La Fortezza della Solitudine  _Letture

      

Lethem eh?Bene, dove eravamo rimasti? Ah già, a ‘Chronic City’, quel sorprendente e scombiccherato libro incontrato per caso tra gli scaffali di una biblioteca. Nel parlarne avevo fatto riferimento a questo ‘La Fortezza della Solitudine’, universalmente acclamato come il capolavoro dello scrittore newyorkese. Una verifica in merito era stata annunciata come necessaria, ed eccoci qua, a romanzo ultimato e metabolizzato. Difficile dire quale dei due titoli sia migliore. Potenzialmente la spunterebbe quest’ultimo, scritto con più cuore visto che porta in scena senza troppe finzioni la difficile infanzia in strada dell’autore in un turbolento quartiere nero. In verità, mentre l’alienante odissea di Chad Inteadman & Perkus Tooth era di una costanza visionaria invidiabile, ‘La Fortezza’ è un’opera a due facce. La prima parte è straordinaria: pungente, evocativa, quasi fisica per come Jonathan sa dare forma, colore, persino odore e rumore, ai propri trascorsi metropolitani nei seventies. Nella seconda parte tutto viene però normalizzato dal bisogno di spiegare ciò che le prime duecento e rotte pagine si limitavano a suggerire con un’incisività realmente magica. Troppi chiarimenti nemmeno poi richiesti, qualche ridondanza di troppo, un finale più furbo del necessario e le cinque stelle Anobii che scendono a quattro sul registro del lettore. Certo rimane un’impressione forte, ovvero che la scrittura di Lethem sia sì impervia ma assolutamente stimolante, se si è pazienti ed ancora bendisposti a imparare qualcosa. Non la solita pappa pronta, sicuramente una pietanza cucinata con esagerato talento. E poi mi ha ricordato molto proustianamente il vecchio Spirograph, uno dei miei giochi così dannatamente anni ’70 anche all’inizio degli ’80. E quanto mio fratello fosse molto più in gamba di me con quelle dannate rotelline di plastica.

E’ l’estate del 1969 quando gli Ebdus prendono casa in Dean Street a New York, animati da ideali di fratellanza e concordia sociale che andranno presto bruciati in un contesto umano ed urbano assai meno idilliaco. Con due autentici campioni di menefreghismo come genitori, a doversi immergere in un’esistenza di ansia costante sarà il figlio Dylan, obbligato al confronto in un universo ostile e per molti versi spietato. Quella raccontata nelle pagine de ‘La Fortezza della Solitudine’ è la sua storia dall’infanzia ai giorni nostri, con particolare attenzione proprio ai suoi anni di alunno e studente, tra solitudine domestica, giochi da marciapiede, fumetti, bullismo, droghe, graffiti e fantasiose ipotesi di rivalsa civica. Il resoconto di una giovinezza spesa al fianco del carismatico mulatto Mingus Rude in un reticolo di strade nel ghetto nero di Gowanus a Brooklyn, dove “nulla si integra” veramente, dove l’imborghesimento (o gentrification) sognato dall’anziana Isabel Vendle procede in maniera lenta e del tutto incoerente, la solidarietà tra i due è forse solo un “brandello di simbolismo utopico” destinato a perdersi e la fuga repentina dell’eroe verso altri lidi (prima il Vermont, quindi il campus di Berkeley ed una carriera da giornalista e critico musicale) diventa la sola risposta possibile, una necessità per quanto almeno in parte illusoria.
In Dylan affiorano presto come cicatrici indelebili i segni di un duplice abbandono: quello della madre Rachel, da sempre persuasa che la migliore educazione per il figlio possa venire soltanto dalle ore trascorse fuori dal portone di casa, e pronta a svanire per sempre alla prima occasione in un buco nero di illeciti, controcultura e non troppo ben definita “lotta al sistema”; e quello del padre Abraham, chiuso come Superman nella sua “Fortezza della Solitudine” per dedicarsi con stoica perseveranza al più lungo film astratto in fieri del mondo, attento più a “meditare sul nulla” nel suo elitario rifugio di artigiano che a dimostrarsi un padre almeno decente. Inevitabile allora che il piccolo Ebdus cerchi e trovi una parvenza di adozione proprio negli affollati marciapiedi della sua zona, nei compagni di gioco a palla-veranda o con le spaldeen, nel fenomenale Mingus e in suo padre Barrett Rude Jr. o nell’altro reietto bianco Arthur Lomb, tutti ripudiati appena una nuova ipotesi di futuro gli si presenterà davanti.
Come il “groviglio di scrittura umana” citato nello scaltro (ma pregevole) finale, Dylan pare condannato ad abitare e muoversi perennemente in spazi precari (o intermedi), “coni di bianco” attraversati occasionalmente da presenze sempre sul punto di trasformarsi in qualcosa di diverso, identità e travestimenti in costante transito: dall’ansioso ma combattivo Arthur, sempre affamato – come Brooklyn – di spirito di emulazione e riconoscimento, alla stella cadente di Barrett Rude Jr., cantante soul passato dal quarto d’ora wahroliano di celebrità ad un declino totale (artistico, umano, mentale) a velocità stratosferica. Un ragazzo bianco allevato malamente da un monaco e da una hippy, incatenato in un recinto ideale tirato su da una manica di freak e di intellettualoidi prima che si trasformassero nelle inconsapevoli avanguardie delle agenzie immobiliari, spinto ad un’integrazione forzata ed impossibile in scuole pubbliche sempre meno accreditate dalle istituzioni e sempre più anticamera caotica della galera.

