’è una rincorsa sfrenata al successo, qui l’atmosfera rimane stagnante, fatalmente, eppure quantomai mirabile. Consigliatissimo come introduzione all’opera di un autore straordinario quale Malamud era.

New York, primi anni cinquanta. Morris Bober è uno stanco commerciante di generi alimentari. Sessantenne, ebreo non praticante, immigrato dalla Russia in giovane età, ha inseguito senza troppo ardore il miraggio di una prosperità che si è sempre fatta beffe di lui. Ha sacrificato moltissimo, prospettive alternative e amicizie, ma gli ha detto male perché in malora è finito un po’ tutto il quartiere operaio in cui aveva scelto di isolarsi tempo addietro. Dopo oltre vent’anni di attività la crisi economica morde con più ferocia che mai, la miseria sembra l’unico pane che si vende sempre benissimo e, come non fosse già abbastanza, c’è da fare i conti con la concorrenza spietata del tedesco Heinrich Schmitz e del suo nuovo sfizioso negozio, pochi metri più in là. I lunghi tempi morti che il suo mestiere gli impone costringono poi lo sventurato Bober a ripercorrere con la mente tutto un rosario di scelte sbagliate, più o meno remote nel passato, dal non aver preso la licenza per la vendita dei liquori (colpo di genio dell’odiato e altrimenti malaccorto Julius Karp) all’aver lasciato che la propria gastronomia si riducesse alla blanda botteguccia d’alimentari che è oggi. Per non parlare dei tanti altri dispiaceri che lo assillano e turbano regolarmente il suo riposo: i debiti da pagare, le rimostranze della consorte Ida, il dover far affidamento sui contributi finanziari della figlia Helen, che avrebbe voluto laurearsi ma ha dovuto lavorare presto, e poi il dolore mai sopito per la prematura scomparsa del figlio Ephraim, oltre alla pena sconfinata nei riguardi dell’intera comunità attorno a lui, arrancante e provata nell’anima. A sostenerlo in una missione che ormai rasenta la follia, una dignità incrollabile e fuori dal comune, la sola spinta a non arrendersi e andare avanti.

La rapina ordita ai suoi danni da un paio di delinquentelli parrebbe il colpo di grazia. Con il negoziante costretto a letto per rimettersi in sesto, sembra proprio non ci siano più margini per la speranza, quand’ecco manifestarsi provvidenziale il soccorso del giovane e schivo vagabondo Frank Alpine, che si offre di dare una mano per il periodo di tempo necessario senza chiedere nulla in cambio eccetto l’opportunità di fare pratica come commesso. Vinte le titubanze dei Bober, Frank porta una ventata d’aria fresca nel piccolo emporio e anche gli affari iniziano lentamente a ingranare. Ripresosi, colpito dai miglioramenti d’esercizio e commosso dai racconti sui trascorsi tristi del ragazzo, Morris decide di destinargli un pur modesto stipendio settimanale e tacita la moglie che lo vorrebbe lo stesso lontano da lì, insospettita dal modo in cui l’aiutante guarda Helen. Tormentata dalla natura di goy e italyener del dipendente, Ida è l’unica ad aver colto la sua passione nascente per la ragazza, ma nessuno ancora sa come questi alleggerisca talvolta gli incassi del negozio, né che si sia proposto per il lavoro al solo scopo di mondarsi la coscienza per aver preso parte (pur non volendolo) a quella rapina. I meccanismi ad ogni modo si sono innescati. Frank riesce faticosamente a conquistare il cuore della ragazza e per onorare il sentimento nei confronti di lei cerca di migliorarsi nell’aspetto e nei modi, prende a leggere libri e smette di rubare, desiderando anzi restituire un po’ alla volta anche i 140 dollari via via sottratti alle magre casse dei Bober. Nella figura del rapinatore Ward Minogue, il passato tornerà tuttavia a pretendere da lui il conto che pareva saldato dalle sue buone azioni. Il “peccato originale” gli sbarrerà la strada, annienterà la fiducia che il negoziante ha in lui, allontanerà di nuovo la dolce Helen (forse non irrimediabilmente) e lo indurrà a un lento annientamento nel sacrificio che farà di lui quel che forse è sempre stato per indole: un ebreo, votato alla sofferenza perenne, degno erede di Morris nella prigione che è il suo negozio.

Una Brooklyn cupa, nascosta e tormentata da un inverno che pare senza fine è il teatro perfetto per questo sobrio inno alla disillusione e al fatalismo, sviscerato con straordinario rigore narrativo, andatura piana e lineare, senza clamori e con colpi di scena mai inclini al facile teatro, perfettamente assorbiti dalla felice plausibilità del racconto. E’ una tragedia intima e insieme corale “Il Commesso”, che usa magnificamente il filtro realista per rendere a fondo la verità emotiva e psicologica dei suoi protagonisti: sogni, menzogne, ideali, vergogne e piccoli grandi dilemmi morali – questi soprattutto – in una parola, la loro umanità. Ci riesce come meglio non potrebbe, perché alla fine i tre primattori sul piccolo palco predisposto dall’autore si stagliano sui fondali di questa sconfortante parabola con un nitore e una forza non comuni, indimenticabili per il lettore che si conceda loro con la necessaria empatia. E’ anche una lunga ma agilissima riflessione sul potere del perdonare, sull’assuefazione perversa all’altrui fiducia, sul sacrificio e l’espiazione, sui tiri mancini di una sorte ineluttabile, impossibile da buggerare, sulla solitudine e sugli inganni, rivolti verso il prossimo ma immancabilmente pronti a ritorcercisi contro. Anche nella chiusa scenografia della bottega e delle gelide viuzze tutt’attorno, il contesto è cruciale. L’American Dream appare svuotato d’ogni ragion d’essere; il mito della terra delle opportunità è moneta falsa (come la libertà, soggiogata al fato), Dio è altrove, l’integrazione è un ideale puntualmente sconfessato e solo con la fortuna si costruisce la fortuna, altro che abnegazione e disciplina. “Il Commesso” evita comunque la crudeltà di sguardi troppo cinici, così come la trappola del patetismo, gli accomodamenti sentimentalistici che giochino sporco con il lettore. Al loro posto si apprezza un garbo estremo, capace di stemperare la durezza delle vicende trattate, di risparmiarci l’ostentazione disfattista del crudo e di tradursi in puro affetto per come sa intagliare l’animo di un marginale eroe del quotidiano, lontano dalla grazia e profondamente ispirato al romanziere dalla propria figura paterna.

