L’ultimo dei Folksinger

 

Adam Arcuragi è il prototipo del cantante folk contemporaneo, pregi e difetti inclusi nel pacchetto senza facili distinzioni tra gli uni e gli altri. A guardar bene è anche il prototipo degli artisti di ultra-nicchia che ascolta il sottoscritto con ampie aspettative ed altrettanta pazienza, meritandosi (ma solo qualche volta) le prese per i fondelli di quegli amici che non hanno la più pallida idea di chi sia anche solo Will Oldham, tanto per non allontanarsi troppo dallo stile in questione. Adam si presenta come un autentico signor nessuno, canta le sue canzoni con buona convinzione e non si sforza minimamente d’esser originale. Lo si ascolta una, due volte. Si conclude dicendo che non è infame ma nemmeno merita chissà quale particolare elogio. Tuttavia si torna a cercarlo, magari lo si incrocia per caso lì in cima alla lista artisti dell’ipod e in certi giorni gli si concede senza troppe resistenze una nuova occasione. Come lui ce ne sono tantissimi altri, ma per l’apparentemente trita formula da lui proposta, oltre a quel cognome così strano ed improponibile, mi viene da considerarlo con affetto un po’ l’ultimo dei cantanti folk. Non il peggiore, attenzione. L’ultimo, inteso come paradigma della categoria tutta, come attore non vincente che gioca la sua onesta partita a carte scoperte con i propri limiti in bella vista. Ecco, Arcuragi rappresenta il limite stesso del cantautorato folk statunitense, per questo non mi viene da pensare ad altri dopo di lui. E’ esaustivo e cruciale, senza saperlo e senza volerlo.Troppo facile vestirsi da detrattori quando si incontra un Adam Arcuragi. Per chi detesta il genere, questo ragazzo di Philadelphia ha un po’ tutti i tratti tipici del songwriter appassionato e sfigato. Per chi non concepisce musica più lenta dei Libertines, Arcuragi è palloso. Forse non solo per quella ristretta cerchia di fruitori di musica più o meno indipendente. E’ vero, a volte non è un mostro di carisma e di energia, ma che volete farci, rientra nella linee fondamentali del personaggio e dei modelli ai quali si rifa.
 

Questo disco d’esordio, omonimo come sempre avviene in circostanze e con protagonisti simili, risale a poco più di due anni fa. Edito dalla piccola High Two, vanta alcune canzoni interessanti e parte subito nel segno dell’eccesso, provando a mettere sulla brace una costoletta iniziale succulenta ma fallendo, come da copione, già il primo obiettivo. ‘All The Bells’, beninteso, non è affatto un pezzo da buttare, no davvero. Però si sente che Arcuragi ha risposto in essa così tante speranze da farsi prendere la mano e limitandone in parte l’impatto positivo. Quel taglio acustico lo-fi che sa di presa diretta en plen air, con corredo di cinguettii di passeri, riporta direttamente alla meravigliosa esperienza di Mike Mogis con i suoi Lullaby For The Working Class (mi viene in mente l’apertura di ‘I Never Even Asked For Light’), di cui replica l’atmosfera accorata, spontanea e senza troppi fronzoli. Purtroppo a questo incipit manca quella leggerezza e il brano finisce col diventare un brodo allungato veramente oltre il dovuto: prolisso e un po’ sguaiato. A difesa del lavoro di Arcuragi bisogna comunque riconoscere che, per trovare un’altra canzone con analoghe penalizzanti caratteristiche, si deve arrivare addirittura alla traccia numero dieci (l’effimera ‘The Screen’, né carne né pesce, disgraziatissima a livello vocale). In mezzo dunque sta il vero album di Arcuragi, con dentro poche intuizioni degne di questo nome ma con tanto genuino entusiasmo. Assolutamente rappresentativa dell’autore – sottotitolo frenetico compreso – è ‘1981 (Or Waving At You As We Part At Light Speed Will Look Like I’m Standing Still)’: ispirata, più sfumata, meno monocorde, pur con quel mood sofferente e un po’ lagnoso con cui Adam tende ad appesantire il proprio stile trascinando strofe e ritornelli. Non rinuncia comunque al taglio secco ed autentico che lo rende piacevolmente ruvido ed enfatizza la sua convinzione. Ulteriore passo avanti, in teoria, arriva con la successiva ‘Delicate’, tenue e smorta lovesong al bromuro assai curata negli arrangiamenti e nelle ombreggiature, in cui Arcuragi gioca a fare il Kozelek e si fa scortare da un violoncello. Ho scritto “in teoria” perché si tratta forse di una canzone molto valida, ma per gustare la quale è necessario essere davvero nella più adatta disposizione d’animo. A questo punto il disco decolla, grazie ad una sequenza indovinata di tre ottimi pezzi. ‘Little Yellow Boat’, miglior titolo dell’album, colpisce per leggerezza e vivacità. Rinunciando alle facili pose Adam fa centro, vince per la semplicità di una proposta in cui tutto funziona miracolosamente bene, dalla trama essenziale della chitarra ad una voce che sceglie di non forzare e convince senza infastidire. Delicatissima la coda. Analogamente,‘The Song The Singer Sings’ resiste alla tentazione delle comode esasperazioni per cui il risultato è molto equilibrato, controllato, credibile. In chiusura di filotto, ‘Rsmpa’ è incantata e frizzante il giusto, con una chitarra che si fa vellutata ed un pregevole lavoro sui cori. Qualitativamente parlando, la chiusura di ‘The Christmas Song’ resta su questi incoraggianti livelli (anche più calorosa e animata), mentre il resto del disco è inferiore ma non disprezzabile. La visceralità di ‘Broken Throat’ evita abbastanza agevolmente gli scivoloni delle due prove peggiori, ‘The Dog Is Dead, Amen’ spicca per intensità, intimismo e sobrietà formale, mentre ‘Part of The Sky’ si presta perfettamente come “chiusura del cerchio” nel discorso introdotto in precedenza sugli scenari e le potenzialità di un genere logoro ma ancora vivo: un ottimo esempio di folk estrememente convenzionale ma eseguito con bravura, senza sbavature e con ammirevole disciplina sul piano vocale. Non troppo impegnativa ma senza pecche evidenti e, in fin dei conti, emozionante. Forse Adam Arcuragi è tutto in una canzone come questa.

0 comment

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Comment *