Fatalists

         

Non assurgerà mai al rango di mostro sacro, non potrà vantare il tocco magico dei Guy Kyser, degli Howe Gelb, dei Tim Rutili, degli Edwards e dei Lanegan, eppure nessuno può negare a Hugo Race di essere un autore di talento, uno che ha saputo smarcarsi dalle ombre troppo ingombranti di un passato da gregario per maturare negli anni un proprio linguaggio personale, sofferto, incisivo, credibile. ‘Fatalists’ è un piccolo album senza particolari pretese, ma può vantare almeno una significativa nota di merito: la sincerità. Uno di quei lavori polverosi, sporchi senza essere ruffiani, senza inseguire pose maudit e senza affogare nei cliché di genere. Certo non aggiunge nulla ad una formula espressiva – il desert folk di marca yankee – che è già stata esplorata in lungo e in largo da autori giganteschi, a parte forse le angosce dei propri avventurosi trascorsi australiani sotto l’ala di un giovane Nick Cave. Race è un cantautore che non si è mai adagiato sui pur limitati allori, ma ha sempre voluto mettersi in gioco ed esplorare, genere dopo genere, le proprie potenzialità nei tanti ambiti della musica popolare. Per quanto non sia stato certo realizzato per conquistare chissà quale pubblico, registrato per giunta in condizioni precarie dall’artista stesso, ‘Fatalists’ è una fotografia fedele di Race sulla soglia dei cinquanta. Un buon consuntivo autoriale in attesa di nuove svolte e nuove ricerche nella tradizione. Anche se a qualcuno potrà apparire la copia spompata e noiosa del miglior Lanegan e di chissà quanti altri folksinger di razza, posso testimoniare che dal vivo è uno di quei cantautori che sorprendono positivamente e si lasciano apprezzare anche da chi non abbia particolare passione per il genere di riferimento: bella voce cupa e profonda, chitarra scarna ma attenta alla melodia, essenzialità luminosa. Nei prossimi giorni sarà nuovamente in giro per l’Italia ed è sicuro che su queste pagine saremo attenti a raccontarne le gesta.

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