L’autenticità dei ritratti e il loro taglio asciutto, apparentemente distaccato, riportano alla mente lo stile di Richard Yates, tra gli altri. Come lui, Malamud si astiene dal far emergere i propri giudizi e si limita a far parlare le storie. Tra i due grandi autori vi è peraltro una profonda differenza. Pur piegati da rimpianti e insoddisfazioni lancinanti, i protagonisti de “Il Commesso” si muovono come le canne al vento di pascaliana memoria, in balia degli eventi, consumati dagli anni e dalla tristezza ma non dal rancore, qui assente. Diversamente dai borghesi Wheeler di “Revolutionary Road”, le loro ambizioni sono pallidi fantasmi e non li rendono schiavi. A quello provvede il caso, piuttosto. E più dell’autorealizzazione conta la loro statura morale, ciò che li rende individui in senso prettamente etico. La figura di Morris è in questo esemplare: pur provato da un destino avaro, il commerciante è uomo di eccezionale integrità a prescindere dai precetti dogmatici del proprio indirizzo religioso, dignitoso nel suo silenzioso declino in dissolvenza, retto come nessun altro. Nonostante questo, forse anzi proprio per questo, non c’è pace per lui. “Ogni uomo buono dorme sonni tranquilli”, leggiamo a un certo punto. Beh, è una pia illusione: Bober è consumato dal tormento di aver sbagliato tutto, soffre per gli altrui patimenti e con tutta quella sofferenza potrebbe, volendo, “ricavarci un vestito”. Non va meglio a Frank, novello Raskol’nikov che chiama chi legge a sentimenti contrastanti nei suoi confronti, prima di imporsi come epigono perfetto del titolare. Oltreché opportunità di cambiamento per gli altri, è il solo a scuotersi dalla passività stagnante. Nell’inseguimento strozzato all’amore di Helen, la speranza della redenzione saprà renderlo una persona degna, ma a carissimo prezzo. Al lettore il compito di condividerne la pena, ripagata comunque da oltre trecento pagine di incredibile bellezza.

9.0/10

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Non mi ami ancora _Letture

       

Ed ecco l’esatto fotogramma in cui Jonathan Lethem mi ha un po’ spezzato il cuore. Recuperato dopo aver letto i suoi due gioielli, “La fortezza della solitudine” e “Chronic City”, questo romanzetto – che nella bibliografia del newyorkese è proprio l’anello di congiunzione tra i due titoli citati – si è imposto subito come parentesi marginale e discreta delusione. Opera giovanilista à la Douglas Coupland, appena “carina” quando funziona ma stereotipata ben oltre il necessario attorno agli ormai immancabili cliché indie, ha ben poco da spartire con la Brooklyn fantastica del suo più noto romanzo di formazione ma anche agli spunti visionari (da devoto ex-fan di Philip K. Dick) della sua ultima opera davvero degna di nota. Le sue cose più recenti, tipo “I giardini dei dissidenti” le ho lì sullo scaffale ma a questo punto non sono affatto certo di volerle prendere in mano.

Tirano avanti con assurde occupazioni che parrebbero uscite dalle fantasie scoppiate del primo Douglas Coupland i giovani protagonisti di “Non Mi Ami Ancora”. C’è la telefonista di un ufficio reclami che non è altro che un’installazione d’arte contemporanea. C’è il suo quasi ex-fidanzato, psicologo improvvisato per animali dello zoo con qualche cedimento affettivo verso una giovane cangura depressa. Non può mancare l’impiegata in un porno-shop, quasi un must dell’universo indie americano degli ultimi due decenni. E infine il genietto della compagnia, perditempo cinefilo ossessionato da presunte implicazioni subliminali nel sottotesto de “La Bestia Umana” di Fritz Lang. Sono tutti trentenni, e ancora non è riuscito loro di combinare nulla di buono. Eccetto quando trascorrono assieme il loro tempo e suonano come se non ci fosse un domani nella loro band scalcagnata e ancora priva di nome, il solo espediente per accarezzare l’illusione della libertà. Proprio questo gruppo rock di belle speranze diventa il tramite per una svolta sostanziale, visto che il talento sembrerebbe esserci tutto, la purezza non è mai messa in discussione e un’opportunità inattesa arriva a bussare alla loro porta. Il deus ex machina, preme dirlo, è di quelli davvero insoliti: uno dei fissati di quel “demenziale archivio di lagnanze” che è la baracconata pseudoartistica in cui è coinvolta la bassista Lucinda, primattrice incontrastata del libro.

Il suo “reclamante”, all’altro capo del telefono, la seduce con chiamate quotidiane tanto surreali quanto morbose, influenzandone l’immaginario e candidandosi, all’insaputa di tutti, come il paroliere perfetto di cui l’acerba creatura musicale ha bisogno per un salto di qualità fino a ora solo vagheggiato. Ma che sembra proprio sul punto di manifestarsi quando il suo primo concerto, in un loft preso d’assalto da un esercito di snob eccentrici, si traduce in un successo incredibile. Le offerte arrivano a pioggia e la fama è a un passo, distante giusto l’ospitata radiofonica di rito nella trasmissione del guru di turno, una sorta di John Peel americano. Ma nel frattempo troppe dinamiche, in prevalenza passionali, si sono innescate con l’incarnarsi di quella voce d’oro prima solo virtuale. E così, con l’integrità del quartetto minata nelle fondamenta, nulla di buono si profila forse all’orizzonte, al di là di qualche buon insegnamento sulla lealtà di cui fare tesoro per gli anni a venire.