‘La Fortezza della Solitudine’ è insieme un sincero e mai accomodante romanzo di formazione, un monumentale catalogo del reale ma anche la cronaca dolorosa di un’amicizia gettata alle ortiche per viltà e convenienza quando il momento di crescere è finalmente giunto. E’ anche e soprattutto un’indagine autobiografica, un’introspezione del protagonista sui rapporti conflittuali con il quartiere in cui è cresciuto e che gli ha lasciato un segno indelebile nell’anima, e poi con la negritudine, amata ed odiata in egual misura nelle persone come nei simboli, ed alla fine riconosciuta serenamente come qualcosa di altro da sé, interpretabile ma mai davvero assimilabile.
La prima parte, più lunga, è quasi un capolavoro. Narrata in terza persona con lucidità da entomologo, forte di un realismo mai banalmente crudo anche quando fotografa le asprezze di un vivere in costante affanno. Tratteggiata con puntiglio da distanza opportuna, rende autentici i pensieri e i sentimenti nella loro trasparenza e delinea in maniera vivida un’esperienza di vita grazie ai contorni sfumati, al flou, alle atmosfere, a quel senso di tempo sospeso per sempre che ha una sua magia innegabile. Al centro Dylan e quel suo distacco antropologico maturato precocemente, indispensabile mezzo di sussistenza intellettuale ed emotiva nel campo aperto del quartiere nero. Ancor più della meraviglia dell’infanzia, pure presente, a colpire è in tal senso l’inquietudine guardinga del giovane protagonista, il suo mutismo difensivo ed innocente che sarà poi contrappuntato dalla disillusione amara delle battute conclusive. L’espediente del sottile inserto fantastico completa la gamma delle sfumature senza togliere forza all’impronta verista, anzi, contribuisce a spezzare con l’ambiguità la durezza delle vicende e dei personaggi.
Diversamente da quanto scritto in molti altri commenti, l’ossessione per il passato non si riduce mai sterilmente alla contemplazione nostalgica. Il grande accumulo di dettagli della cultura popolare americana degli anni ’70 ed ’80 è funzionale poiché orienta costantemente l’attenzione sulla marginalità solo apparente degli sfondi, così ribollenti, in uno scorrere denso, lento e con momenti in cui la narrazione si fa volutamente stagnante, si sofferma per necessità sul cuore rovente di Brooklyn come l’istantanea ingiallita di un’estate lontana. Questa scelta non contempla comunque ricatti nei confronti del lettore, ed è sostanzialmente stilistica, limpida quindi.
Nella seconda parte cambiano invece stile, registro, punto di vista, e si impone uno sguardo molto più disincantato (si vedano le pagine impietose dedicate al festival sulla fantascienza ForbiddenCon) anche senza scadere mai nel cinismo di comodo. Qui però Lethem pare troppo preoccupato dal bisogno di tirare le fila, di far venire al pettine tutti i nodi e più che raccontare si ritrova quasi costretto a spiegare ciò che in precedenza aveva solo implicitamente suggerito, finendo col togliere fascino alle sue parole.
Parte del talento di Lethem risiede comunque nella sua abilità nel giostrare con le interferenze sinestetiche. Profumi e colori, per dire, assumono grazie alla sua penna una concretezza quasi fisica. Questo romanzo è poi anche e soprattutto la musica che racconta, non distrattamente come si sarebbe indotti a pensare, perché la colonna sonora implicita è protagonista al pari dei due ragazzi e rivelatrice di conflitti intimi, tensioni sociali, filosofie esistenziali. Un elemento chiave attraverso il quale interpretare la realtà, così come il variegato microcosmo dei comics o l’arte di strada, i rimandi al cinema (da ‘Eraserhead’ a Stan Brakhage, di tutto un po’) e a certi frammenti di una quotidianità ormai sfumata nel pulviscolare dimenticatoio collettivo (lo Spirograph, la Lavagna Magica Etch a Sketch) che un po’ fa somigliare anche i nostri pomeriggi italiani di trentanni fa a quelli del Dylan bambino. Senza necessità di ulteriori parallelismi: di strada da allora, in fin dei conti, ne abbiamo fatta parecchia tutti quanti, in un presente sempre cangiante ed imperturbabile che, come questo romanzo importante ci ricorda, non è e non sarà mai soltanto bianco o soltanto nero.

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  1. 95Star
    agosto 6, 2017 at 11:35 am (7 anni ago)

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