Cults @ HiroshimaMonAmour  10/11/2011          _ Il nostro (altro) concerto

      

Quella dei Cults all’Hiroshima è stata una di quelle giornatine che ogni tanto capitano, quelle che definire telluriche è riduttivo. Tralascio di elencarne i motivi che oggi pure ricordo a malapena e mi limito a scrivere della scoperta del relativo cambio di venue avvenuta solo all’ultimo e solo fortuitamente (nessuno degli amici si era degnato di mandarmi un misero sms per avvisarmi). Avrebbero dovuto segnare l’esordio live di un nuovo locale cittadino, l’Astoria, e, proprio per festeggiare la particolarità della serata, il concerto sarebbe stato ad ingresso libero (a milano la sera seguente costava ben 15 euro). Ritardi nella consegna dei materiali per ultimare la ristrutturazione (a causa dell’alluvione in Liguria e Lunigiana, pare) ha comportato lo spostamento dello show all’Hiroshima con richiesta di un ticket comunque abbordabile (5 euro) per scongiurare la cancellazione e consentire a promoter e gestori (e alla città anche) di salvare la faccia. Questo in soldoni il preambolo, anzi, uno dei preamboli. Il secondo, assai più significativo, riguarda proprio i protagonisti del live di cui riporto qui una traccia sommaria. I Cults, già, una delle rivelazioni assolute dell’anno appena mandato in archivio almeno stando al prestigioso parere di Pitchfork (e di tanta altra critica accreditata): se la popolarissima webzine statunitense ha celebrato il primo passo del duo newyorkese con lodi sperticate ed un lusinghiero 8.5, benedicendo il gruppo con la scintillante qualifica di BNM (Best New Music), il sottoscritto ha trovato ci fosse davvero poco di convincente nel disco eponimo pubblicato nientemeno che per Columbia (cioé Sony), rinunciando alla causa dopo non più di 5 ascolti. Davvero troppo piatto e monocorde come album, non solo o non tanto nelle canzoni (appena discrete) o nell’interpretazione (scialba tutto sommato, specie la vocina da diabete di Madeline Follin) ma proprio a livello di sonorità, con quel noise-pop troppo diligentemente curato (leggi “manierato”) e al contempo troppo blando per impressionare davvero. Un giudizio tanto ingeneroso da parte mia potrebbe indurre chi legge a chiedersi il motivo della mia presenza sotto al palco dell’Hiroshima, ma la risposta è scontata: per verificare all’ultima spiaggia il perché di tanto clamore, semplice.

Giunto dopo tali premesse a parlare finalmente del concerto in sé, sarò brevissimo tagliando all’essenziale i fronzoli: non è stato niente male. Oddìo, adesso non aspettatevi una prova clamorosa, densa di virtuosismi o di chi chissà quali buone vibrazioni. I Cults rimangono una simpatica combriccola di (onesti) mestieranti baciati da successo spropositato e non certo dei fenomeni, però dal vivo hanno reso infinitamente più e meglio che su disco. Non so dire se il merito vada attribuito a quelle melodie sixties più vive e calde che nelle registrazioni di studio, al cantato incredibilmente carico della Follin (grande sorpresa), all’indispensabile supporto ritmico (e non) di ben tre turnisti assoldati per questo tour europeo, alle belle immagini di vecchi film proiettate sullo sfondo (guest stars Robert Mitchum e Richard Widmark) o più prosaicamente della congiuntura favorevole di un’esibizione arrivata con tempismo a sciacquare via timori e tremori di un periodo molto turbolento. Sia quel che sia, lo show è stato molto gradevole e ben più lungo di quanto immaginassi (poco meno di un’ora bis compreso, temevo la metà visto il repertorio esiguo). Tra le note in assoluto più positive citerei il modo di porsi dei due protagonisti, decisamente alla mano nonostante le camionate di hype sotto i loro piedi, ed in particolare di una Follin sufficientemente espansiva e simpatica. Anche molto bella (e in carne) – va detto – nei suoi spensierati balletti attorno al microfono, vero fulcro scenico della band, mentre il suo compagno Brian Oblivion è risultato pressoché invisibile (ed infotografabile) dietro all’enorme synth suonato con estrema parsimonia. In definitiva, qualche bella armonia, qualche graffio ed un’oretta in buona compagnia. Per capire se effettivamente oltre al fumo c’é un po’ di arrosto rimanderei al secondo album, sperando che nel frattempo contattino un produttore migliore di Shane Stoneback.

SETLIST: ‘Abducted’, ‘The Curse’, ‘Never Heal Myself’, ‘Most Wanted’, ‘You Know What I Mean’, ‘Bumper’, ‘Walk at Night’, ‘Never Saw the Point’, ‘Go Outside’, ‘Rave On’; ENCORE: ‘Oh My God’.

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