“Non c’è profondità senza superficie”. In questo romanzo minore, quasi marginale nella sua affettuosa deriva giovanilistica, Jonathan Lethem lo dice abbastanza chiaramente. Per una volta c’è grande leggerezza (a tratti anche troppa), si mima l’entusiasmo ingenuo di chi ancora non è condannato al disincanto grazie ad un’aderenza ammirevole, immersione mai insincera o posticcia in una realtà, quella del sottobosco della musica indipendente, evidentemente molto amata dall’autore. Così si ha modo di offrire, nel groviglio di stramberie e luoghi comuni su un degrado sempre più generalizzato, riflessioni non certo banali sul senso di inadeguatezza o spersonalizzazione, sulla solitudine e gli inganni dell’innamoramento, quasi un marchio registrato della giovinezza che sfuma. Certo non tutto funziona. Alcuni spunti sono fastidiosi per come non stanno in piedi, c’è molto di irreale a cominciare dalle virate caratteriali di quasi tutti i personaggi (un classico i cinici che si trasformano in cuori d’oro, anche se qui prevalgono i movimenti inversi), eppure è innegabile che l’eroina Lucinda, con la sua disastrata navigazione sentimentale del tutto priva di bussole, desti simpatia in modo alquanto naturale.

Ancora una volta Lethem si conferma tuttavia prezioso soprattutto in qualità di scenografo. Al posto della Brooklyn malinconica de “La Fortezza della Solitudine”, fa pur sempre un discreto effetto l’afosa Los Angeles dei boulevard dimenticati, un nuovo villaggio Potemkin assolato e insieme desolato, il teatro perfetto per la parabola dei quattro eterni ragazzini in cerca d’autore (nel vero senso della parola). Delle quinte efficaci, un paio di caratterizzazioni azzeccate e poche pagine di sesso scritte con la dovuta grazia non bastano tuttavia a fare un gran libro. Già per il suo volume ridotto, è alquanto improbabile che questo “Non Mi Ami Ancora” aspirasse a esserlo, anche solo in quanto a intenzioni. Quando va bene è opera carina, non impegnativa ma neppure scialba, che si lascia divorare in agilità. Mancano tuttavia il dolente esistenzialismo de “La Fortezza della Solitudine”, così come gli straordinari vicoli ciechi narrativi di “Chronic City”, con ogni probabilità i due titoli imperdibili dell’autore. Che qui si diletta con mestiere senza offrire mai nulla di più stimolante.

Forse, a ben vedere, quella frase sibillina era puramente autoreferenziale. Non esistono i mezzi capolavori senza i titoli prescindibili. E questa, che la si ami oppure no, è più che altro epidermide.

6.4/10

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Classificone 2016

 

Torno alla musica come in licenza, quasi di straforo, per postare e offrire un commento sommario alla consueta classifica dei miei dischi preferiti dell’anno che sta andando in archivio, un modestissimo 2016. “Consueta” e “preferiti” poi tanto per dire, visto che 1) mi sono accorto di aver bellamente saltato l’appuntamento dodici mesi fa e 2) sarebbe più corretto parlare di dischi “meno sgraditi”, in un’annata che conferma e rilancia il trend a ribasso dell’ultimo decennio, piazzandosi idealmente in coda a qualsiasi graduatoria a tema. Ecco, sembra mi sia ridotto come quei vecchi catarrosi che si lamentano dei tempi moderni rimpiangendo a oltranza il passato, magari è effettivamente così. Una questione annosa, un luogo comune al quale non mi riesce di sottrarmi. Però dai, è innegabile che la qualità media sia un po’ andata a farsi benedire ormai.

Non fosse abbastanza, è stato un anno più che tremendo per la scomparsa di alcuni giganti della canzone, David Bowie, Leonard Cohen e Prince, con i primi due a vincere se non altro una disperata lotta contro il tempo per lasciare agli appassionati i rispettivi album-testamento un attimo prima che diventassero effettivamente postumi. Sull’altro piatto della bilancia, il Nobel per la letteratura attribuito a Bob Dylan, un riconoscimento che, piaccia o meno, rilancia le azioni di un universo culturale da sempre guardato con snobismo alla stregua di un volgare intrattenimento da due soldi. Certo Dylan è Dylan, e di artisti (meglio “personaggi” oggi) come lui non se ne vede l’ombra, all’orizzonte.

Inevitabile premiare ancora Bowie e Cohen, per l’urgenza cui già si è fatto cenno e per l’estremo magnetismo che sia “Blackstar” che “You Want It Darker” esprimono, anche nell’inevitabile sfumare nell’ombra che i titoli stessi evocano. In cima ho voluto premiare (nostalgicamente magari) una Emma Pollock che ha regalato un disco in linea con quelli che scriveva quando era alla guida dei Delgados. Se il tenore generale è calato così vistosamente mentre il suo si è mantenuto ad alti livelli, era impossibile non celebrarla con tutti gli onori del caso. Discorso analogo merita King Creosote, che in ambito folk-cantautoriale si conferma una solida certezza. Poi nel mucchio ecco qualche perla garage revival (Cool Ghouls per il jangle-pop, The Conquerors per il power-pop), stelle del pop al femminile più (l’australiana Olympia) o meno esordienti (la sempre efficacissima Angel Olsen) e stelle del pop al maschile più (il gioiellino Roar) o meno esordienti (Lawrence Arabia, che all’inseguimento del mito Harry Nilsson migliora di anno in anno).

Mi sono limitato a cinquanta posizioni (altre cinquanta le trovate qui, ma a quel punto arriviamo a comprendere anche i 6,5 o giù di lì, e non è che ne valga la pena). Per completezza può valere la pena citare anche la top ten delle delusioni, premesso che non vi rientrano i due peggiori dischi ascoltati quest’anno (Bloc Party e Kaiser Chiefs) – visto che entrambe le band le ho sempre trovate abbastanza rivoltanti – e l’ennesima sciacallata necrofila ai danni di Jeff Buckley. Senza particolare ordine di disprezzo, menziono i Crocodiles ormai synth-oriented, Joan As A Police Woman, Tortoise, Warpaint, Animal Collective, Beth Orton, Josephine Foster, l’insulso album di cover di Mark Kozelek che si è scordato la chitarra, Mull Historical Society e Soft Hills. Come dite? Sono già dieci? E io che volevo tirare in ballo ancora quella che dovrebbe essere, se Dio vorrà, davvero l’ultima fatica intestata ai Guided By Voices, “Please Be Honest”! Pensavo che con un Pollard così malmesso fosse la volta buona per ignorarlo, e invece no: ha abbassato la media di uscite da cinque a due, ma l’unico disco solista di quest’anno, “Of Course, You Are”, è ancora buono. Mannaggia a lui e a me che insisto ad andargli dietro.

