La fine della strada                                        _Letture

       

Sentimenti contrastanti dalla lettura di questo romanzo dello statunitense John Barth, uno dei più apprezzati autori del genere postmoderno tra anni sessanta e settanta, qui ancora (per la seconda ed ultima volta) alle prese con un registro narrativo equilibrato e per così dire “realista”, nel racconto del più classico dei triangoli amorosi. Per quanto scritto in maniera notevole, ‘The End of the Road’ si fa ricordare più per il suo carattere discontinuo e per i troppi sofismi (oggi, forse, davvero fuori tempo massimo) che non per la reale efficacia del racconto. Il protagonista è indubbiamente di quelli memorabili. Dalla prima pagina siamo spinti a vivere e pensare con lui, a patire le sue umorali ossessioni, anche se una piena condivisione è volutamente impossibile: è brutale nella sua logica iperbolica Jacob Horner, ma anche eccessivamente insofferente a tutto, spietato e sgradevole per suscitare vera simpatia, fino in fondo. Proprio in lui comunque risiede la modernità di un libro che per altri aspetti si porta molto male i suoi cinquanta e passa anni, che convince solo quando sterza bruscamente o comunque quando sembra assumere una posizione definitiva, in un senso o nell’altro, proprio come il letargico Jacob. Le incertezze, le acque stagnanti nella narrazione, potevano essere una cifra interessante quando il romanzo uscì (1958) ma oggi credo rendano davvero troppo difficoltosa la lettura. Col senno di poi, meglio forse dedicare quel poco tempo a ‘Giles Ragazzo-Capra’ o ‘Lost in the Funhouse’, due romanzi dello stesso autore che hanno profondamente influenzato, tra gli altri, un giovane di nome David Foster Wallace.

Trentenne senza grandi titoli o particolari esperienze alle spalle, Jacob Horner è l’oscuro protagonista di questa lunga parabola sullo stallo esistenziale e sulla mania, uno sgradevole e memorabile antieroe la cui unica vera scelta, per quanto non pienamente consapevole o comunque non motivata, segnerà amaramente il destino delle due persone a lui più legate. Contraddistinto da una tendenza all’immobilismo decisionale prossima al patologico, per la quale è in cura presso uno strano medico (un po’ psicanalista e un po’ guaritore, sospetto ciarlatano), è lui stesso a confessare al lettore come tra le sue qualità “meno fortunate” vi siano la timidezza, la paura del ridicolo, l’inclinazione per le sciocchezze di ogni genere ed un’incoerenza quasi completa. Facile immaginare da questi pochi dettagli come il taglio conferito da Barth ai resoconti scritti del giovane Horner sia prevalentemente comico: al di là dei momenti di calma piatta, le allucinanti giornate “senza umore”, senza personalità e con la mente vuota “quanto uno spazio infrastellare” (o occupata solo dallo slogan di una vecchia reclame della Pepsi, il “monoscopio della mia coscienza”), Jacob rivolge gli strali della sua feroce ma lucidissima ironia non solo verso i propri sbalzi emotivi ma anche e soprattutto verso il prossimo, senza mai celare l’insofferenza per l’anonima vita nella provincia del Maryland, dove si è trasferito per insegnare grammatica prescrittiva e trovare una soluzione ai propri problemi. Mentre ogni tentativo di socializzazione nella piccola comunità di Wicomico sembra destinato a naufragare a causa della sua inossidabile ritrosia (emblematico il rapporto con la professoressa frustrata), per contrasto Jacob intreccia un legame sempre più intimo ed ambiguo con il collega Joe Morgan e con la moglie di questi, Rennie, andando a scardinare quasi a cuor leggero nella donna gli equilibri delicatissimi di una implicita quanto assoluta sottomissione psicologica nei confronti del marito. Al culmine dei reiterati frangenti descrittivi che tengono traccia di questa progressiva complicità, penalizzati forse dall’eccessiva pesantezza “strutturale” di un racconto che sembra per lunghi tratti girare a vuoto, l’adulterio è narrato senza enfasi e senza morbosità come in campo lungo, ed è a quel punto qualcosa di atteso ed inesorabile: uno degli anelli di una catena che non potrà non condurre al dramma finale, anch’esso preventivato ma ugualmente scioccante. Quelle della seconda parte sono forse le uniche pagine realmente avvincenti di tutto il romanzo, con la stabilità emotiva certosinamente costruita nei primi capitoli stravolta a più riprese in un vortice di reazioni via via più fosche (dalla coscienza avvelenata di Rennie ai rimorsi fin grotteschi di Jacob e l’affascinato disgusto di Joe), ed il protagonista finalmente spinto all’azione in un’imprevedibile maratona di menzogne ed espedienti disperati, come a volersi finalmente meritare quella dignità esistenziale che Barth, sistematicamente, si premura di negargli. Il finale è crudele perché svela come questa illusione sia in fondo ineluttabile, lasciando Horner tristemente irrisolto e rifiutando al lettore il comodo appiglio di un’identificazione in qualche modo consolatoria o positiva. Nonostante lo stile asciutto e numerosi spunti anche divertenti (su tutti l’esilarante e amara farsa nelle prime lezioni di Jacob come insegnante di liceo), il romanzo non riesce a superare il precedente (e per molti versi analogo) ‘L’Opera Galleggiante’, che era senz’altro più autentico e sanguigno, finendo qua e là con l’arrancare: una raccolta di elaborate elucubrazioni di taglio filosofico, psicologico e sociologico, ma in fin dei conti anche un prolungato (e mai davvero appassionante) esercizio teorico, una riflessione scritta benissimo ma eccessivamente studiata a tavolino, inutilmente sofistica, troppo rigorosa ed asettica per emozionare.

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