Sorella, mio unico amore  _Letture

      

Ecco il caso di un libro che fa male. Non amo concetti come quello appena espresso, forse perché non sono così suggestionabile dalla lettura, ma devo riconoscere che rispetto a molti altri romanzi affrontati in tempi recenti, questo di Joyce C. Oates si è dimostrato effettivamente ostico e ben poco accomodante. Non conoscevo questa prolifica autrice newyorkese vincitrice di un National Book Award ed ammetto di aver fatto un po’ di fatica a riconoscerne il talento. Entrare psicologicamente in sintonia con il travagliato bambino protagonista è impresa ardua, e la Oates non ne agevola la riuscita infarcendo i passaggi descrittivi di dettagli apparentemente insignificanti, che tornano sempre identici e sempre diversi a più riprese, appesantendo per forza di cose la prosa. E’ un modo per rendere le ossessioni che alla fine paga. Dopo cinquanta pagine ho odiato il libro. Dopo cento continuavo ad odiarlo, ma mi sentivo obbligato a procedere. Dopo duecento non potevo smettere, pur trovandolo sempre più sgradevole, perché era come ne venissi attratto con la forza. Inevitabile quindi procedere e affrontare l’angoscia, un senso di claustrofobia sottile, ma indubbio. Saper influenzare così profondamente il lettore, per giunta uno scettico e poco sfarfallante come il sottoscritto, non è proprio da tutti. Ecco perché quest’opera, pure non bella, pure brutale e tristissima, mi ha convinto. Alcuni passaggi, come il resoconto amaro della prima travagliata relazione sentimentale dell’anomalo antieroe, sono magistrali. Fino alle ultime pagine la tensione è gestita con scaltrezza ma senza ruffianeria. Peccato solo per un finale che stona un po’, viste le premesse: una concessione – la prima – che è forse troppo americana e troppo consolatoria per strappare l’ultimo applauso.

L’infanzia spezzata di una piccola campionessa di pattinaggio, ispirata nemmeno troppo fantasiosamente ad un terrificante fatto di cronaca che fece il giro del mondo alcuni anni fa (la morte misteriosa della reginetta di bellezza JonBenét Ramsey), è lo spunto banale su cui Joyce Carol Oates ha costruito questo voluminoso ed affilatissimo romanzo. L’azione è scarsa, stagnante, nelle vicende dei protagonisti letteralmente scisse tra un prima ed un poi, con la sola voce narrante dell’eroe Skyler Rampike a guidare il lettore nei meandri di un inferno dei sentimenti e a rendere testimonianza  di un’evoluzione – profondamente peggiorativa – di ogni forma di umana relazione nel cuore di quello che dovrebbe essere il vero baluardo di una società cristiana, benestante e progredita, fatta a pezzi un po’ per volta dalla Oates con freddezza chirurgica. Anonimo ed insignificante “come una bolla di sapone”, ridotto già in tenera età allo status di “nota a pié di pagina” nella vita dei suoi cari, Skyler è il figlio “sopravvissuto” di una scellerata famiglia nordamericana che è tanto più impressionante quanto più plausibile, iper-realista, volendo accogliere la metafora pittorica. E’ la nota stonata all’interno del cerchio perfetto di casa Rampike: la delusione mai taciuta di un padre in carriera, omofobo ed ignorante, che sognava per lui un futuro di successi sportivi, professionali ed erotici, su un sentiero disegnato con mano ferma ed ottimista ma stracciato presto da un destino assai più concreto ed impassibile; è la vergogna di una madre divorata dalla propria smisurata ambizione e da un senso di frustrazione ugualmente totalizzante, resa cieca dal desiderio di esserci, apparire e primeggiare al pari dell’alta società del New Jersey, pur dovendosi limitare alle imitazioni pacchiane dello stile, del bon ton e delle etichette e pur dovendo brillare della luce riflessa del piccolo mostro Edna Louise / Bliss, tagliando per il successo e prodigio artatamente modellato con bieco cinismo, trasfigurato per la gloria fatua dei media sin nella sacralità del proprio nome di battesimo.