 

 1. Emma Pollock ‘In Search of Harperfield’

  2. David Bowie  ‘Blackstar’

  3. King Creosote  ‘Astronaut Meets Appleman’

 4. Cool Ghouls  ‘Animal Races’

 5. Leonard Cohen  ‘You Want It Darker’

 6. Angel Olsen  ‘My Woman’

 7. Olympia  ‘Self Talk’

 8. Lawrence Arabia  ‘Absolute Truth’

 9. Roar  ‘Impossible Animals’

 10. The Conquerors ‘Wyld Time’

 

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 11. Thomas Cohen  ‘Bloom Forever’

 12. Os Noctàmbulos  ‘Stranger’

 13. Car Seat Headrest  ‘Teens Of Denial’

 14. Grant-Lee Phillips  ‘The Narrows’

 15. Hope Sandoval and the Warm Inventions  ‘Until The Hunter’

 16. Doug Tuttle  ‘It Calls On Me’

  17. Woods  ‘City Sun Eater in the River of Light’

  18. Thee Oh Sees  ‘A Weird Exits’

  19. Cate Le Bon  ‘Crab Day’

  20. The Claypool Lennon Delirium  ‘Monolith Of Phobos’

 21. Mountains And Rainbows  ‘Particles’

  22. Scott & Charlene’s Wedding  ‘Mid Thirties Single Scene’

 23. Mothers  ‘When You Walk a Long Distance You Are Tired’

  24. The Yearning  ‘Evening Souvenirs’

  25. Vinicio Capossela  ‘Canzoni della Cupa’

 26. Cory Hanson  ‘The Unborn Capitalist From Limbo’

 27. Death Valley Girls  ‘Glow In The Dark’

  28. California Snow Story  ‘Some Other Places’

  29. Levitation Room  ‘Ethos’

  30. Sam Coomes  ‘Bugger Me’

 31. Black Mountain  ‘IV’

 32. Wussy  ‘Forever Sound’

 33. The Divine Comedy  ‘Foreverland’

 34. Nick Cave & The Bad Seeds  ‘Skeleton Tree’

 35. Karl Blau  ‘Introducing Karl Blau’

 36. Laish  ‘Pendulum Swing’

 37. Sam Means  ‘Ten Songs’

 38. Okkervil River  ‘Away’

 39. Kevin Morby  ‘Singing Saw’

 40. Riley Walker ‘Golden Sings That Have Been Sung’

 41. The Burning Hell  ‘Public Library’

 42. Pavo Pavo  ‘Young Narrator in the Breakers’

 43. Audacity  ‘Hyper Vessels’

 44. Wytches  ‘All Your Happy Life’

 45. Marissa Nadler  ‘Strangers’

 46. Whitney  ‘Light Upon The Lake’

 47. Tacocat  ‘Lost Time’

 48. Basia Bulat  ‘Good Advice’

 49. Chris Bathgate  ‘Old Factory Ep’

 50. Brigid Mae Power  ‘Brigid Mae Power’

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La Fiaba dell’Ultimo Pensiero _Letture

       

No, non è Albert Einstein il tipo che vedete qui sopra, anche se la somiglianza appare evidente. Si chiama Edgar Hilsenrath, è uno scrittore tedesco e con Einstein condivide soltanto le origini ebraiche. Dimenticavo di precisare che è un signor scrittore, e il romanzo che sono lieto di presentare qui lo dimostra in maniera incontrovertibile. Parla dell’olocausto. Facile, penserete, l’ennesimo sopravvissuto di Birkenau che affronta la sua dolorosa esperienza con lo sterminio. Non è così o, meglio, non proprio, alla Shoah ha dedicato l’altrettanto notevole “Il Nazista e Il Barbiere”.

No, il genocidio narrato in questo libro straordinario è quello, raccontato sempre troppo poco, spesso colpevolmente, del popolo armeno. Un crimine che l’ottusità criminale dello stato turco continua purtroppo a rendere, spesso e volentieri, una ferita ancora aperta.

[Da confrontare per forza di cose con il fortunato “La Masseria delle Allodole”. Credo di poter ragionevolmente sostenere che “La Fiaba dell’Ultimo Pensiero” sia comunque migliore, e nemmeno di poco]

Thovma Khatisian è giunto al capolinea. Una vita piena la sua, settantatré primavere trascorse intensamente e nel segno del pericolo, precoce nello sradicamento e costretto a faticare ogni giorno per trovare il proprio posto nel mondo, con tutta la dignità del caso. Il tempo è scaduto ma lo si è speso bene, conducendo un’esistenza ben più giusta di quanto non sia stato nei suoi confronti il kismet, il destino. Resta tuttavia un fondo lacunoso anche nel suo scorrere non avaro di soddisfazioni, ormai giunto agli sgoccioli: è il passato remoto, l’anello a lungo sfiorato ma mai davvero afferrato. Sulle proprie origini Thovma mostra di avere le idee parecchio confuse. Forse perché la cronaca della sua nascita ha dovuto costruirsela, riadattandola e rabberciandola dalle numerose testimonianze di sopravvissuti dell’Hayastan, la Turchia armena o Anatolia, il paese dove “i girasoli crescono fino al cielo o alle porte del paradiso”, dove “i monti toccano le nuvole”, dove “i cocomeri sono più rotondi, grossi e succosi del più grosso culo di donna” e dove “Cristo è stato crocifisso per la seconda volta”. Delle radici, un nome, una tradizione, fabbricati e divenuti autentici con l’andar dei giorni, ma che solo l’“estrema chiarezza” conquistata dall’ultimo pensiero, in punto di morte, potrà sgombrare dall’incertezza e dal nebuloso garbuglio della Storia, quella con la esse maiuscola. A sincerarsi che questo avvenga e che l’anima del moribondo possa librarsi finalmente in volo sulla meravigliosa terra natia, per unirsi a quelle di altri milioni di sussurranti vittime di un genocidio tra i più brutali di sempre, nonché sulle lacune a riguardo nei libri di storia turchi, pensa il misterioso narratore di fiabe nella sua mente, il Meddah, compagno di quell’ultimo alito di coscienza in un momento del trapasso dilatato per più di cinquecento, incredibili pagine.

