Gli Inquilini  _Letture

      

Attrazione e repulsione. Facile ed inevitabile sintetizzare in questi termini le impressioni lasciatemi dalla lettura di questo sgradevole romanzo, il più controverso della carriera di Bernard Malamud. Accusato di razzismo quando uscì per la non certo edificante caratterizzazione dello scrittore di colore Willie, è in realtà una riflessione cruda su certi falsi miti dell’integrazione a tutti i costi e non fa sconti nemmeno alla figura (sicuramente con buoni attributi autobiografici) del romanziere ebreo, Harry. E’ un libro violento, eccessivamente connotato in termini drammatici e figlio profondo dei suoi anni, di tante contraddizioni culturali e di turbolente trasformazioni allora in atto. Anche per questo non è invecchiato proprio benissimo, ma mentirei dicendo che si tratta di un brutto lavoro. Indaga l’origine del male nell’individuo e, al di là della sua inclinazione al teatro, dice cose anche scomode. In più offre spunti di riflessione sull’arte e le sue finalità che non possono non aver influenzato tanta letteratura negli anni seguenti. Certo è un po’ un pugno nello stomaco e non ha grande riguardo per i lettori. Alcuni bei passaggi onirici riscattano la sua congenita pesantezza e lo portano pur sempre sopra la media. Di Malamud sono comunque assai meglio ‘Il Commesso’ e ‘Le Vite di Dubin’.

Harry Lesser è uno scrittore trentaseienne che da quasi dieci anni è tenuto sulla corda dalla sua terza fatica letteraria, dopo un ottimo esordio giovanile passato pressoché inosservato ed una pessima opera seconda che ha avuto invece buoni riscontri commerciali ed un adattamento per il cinema. Ebreo scapolo, solitario e perfezionista nella vita come nel lavoro, terrorizzato da sorprese e cambiamenti anche insignificanti, vive rintanato nel suo vecchio e malandato condominio di mattoni come un novello Robinson Crusoe in “un’isola sovrana su un mare argentato”, con un sacco di spazio a disposizione “in cui far correre l’immaginazione”. E’ vittima del più classico dei blocchi dello scrittore ma sente la conclusione del suo romanzo già a portata di penna, distante qualche mese appena da una sublime compiutezza. Nonostante i ripetuti avvisi di demolizione e le sempre più laute offerte di liquidazione del proprietario del palazzo, Irving Levenspiel, Lesser resiste con ostinazione – unico degli inquilini a non accettare le condizioni di sfratto e a dare battaglia legale – per portare a termine il suo testo là dove era stato iniziato, non per sentimentalismo ma per abitudine: “la casa è dove è il mio libro”.
Con insolito spirito di solidarietà da collega, in nome della tanto sbandierata arte, Harry pare ben disposto a silenziare la propria natura di misantropo meschino per collaborare a mo’ di consulente con l’ingombrante Willie Spearmint, ex galeotto afroamericano, burbero ed impulsivo, introdottosi nel più vicino degli appartamenti abbandonati per dare forma al suo primo, faticosissimo romanzo “nero”. Si presta quindi a “far da levatrice” alla fiaba cruenta sull’infanzia del nuovo vicino anche se, nella rovina dell’alloggio che li apre al confronto, Willie non si dimostra altrettanto discreto e sembra voler smascherare col suo fare disinvolto un innato complesso di inferiorità (a tutti i livelli) nell’altro, riportando in superficie una marea densa di impliciti, taciuti conflitti razziali e culturali, e gettando benzina sul fuoco di una precaria ma innegabile realtà competitiva.
Per lo scrittore bianco si apre una fase convulsa e particolarmente nervosa, ed il titolo del suo nuovo lavoro – ‘La Fine Promessa’ – inizia ad apparire non meno tristemente profetico di quello del suo scomodo sodale, ‘Vita Mancata’. I due protagonisti sono animati da una missione che li consuma, lo scrivere, anche se per ragioni apparentemente differenti: per l’anima e per spirito rivoluzionario in Willie, per la bellezza e l’ordine in Lesser. La rabbia contrapposta ad un irraggiungibile ideale di perfezione, matrici distinte di una comune incapacità cronica di vivere ed essere felici. Quando nei panni della sensuale compagna di Spearmint, Irene Bell, il mondo esterno entrerà in gioco squilibrando le già fragili dinamiche tra i due autori, il reciproco rispetto guardingo non potrà che franare sotto il peso di un aperto conflitto, rimpiazzato da una pazzia cieca ed autodistruttiva che finirà col travolgere entrambi in una spirale di ossessione rabbiosa.
La scrittura come esperienza totalizzante. Sembra essere questo il nodo cruciale di un romanzo feroce, brutale e violentemente pessimista a proposito della natura umana. Certo un po’ tutto è calcato con evidente gusto per il paradosso, dalle caratterizzazioni estreme e stereotipate di due antieroi comunque memorabili ai rimandi sempre espliciti al sesso, dall’impronta teatrale del racconto al contorno di desolazione grottesca offerto dalle quinte del vecchio palazzo, metafora un po’ trita di una crisi e di uno squallore più generalizzati. Al di là di queste forzature e di una certa pesantezza, comunque trascurabili, Malamud scrive in maniera efficace e senza fronzoli, dondolando beffardo tra l’incisività dell’io narrante e l’opportuno distacco della terza persona, armeggiando al meglio con la tensione crescente e miscelando con maestria linearità realista e digressioni oniriche. I sogni e gli incubi di Lesser, qua e là disseminati senza preavviso, funzionano infatti egregiamente come intermezzi ironici ed impietosi dedicati ad una utopia che già nel 1971 pare votata al rancido, l’ideale stanco della fratellanza.
L’idea del conflitto razziale drammatizzato resta comunque fuorviante, soprattutto oggi. Tensioni di questo tipo sono evidentemente presenti nello scorrevole libro di Malamud ma non determinanti come si sarebbe indotti a credere, biasimando poi il testo per eccesso di manicheismo facile. Al centro c’è in realtà il contrasto tra due modi di intendere l’arte e la scrittura, tra immaginazione al potere e tirannia della forma, tra metodicità disciplinata e furia creativa. Posizioni che assumono colori specifici solo per una questione di comodità narrativa ma non intendono determinare alcuna forma di immedesimazione automatica, data la connotazione in fondo negativa ed assolutamente sopra le righe di entrambi i protagonisti in scena. Un romanzo cupo, quindi, indipendentemente dalle ombre di un’interpretazione forzata condotta a posteriori. Sa essere decisamente sgradevole ma mai gratuito nelle sue stoccate. E va alla deriva con un certo coraggio.

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