Indifferente ai virtuosismi formali ed al ricamo edificante delle belle lettere, l’autrice ha confezionato una spietata e malsana rappresentazione sugli orrori del quotidiano adottando con impressionante rigore e fermezza il punto di vista di un adolescente piegato come Atlante da tutto il peso del mondo: tormentato dai sensi di colpa, derubato di ogni affetto e devastato dall’abuso di farmaci e dalle inappellabili sentenze di un esercito di psichiatri senza dignità alcuna. La prospettiva scelta è il campo di osservazione privilegiato sulle disfunzioni di una tipica famiglia yankee della middle class sbirciata da dentro e dal basso, vivisezionata con il bisturi impietoso della realtà grottesca – colore sempre vivido nel pantano della memoria – e ricomposta come in un procedimento tassidermico amatoriale attraverso la lente deformante di uno spirito ancora puro, per quanto minato da troppi disagi e perseguitato da troppi fantasmi. Lo stream of consciousness mimetico e senza filtri affidato alle scarne velleità poetiche e metanarrative del mite Skyler è il vero colpo di bravura della scrittrice di Lockport, poiché consente al lettore uno sguardo crudo e non convenzionale sui guasti nelle dinamiche interpersonali, sulle distorsioni comunicative ed emotive all’interno di un istituto familiare sempre più in crisi, i cui falsi miti cadono uno dopo l’altro grazie alle inquietanti e confuse scoperte dell’eroe bambino. L’ambiguità regna sovrana ma è un valore aggiunto, per come tratteggia l’atmosfera torbida e mostruosa in cui si specchia ignaro il piccolo protagonista, lasciando a chi legge il brivido crudele ma impagabile della consapevolezza.

La scrittura rinuncia ai belletti optando per un’aderenza piena e realistica, per quanto alterata dalla prospettiva in soggettiva. E’ frenetica, compulsiva, infarcita, ridondante e profondamente discontinua, tutta salti, anticipazioni, flashback e ritorni ossessivi, come il flusso schizofrenico di informazioni nel grande baraccone televisivo o come l’intrecciarsi quasi fisico delle voci nei ricordi “frammentari e corrosi” del protagonista, presentati come “in un sognante montaggio cinematografico”. Nondimeno rivela una sua rigorosa coerenza e sa essere scorrevole, come una materia magmatica che avanzi lenta ma inesorabile. Con il suo ritmo a singhiozzo, l’insistenza su dettagli marginali, le continue ripetizioni ed i repentini cambi di registro (dal soliloquio alla telecronaca, dagli articoli di giornale al guazzabuglio pop da talk show, alla formula del racconto epistolare) il risultato per il lettore è qualcosa di inevitabilmente faticoso e talvolta irritante, per quanto non privo di un fascino innegabile che ha gioco facile nell’irretire a piccoli passi chi si riveli più paziente. ‘Sorella, mio unico amore’ è però anche molto di più: una critica feroce alla morbosità dei media, alla stampa scandalistica e, prima ancora, all’inarrestabile speculazione sul dolore e sulle tragedie che negli Stati Uniti (ma anche da noi, sia chiaro) sembra aver oltrepassato di molto la soglia della decenza. Non a caso il personaggio cruciale (come nella vicenda Ramsey) è l’ignobile figura materna, infervorata presenzialista televisiva, autrice letteraria in preda a misticismo d’accatto ed imprenditrice del dozzinale di successo con la sua linea “Profumo del Paradiso”. <<Dalle ceneri di una tragedia si raccolgono dei frutti: questo è il modello di vita americano>>, l’epitaffio agghiacciante. A compensare l’acredine è sufficiente tuttavia il disarmante candore della vittima che si crede carnefice, uno Skyler protagonista titanico che non può non intagliarsi nella memoria. Affidandosi alla grazia del suo sguardo, il romanzo si riscatta dal rischio di esaurirsi in un pamphlet in fondo sterile e diventa una parabola potente sulla perdita e sul perdono.

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