Ma non è di Thovma o di Haik – a seconda di come quel neonato del 1915 sarà chiamato dai genitori veri o da quelli adottivi – l’avventura che Edgar Hilsenrath ha cuore di narrare. Thovma è solo un tramite tra lo spirito del tempo e noi lettori, l’orecchio cui sono descritti trenta e più anni di una storia rimasta colpevolmente ai margini affinché siano le nostre orecchie a raccoglierli e farne tesoro, strappandoli per sempre all’oblio e facendo sì che una preziosa lezione non venga dimenticata. E’ Wartan Khatisian il protagonista, e con lui l’intero piccolo villaggio montano di Yedi Su, oltre agli operosi artigiani armeni della più ricca Bakir. Vittime tra le tante di una persecuzione poco nota. Punti su una mappa secondaria dei testi scolastici. Vite soprattutto, un tempo felici anche nell’asprezza della povertà pungente, dignitose sempre, eppure condannate a essere recise orrendamente senza nemmeno poter rinunciare alla propria innocenza per opporsi con tutte le forze all’ingiustizia atroce riservata loro. Lo incontriamo giusto un attimo prima che il marasma prenda a impazzare, imprigionato senza alcuna ragione se non per fare di lui il più provvidenziale dei capri espiatori, il grande tessitore di una fantomatica cospirazione armena che avrebbe acceso la miccia del primo conflitto mondiale, a Belgrado, solo per lo sfizio di mettere in cattiva luce la candida Turchia, il sultano e il kaiser tedesco. Mentre i primi connazionali già penzolano sotto la Porta della Beatitudine, leggiamo uno stralcio dei suoi trascorsi negli incartamenti delle massime autorità cittadine, il Vali, il Mutasarrif e il Mudir, e ascoltiamo la sua voce negli interrogatori farsa tra una tortura e l’altra, a caccia della confessione impossibile.

Poi è il Meddah a farci volare con sé nel passato di Wartan, a ricamare la sua parabola esistenziale e quella dei suoi più stretti parenti nel paesino dove il tempo pare essere immobile da generazioni. Sentiamo il calore del focolare, il fiato delle bestie, impariamo a conoscere una famiglia e un popolo pacifici, arroccati su valori tradizionali che odorano più di superstizione pagana che non di fede in Cristo, eccetto che per l’assenza di atteggiamenti ostili nei confronti del prossimo, chiunque egli sia. Impariamo ad amare questa gente all’antica ma immancabilmente buona, vessata da tassazioni assurde, dalle violenze degli zaptié turchi e dei barbari curdi, e la nostra simpatia non ha cedimenti nonostante regole che oggi fanno accapponare la pelle, primi tra tutti i matrimoni combinati in culla o ancor prima di nascere. Ma anche le pagine fiabesche che raccontano con maggior serenità folklorica questa sorta di rifugio incantato sono incupite di tanto in tanto da un’ombra minacciosa, il velario profetico del grande tebk, il massacro distante ancora due o tre decenni eppure già acre nell’aria come un puzzo mefitico, una condanna o una spada che pende, la tragica fine di ogni cosa. E come andrà a finire per quegli anziani così ligi, o quelle donne dalla tempra d’acciaio, è scritto nei manuali di storia contemporanea, almeno in quei quarantacinque paesi (tra cui il nostro ma non la Germania un tempo alleata, né – ma non c’erano dubbi – la Turchia che oggi sogna l’Europa) per i quali questo sterminio di un secolo fa non è solo il frutto di una fantasiosa propaganda bensì un terribile esempio destinato a essere a lungo ignorato, allora come all’alba di nuovi olocausti, dagli uomini e dall’occhio di vetro di un Dio sempre assente.

Questi passaggi spaventosi sono una minima parte del voluminoso romanzo dell’autore tedesco, i soli affidati a una narrazione più neutra e quasi documentaristica, pur non rinunciando del tutto al geniale espediente del narratore invisibile e dell’ultima fiamma vitale di Thovma, in un ininterrotto dialogo di rara delicatezza. Per il resto Hilsenrath racconta un orrore meno pungente ma sempre in scena, magari sullo sfondo o silenzioso, reso apparentemente meno cruento solo dalla routine delle vittime verso le prevaricazioni patite. Nell’infanzia di Wartan c’è sì la paura ma è un sentimento tra i tanti. Ci sono anche l’amore, l’amicizia, il coraggio e l’umanità, quella soprattutto. E non hanno bandiere o professioni religiose esclusive, visto che sono buoni anche i turchi in quel villaggio di poveri diavoli, così come è buona e compassionevole la curda Bulbul, uno dei personaggi memorabili di questo libro. Il fondo nero dell’animo umano è presentato ai lettori affidandosi a un registro particolarmente fortunato negli anni in cui “La Fiaba dell’Ultimo Pensiero” venne scritto, quel Realismo Magico che ha fatto la fortuna dei Garcia Marquez e dei Rushdie, tra gli altri. Bene, questo testo non vale meno dei loro capolavori. Perché è tanto aggraziato nell’accostarsi all’inenarrabile quanto accurato e integerrimo nello smascherare il rosario di ipocrisie che il potere ha tramandato insieme alla menzogna sul conto di un milione e trecentomila poveri cristi. Assassinati senza pietà tra le forre dell’Anatolia o lasciati morire di fame nelle lunghe marce nel deserto, e poi assassinati ancora, sepolti sotto un silenzio lungo cent’anni. L’indignazione di chi non dimentica – suggerisce allora Hilsenrath in un finale quanto mai commovente – è il modo più degno per rendere loro giustizia. Soprattutto perché nulla del genere, questa o quell’altra più nota shoah, abbia modo di ripetersi negli anni a venire.
Un libro bellissimo.

