Due parole sul garage nel 2012

       

E finalmente ecco dicembre, tempo di consuntivi. Mentre mi ritrovo un po’ svogliatamente ad arrabattarmi tra recuperi e full immersion per compilare come da tradizione la più inutile delle classifiche, convinto già in partenza che a gennaio salterà fuori il disco 2012 del millennio (puntualmente mancato al momento giusto, è il bello di queste cose), non riesco a liberarmi da un’impressione che teneramente mi attanaglia. Ho cambiato gusti musicali, un’altra volta. Ho avuto, come tutti, le mie fasi. Ho seguito il grunge con ardore adolescenziale praticamente all’indomani della morte di Cobain. Poi ho abbracciato l’indie-rock statunitense in anni in cui l’etichetta ancora non si era deteriorata, ed è stato un altro bel segmento. Quindi ho sposato le camerette scozzesi quando i Belle & Sebastian avevano ancora qualcosa da dire, salvo fare poi un rapido cambio di porte à la Monsters & Co. per ritrovarmi in analoghe cornici ma dalle parti di Goteborg o Stoccolma. Non pago di questa schizofrenia regressiva, mi sono quasi letteralmente appeso alle infinite barbe dei cantori del nuovo folk a stelle e strisce perdendo alla fine la stretta e precipitando in un baratro nerissimo.

Al mio risveglio eccomi in una sudicia bettola accompagnato da note grezzissime, tutt’attorno a me. Chitarre scalcagnate in abbondanza, melodie scolpite in un archetipo rock’n’roll vecchio come la terra, facce da schiaffi a non finire ed una simpatia innata per il disimpegno da cazzoni, alieno all’hype più ipocrita e indossato come scarduffata ed improbabile divisa dell’onestà stessa nel fare musica, commovente nella sua purezza fin quasi alle lacrime. Sto parlando del garage, ovviamente: mai come quest’anno lo celebrerò con posizioni significative nella lista delle mie preferenze musicali, e non certo perché siano uscite cose migliori rispetto agli anni passati. Le prime avvisaglie di questa mia metamorfosi le avevo avute due anni e mezzo fa, quando tratteggiai una sintetica ma appassionata difesa del genere in un pezzo dedicato a Mark Sultan, non senza un certo stupore. Quelli che sembravano solo sintomi innocenti di un parziale ripensamento estetico approdano oggi al compimento di una conversione che era quasi inevitabile, in fondo. Per la prima volta nella mia vita ho anche una giacca di pelle nera. Ereditata, non comprata, nientemeno che dalla moglie norvegese di un cugino. Prendiamolo come un segno, mi son detto.

Con la musica alternativa sospinta a folate dalle mode della rete ci ho provato ancora una volta, ma credo sia l’ultima. Ho tentato di mandar giù una quantità indicibile di immondizia spacciata per arte. Puntualmente votata all’elettronica, furba nelle etichette, falsa nel proporsi come next big thing di rito, odiosa nelle celebrazioni idiote pescate qua e là. L’ho ascoltata ed era merda. Grimes, Yeasayer, Purity Ring, giusto per tirare in ballo qualche nome. Aggiungo con un colpo di teatro i Sigur Ros (e affini), giusto per togliermi lo sfizio di un tardivo outing: pippe intollerabili, indigeste, (pseudo)concettuali, gelide, mortifere. Mai come adesso mi rendo conto che la vita, musicalmente parlando, è altrove. Nel beat sgraziato e magari pestone, nel riff malfermo che si libra col cuore, nel riciclo indefesso di chi non inventa nulla ma si ostina a citare ed omaggiare con la passione incrollabile dei bambini. Dal revival alla psichedelia farlocca, dalle ovvie derive blues al surf, dalle macchiette canzonettare alle varianti punk, dai pidocchiosi cliché lo-fi alle bizzarre commistioni con il post-hardcore. Di tutto un po’, davvero, con il solo comune denominatore di dischi orgogliosamente suonati da e per perdenti.

Il 2012 non regalerà nulla a firma Fleshtones, o King Khan & BBQ Show (che comunque stanno per tornare), o Shannon & The Clams, tanto per menzionare i padrini di questa attitudine oltre ad un paio delle primizie più sfiziose ascoltate negli ultimi anni. Chi bazzica gli avelli garage ha avuto però anche quest’anno di che deliziarsi. Nelle posizioni alte, mentre la mia graduatoria è ancora un pastrocchio confuso, piazzerò sicuramente una manciata di album che di innovativo hanno meno di zero ma restano passatempi irresistibili. L’addio dei Bare Wires, ‘Idle Dreams’, veloce e succulento; l’eponimo ‘King Tuff’, da un personaggio maiuscolo che scrive collane di hook pop a dir poco infettivi; il ritorno degli scoppiatissimi Cheater Slicks (‘Reality is a Grape’) in una bomba H da eterni dropout del rock. E poi Ty Segall, che anche se è una volpe non troppo sincera sforna ancora operine godibilissime in rapida sequenza (‘Hair’ e ‘Slaugterhouse’ sugli scudi), il recupero di un’oscura chicca power-pop (‘2006-2008’ dei The Barbaras) e poi… beh, diversi altri. Non mi brucio la sorpresa visto che tanto manca così poco. Resta indelebile questa constatazione: se non siete degli snob del cazzo e amate ancora muovere il culo a suon di rock, questo è proprio il genere che può fare per voi. E sarà paradossale ma il futuro è delle band che guardano al passato.

0 comment

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Comment *