Omar Souleyman @ Sala Espace   09/09/2011    _ Il nostro (altro) concerto

      

Omar Souleyman finalmente in Italia. Finalmente e, con ogni probabilità, mai più. Come una febbre arrivata improvvisa e repentina, anche la moda di questo eccentrico personaggio della scena indipendente (più che della world music tout court) sembra destinata a svanire senza particolari strascichi e senza il rischio di ricadute. Possono sembrare parole ingenerose queste, ma vi assicuro che non è così. Non potrei mai spendermi davvero in critiche malevole nei confronti di un artista al cui concerto, in fin dei conti, mi sono divertito e non poco. Certo andrebbero anche chiariti i termini di quella contenuta ma genuina euforia, e per farlo mi preme svelare un piccolo retroscena dell’evento che qui sommariamente racconto. La cosa in assoluto più spassosa riguardo al passaggio cittadino del cantante siriano è stato l’equivoco di fondo che si è venuto a determinare a causa della fuorviante collocazione di tale live nel quadro della ben più “alta” rassegna di MiTo 2011, con inevitabile presenza di un pubblico di abbonati maturo e curioso, interessato alle suggestioni “esotiche” dei folklorismi musicali arabi e del tutto ignaro di quanto lo aspettasse in realtà. Pensavo di aver sbagliato serata trovandomi in coda con un bel manipolo di attempati spettatori, signore ultrasessantenni ingioiellate e ben vestite con il voluminoso programma di MiTo in mano e, accanto a loro, i rispettivi annoiati consorti. Proprio una rapida verifica sul libretto della manifestazione mi ha svelato la stranezza, preparando le prime risate: la presentazione da copione sembrava raccontare uno spettacolo ben diverso rispetto a quello intercettato in un paio di filmati in Polonia su Youtube. Qualcosa di posatissimo e magari anche un po’ noiosetto dal misterioso oriente… Un altro sorriso quando la signora di turno ha sbirciato furtiva dietro la tenda che dava sul salone, borbottando preoccupata al barista che non vedeva poltrone, ottenendo in cambio la sgarbata risposta: “A lato sala ci sono delle sedie di plastica. Ne prenda una e la metta dove le pare più comodo, se ritiene che in questo modo si godrà il concerto. Io ne dubito sinceramente, vedrà che divertimento”. Così è andata di fatto, in linea di massima: ancora ignari dell’imminente guazzabuglio elettronico, questi maturi spettatori hanno preso ciascuno una sedia collocandola sotto al palco, persistendo poi nel lanciarsi in fantasiose e sballatissime previsioni sul live di Souleyman. Le ultime parole famose, più o meno: “Al limite, dovessimo vedere che è una pizza, ci alziamo senza disturbare nessuno e ce ne andiamo”.

Al secondo brano tutto questo parterre de rois era stato cancellato dalla Sala Espace come se una bufera lo avesse sradicato, rimpiazzandolo con una masnada di giovanotti in perfetta trance danzereccia nello spazio vuoto un attimo prima occupato dai coetanei dei miei genitori e dalle loro belle sedie di plastica. Non che Souleyman possa essere paragonato ad un ciclone, visto che in scena ha meno verve di un orchestrale alla fiera provinciale del liscio, magari playback incluso. Non un animale da palco quindi, ma comunque da vedere: lunghissima tunica color topo, kefiah biancorossa, occhiali scuri di un modello tristemente vintage, scarpe di vernice nera ed orologiazzo d’oro, come se ne vedono fino alla nausea nei paesi arabi (in abbinata alle Mercedes, naturalmente). Spostamenti rituali da destra a sinistra, immancabili battiti di mano al cloroformio (con il microfono sotto l’ascella) e rinnovati gesti di incitamento, anch’essi alla moviola, al suo pubblico. Senza dubbio poco, ma ai suddetti giovanotti e alle tante signorine presenti deve essere bastato, perché le ovazioni per questo bizzarro cantante di matrimoni baciato dal successo (dalla scoperta ai festival inglesi ai remix richiestigli nientemeno che da Bjork per alcuni pezzi dell’ultimo ‘Biophilia’) non si sono contate. E dire che il Nostro si è presentato a Torino a ranghi ridottissimi: senza il formidabile saz elettrico di Bahjat Ali, senza gli intermezzi del poeta-suggeritore di turno, e con il sostegno del solo Rizan Said, vero mago ed autentica macchina da guerra dietro gli enormi congegni votati al ritmo ossessivo della serata, drum machine, synth feroci e svariate altre diavolerie elettroniche. Il risultato è stato l’atteso forsennato pastiche sintetico di Dabke siriano, Choubi irakeno ed altre indistinguibili influenze sonore (curde, a quanto scrivono) da bazar mediorientale, più votate ad un trash da battaglia (ma confezionato dalla precisione impressionante della mano di Said) che non alla bella forma per le platee sofisticate. Tutto come da copione quindi, esageratamente kitsch ma di fatto divertente almeno fino al quinto o sesto brano. Poi il profano cronachista ha dovuto alzare bandiera bianca, spossato, mentre attorno a lui nessuno pareva volerne sapere di fermarsi, con Omar là sul palco intento a tenere in caldo la stessa identica pietanza di tre quarti d’ora prima e a riservare al sottoscritto un sorriso intelligente e beffardo. Forse lui per primo sa che la sua moda sta passando rapida, così come la si è lanciata all’ATP e su tanti altri palchi trionfanti per la comunità indie (orrore), in Europa e non. Forse era un cenno d’intesa, un “grazie di esserci stato e di aver documentato”. Di niente Omar, se era solo per questa volta. Come diversivo di una sera hai funzionato alla grande e adesso hai un posto anche tu nel mio album dei ricordi.

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