9.3/10

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American Psycho _Letture

       

Chissà se Patrick Bateman è poi riuscito a prenotare quel famoso tavolo al Dorsia… Magari sì, ma se pure il ristorante newyorkese non fosse solo il frutto della mente di Bret Easton Ellis, sarebbe dura per il protagonista del suo celeberrimo “American Psycho” imbattersi nel proprio mito indiscusso, quel Donald Trump da poco eletto Presidente.

Non mi riesce di parlare di questo libro senza servirmi del pur umile spadino dell’ironia, forse l’unico strumento utile a uscire indenni dalle caustiche insidie che quest’opera riserva ai lettori sprovveduti. Per omologazione sarebbe comodo adeguarsi al coro di lodi sperticate che accompagnano il romanzo dalla sua uscita, un quarto di secolo fa giusto giusto. A me la cosa non è riuscita anche se ci ho provato, mi spiace. Il suo sadismo mi ha fatto male, anche al netto dell provocazioni (che posso ben comprendere) o delle ridondanze volute (francamente indigeste, a lungo andare), e sì che io non credo certo di potermi etichettare come “anima candida”. Il pugno nello stomaco non mi preoccupa, ne ho già presi diversi e quasi tutti me li ero andati a cercare. Ma il pugno nello stomaco gratuito no, quello mi da ai nervi. E la celebrata opera terza di Ellis appartiene a quest’ultima categoria, e non nasconde l’orgoglio per il fatto di farne parte. Ideologicamente insomma siamo agli antipodi, ma almeno c’è la scrittura a compensare, innegabilmente valida. Un po’ sprecata in realtà, se la costringi a inseguire per mimesi la mente di un maniaco, rendendola essa stessa maniacale: un gioco che può reggere fino a un certo punto, ma dopo centinaia di pagine, beh…

Entusiasmi o meno, “American Psycho” è però uno di quei testi che non si dimenticano – di questo va dato atto a Bret – proprio come il suo protagonista. Che per me avrà per sempre il volto di un (lui sì) sensazionale Christian Bale, l’attore scelto per la discreta (e non altrettanto cinica) trasposizione cinematografica firmata da Mary Harron (chi?!). Non so, indimenticabile ma anche un po’ indigesto. Mi ha inibito nei riguardi di un autore che per altri versi ho sempre trovato intrigante. “Glamorama”, “Meno Di Zero”, “Le Regole Dell’Attrazione” e “Imperial Bedrooms” sono comunque tutti lì, accanto, nella mia libreria. Chissà che un giorno questa indisposizione non mi passi e non mi torni la voglia…

Dovrebbe essere un brillante uomo d’affari di Wall Street Patrick Bateman, broker di quelli cazzuti à la Gordon Gekko che sul finire degli anni ottanta spopolavano nell’immaginario comune come emblemi del vero successo. Dovrebbe, perché a dirla tutta non capiterà mai di vederlo sudare le proverbiali sette camicie per mettere assieme quella stessa fortuna che si mostra invece assai prodigo a dissipare, puntualmente, nei templi del lusso newyorkese come nei locali di maggior grido. Ha una fidanzata avvenente ma interscambiabile a piacimento con infinite altre, ombre degli yuppies più rampanti ma non certo luminari al femminile in lizza per un premio nobel. Agli occhi di lei si presenta come “il ragazzo della porta accanto”, ma non impieghiamo molto a renderci conto che dietro il velo di apparenze, dietro il suo ruolo oracolare in fatto di abbinamenti e bon ton, il Bateman privato è un Edward Hyde perverso ed efferato. Ce lo racconta lui stesso, sciogliendo la briglia a una collezione di monologhi interiori raccapriccianti, per adesione ai cliché della mente dissennata e crudele oltre ogni limite. Vorrebbe scoprire come abbia fatto il borioso Paul Owen a assicurarsi la mecca del “Portafoglio Fisher”, e non esiterà ad ammazzarlo alla prima occasione utile.

Nutrirà impulsi simili verso numerosi altri colleghi, figurine accomunate dalla loro natura insopportabile e iperstandardizzata, oltreché dal fatto di chiamarsi vicendevolmente con nomi inesatti, con una sufficienza che rasenta il patologico. A pagare i sempre più frequenti deragliamenti di una coscienza minata da troppi guasti saranno però, più che altro, vacue accompagnatrici da quattro soldi e gli immancabili homeless, la tappezzeria umana che nel Lower East Side va sempre per la maggiore. I tentativi quasi disperati con cui Bateman proverà a farsi acciuffare, colpendo nel mucchio con sempre meno cautele e rendendo pure caricature i precetti del proverbiale “delitto perfetto”, non sortiranno altri effetti che un inseguimento buono al più per un noir alla Michael Mann, mentre anche la sua patetica confessione su segreteria telefonica verrà accolta come la semplice carnevalata di un drogato di lavoro un tantino esaurito. E allora, forse, andrà a finire che il famigerato serial killer potrà ambire al ruolo di eroe in una società marcia, ottusa e depravata, impossibile da emendare se non con il sangue.

Deliri di onnipotenza, ridicole ossessioni, misoginia galoppante e tetra satira sociale (a voler proprio nobilitare la critica furbetta che a tratti si lascia ammirare) sono gli ingredienti grazie ai quali Ellis da corpo al vuoto pneumatico di un mondo e di un’epoca, aggrappandosi al suo primattore come all’emblema di una way of life che ha superato in quinta anche le più sfrenate tra le fantasie malate del Sogno Americano, e consacrando se stessa in maniera frenetica a ogni possibile falso mito, senza più margini di credito a pur elementari forme di amore o solidarietà. L’autore è stato abilissimo – diciamo pure geniale, vista la messe di allodole imbambolate dagli specchietti qua e là piazzati ad arte – a giocarsi le carte del nonsense e della verve comica, espedienti narrativi perfetti per controbilanciare la spietata, seriosa insensatezza dietro le efferate azioni del cavaliere nero Patrick, e ancor più dei suoi pensieri. E’ un trucchetto semplicissimo, del genere che fa fine e impegna meno di zero, e gente come Palahniuk l’ha metabolizzato così bene da riuscire a imbastirci su una più che ragguardevole carriera.

Ecco allora la dipendenza del protagonista da una boiata televisiva come il Patty Winters Show (peraltro sempre più sfarfallante e grottesco, curiosamente in linea con i suoi – diciamo così – ragionamenti), l’odio insano e caustico verso le orribili comparse incravattate del suo universo dopato (più che dorato), il ridicolo imperante dietro manie e vezzi eccentrici, quell’insistere a oltranza sulle Diet Pepsi o i J&B on the rocks, o nel noleggio della videocassetta di “Omicidio A Luci Rosse”, per non parlare dell’imbarazzante entusiasmo per i peggiori Genesis di sempre o i mediocri Huey Lewis & The News (in lunghe dissertazioni che si vorrebbero ironiche, ma trascolorano presto in noia plumbea). Anche le presunte perle di saggezza come la celeberrima “Il mondo il più delle volte è non solo cattivo, ma addirittura crudele” hanno il sapore di una beffarda presa per i fondelli e andrebbero lasciate cadere anziché raccolte e rilanciate. Ma la miscela è indubbiamente ben studiata, il retrogusto fruttato e dolcemente alcolico, un mix che non poteva mancare la presa sull’immaginario collettivo, appena usciti (morti, direbbe il cantante) dal tunnel degli anni ottanta. Bene, pur impeccabile per stile e puntuto nella messinscena, questo affresco riesce a essere più stucchevole della realtà che suggerisce di voler denigrare. Per dirne una, quando va bene le donne appaiono come povere cretine opportuniste, magari strafatte di psicofarmaci o diete ridicole e degne, nel migliore dei casi, di esser liquidate con la lusinghiera (?) etichetta di “corpoduro”. Avvilente, ma c’è gente intelligente che plaude.

Il peggio tuttavia, ben più delle tremende e morbose descrizioni dei delitti, sono le centosettanta pagine che l’autore impiega per “confezionare” il suo primo omicidio, anche solo tentato. Quella brutalità secca, scioccante, sa essere persino liberatoria (per quanto all’ennesima replica si finisca per non poterne davvero più) in coda all’eterno preambolo che ha visto Ellis affilare le armi di un implicito sadismo, costringendo il povero lettore a sorbirsi a ripetizione, implacabilmente, elenchi su elenchi di abiti e accessori griffati, impossibili pietanze dalle esotiche implicazioni oltre a un rosario di rituali maniacali sulla cura del corpo e l’igiene personale, da mettere i brividi anche ai più fissati (e impavidi) in materia. E ancora, epifanie curiose che sembrano riaffacciarsi all’infinito come deja vu in un incubo dei più ostici, dai manifesti di “Les Miserables” in giro per Manhattan a quel fantomatico bistrot salvadoregno in cui tutti sembrano andare eccetto il protagonista, dal tavolo impossibile da riservare al Dorsia (mancato come una cena di gruppo in “Il fascino discreto della borghesia”) alle sinistre evocazioni dell’odioso amico Tim Price, presumibilmente cancellato (fuori campo) dalla circolazione prima di regalare un bel paio di corna a Patrick.

Al di là di tutto, del nichilismo in dosi da cavallo, dell’ultraviolenza rigorosamente gratuita, di provocazioni (per anime candide) che lasciano il più delle volte il tempo che trovano, dello sfarzo ipocrita o l’ostinata assenza di una morale o una direzione, “American Psycho” resta un’opera cinica come poche, sgradevole se affrontata con il beneficio dell’ironica indulgenza ma addirittura insostenibile qualora si scelga di dedicarvisi senza l’ausilio di questo filtro. Spacciato da oltre vent’anni per un romanzo irrinunciabile, sembra piuttosto, sotto quella crosta modaiola, una grossa perdita di tempo.

4.6/10

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Revolutionary Road _Letture

       

Di Richard Yates ho già scritto tanto, talvolta ripetendomi, ma non posso esimermi dal tornare a farlo se è del suo più celebrato romanzo che devo parlare. “Revolutionary Road”, ok, difficile che anche i lettori della domenica non lo abbiano mai sentito nominare. Certo, diranno molti: c’è il film di Sam Mendes con Di Caprio e la Winslet. Il libro, come capita quasi sempre, è meglio e vale la pena d’esser letto anche se avete già apprezzato la sua trascrizione cinematografica. Però la distanza non è così incolmabile, ci tengo a dirlo. Forse perché l’opera di Yates non è la sua migliore, a mio modestissimo parere, forse perché la pellicola di Mendes si dimostra all’altezza, con attori in forma eccellente (lei soprattutto) anche tra i comprimari (la solita Kathy Bates, Zoe Kazan e, soprattutto, il sempre sottovalutato Michael Shannon, impeccabile nel rendere la lucida follia di John Givings). Ad ogni modo, un romanzo – uscito per la prima volta in Italia (per Garzanti) con un altro titolo, “I Non Conformisti” – che vale come paradigma dell’arte narrativa di Yates, che ha dentro tutti i topoi del suo realismo sporco, la sua disperazione silenziosa ma senza appelli. Non può che essere, per chi non conosca affatto Yates e il suo universo, la quasi inevitabile porta d’ingresso.

Lui è Frank Wheeler, impiegato trentenne (alquanto anonimo e scioperato) in una grande azienda di New York. Lei è sua moglie April, madre e casalinga, non più in fiore ma ancora discretamente carina. Nel tranquillo sobborgo residenziale di Revolutionary Hill, Connecticut, la loro vita ha tutte le carte in regola per essere definita invidiabile: una bella casa rassicurante, due figli piccoli in piena salute, la stima di tutto il vicinato e un legame di coppia che si direbbe d’acciaio. Ben poco in quest’idillio, tuttavia, corrisponde a verità. Formidabile per eloquio e piacente d’aspetto, Frank passa per essere una mente assai brillante e tende a cadere lui per primo in questo sostanziale equivoco, rivendicando a vanvera vaghe aspirazioni e un impegno intellettuale che sono pura facciata. April, al suo fianco, non coltiva certo più interessi di lui: ex allieva – “scarsamente dotata di talento” e “scarsamente animata d’entusiasmo” – di una scuola di recitazione abbandonata ai tempi della prima gravidanza e del matrimonio, cerca una patetica occasione di riscatto grazie al ruolo di protagonista che si è ritagliata nella filodrammatica locale, la Compagnia dell’Alloro, la cui prima e unica rappresentazione è però destinata a clamoroso insuccesso. Anche la convivenza dei coniugi all’interno della grande periphery newyorkese non è poi chissà quanto armoniosa.

Dietro la maschera di una coscienziosa quanto cordiale rispettabilità, si cela il generalizzato disprezzo per una comunità di “omiciattoli pieni di paura”, frequentati controvoglia più per abitudine che per altre ragioni, ma guardati con orrore come specchio di ciò in cui ci si sta rapidamente trasformando. I fantomatici “sobborghi” dove “allevare figli in un bagno di sentimentalismo”, dove i vicini Shep e Milly Campbell rappresentano la spalla ideale (nella loro mediocrità) cui sostenersi quando si sparla di chiunque altro, dove l’agente immobiliare Helen Givings non è seconda a nessuno nel patrocinare con abnegazione la causa di un American Dream già prossimo all’avvizzire, e dove il perbenismo a tutto campo suona più come una condanna che non come l’incanto cui aspirare, i bucolici “sobborghi” della prima provincia, allegri e color pastello all’ombra delle torri metropolitane, sono la gabbia per i fragili sogni e l’inatteso teatro di un dramma silenzioso ma incombente. Il vero problema dei Wheeler è che non c’è amore nella loro vita. Né per il prossimo, né per figli in fondo non voluti, né per una quotidianità soffocante, né – soprattutto – l’uno per l’altra. Il reciproco adulterio, consumato in entrambi i casi per noia, non sarà sufficiente a spezzare l’impasse con moti d’orgoglio o reazioni virtuose. Né sarà abbastanza il progetto di un definitivo trasferimento a Parigi di tutta la famiglia, coltivato dalla donna e accolto dal marito con finto entusiasmo per evitare il rischio di nuovi scontri frontali, salvo poi essere accantonato forzosamente non appena si presenti l’opportunità di una modesta ascesa sul fronte lavorativo (con l’alibi comodissimo di una nuova, indesiderata gravidanza, pronto all’uopo).

Battuta nella finale del National Book Awards 1962 dal (modesto) “The Moviegoer” di Walker Percy, l’opera prima di Richard Yates possiede già tutte le peculiarità della scrittura “entomologica” e di quel “realismo sporco” che sarebbero diventate le cifre espressive del grande romanziere di Yonkers. Tutte le tematiche a lui care – dall’implosione nervosa della famiglia ai falsi miti del sogno americano, dalla solitudine all’incomunicabilità tra individui nella società contemporanea, sono qui presenti, declinate con una lucidità nello sguardo che sorprende davvero, per un esordiente. Lo stile è già quello potente e asciutto dei lavori successivi, prodigioso il controllo, perfetta l’imperturbabilità nell’osservazione di una tragedia inevitabile, persino umoristico il taglio (solo a tratti però) ma mai incline al cinismo. Da molti “Revolutionary Road” è considerato il capolavoro di Yates, il libro per il quale il Nostro meriterà di essere ricordato. Non sono del tutto d’accordo, gli preferisco ancora i sottovalutati “Cold Spring Harbor” e “Disturbing The Peace”, ma non vi è dubbio che si tratti di un’opera eccezionale, con protagonisti semplicemente memorabili e, col senno di poi, paradigmatici. Anche senza ricorrere a sentimentalistiche forzature “a effetto”, osservati con il necessario, neutro distacco, i Wheeler diventano l’emblema di un fallimento universale.

Imprigionati in “un’enorme, oscena illusione, la grande menzogna piccolo borghese, l’idea che, una volta messa su famiglia, si debba rinunciare alla vita reale e sistemarsi”, conducono la loro esistenza in maniera “zelante, sciatta, pretenziosa” e “tutta sbagliata”. Hanno coscienza dei limiti di uno schema che detestano, ma a mancare loro è la forza di ribellarvisi, proprio come tutti i rappresentanti dell’odiato vicinato (tranne il figlio dei Givings, John, il solo a intuire la reale natura delle dinamiche all’interno della coppia e, non a caso, l’unico dei personaggi considerato pazzo a tutti gli effetti). Restano fermi ai buoni propositi (di lei), magari utopici o avventati, come ai bei discorsi (di lui), ma lo scatto positivo della dignità, dell’intelligenza, dell’amor proprio, è strozzato in partenza da quello stesso insinuante conformismo contro il quale si illudono di poter vincere. Al centro della scena, la relazione tra Frank e April: una pericolante architettura di finzioni, una partita a scacchi destinata a chiudersi con una sconfitta condivisa, un raggelante deserto di emozioni e affetto che toglie il fiato al lettore. Se qua e là la tensione pare allentarsi, non si può muovere alcuna critica al finale, eccezionale, che Yates ha confessato di aver scritto prima di tutto il resto e che rivela curiose quanto involontarie (forse) connessioni con quelli dei due più noti romanzi di John Barth, “L’Opera Galleggiante” e “La Fine della Strada”.

Per il resto non rimane che copincollare quanto già scritto a proposito dell’autore nelle critiche di altre sue opere. Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori (indimenticabile, tra gli altri, la figura di Shep) ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione. Gli interessano gli esseri umani al netto degli artifici letterari. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si rivelano sin da qui limpidissimi, mirabili, non comuni. Tutti soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. “Revolutionary Road” è l’opera di uno scrittore straordinario, quindi, nel rendere le psicologie e i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – nello svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli e insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni cinquanta. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.

[Una curiosità: per quanto (come sempre in Yates) si beva spesso e volentieri, i Wheeler sembrano quasi delle educande rispetto ai viziosi protagonisti di altri testi dell’autore. Tutto sommato fuori luogo la bottiglia di Whiskey scelta come simbolo per la copertina dell’edizione dei Minimum Classics. Forse la guida di “Francese per principianti” sarebbe stata più indicata.]

9.2/10

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