Woven Hand  @ Spazio211      01-12-2010

 

E' stato uno dei più bei concerti cui ho avuto la fortuna di assistere negli ultimi anni, e in fondo non poteva essere altrimenti. La prima volta con David Eugene Edwards, artista assoluto, è stato un evento atteso veramente a lungo, diciamo da quando uscì 'Secret South' dei Sixteen Horsepower e fu subito colpo di fulmine. Nonostante gli anni trascorsi, nonostante il cambio di ragione sociale, pare davvero difficile che i primi live del cantautore-predicatore del Colorado potessero essere più incendiari di quello che ha fatto tuonare le misere pareti di Spazio quella sera di inizio dicembre. Un concerto magnetico, come prevedibile tenendo conto della vibrante natura del personaggio. Con meno misticismi esotici che tra le pieghe della sua più recente fatica, il notevole 'The Threshingfloor', ma con quella sua titanica verve da asceta a tutto tondo che con gli anni sembra non solo non essere sbiadita ma, se possibile, aver corroborato la propria fibra. Canzoni potenti suonate con piglio viscerale, trasfigurate nell'interpretazione tellurica di un maestro lontano dalle pose e dalle mode, autentico nella sua devozione e nel suo credo ferreo, ma anche straordinario musicista tra folklorismi acustici ed elettricità rock desertica. Ho amato il Cave più arido e pungente ed il Lanegan torrido delle 'Field Songs', non mi perdo un passaggio di Howe Gelb e dei suoi Giant Sand perché sono una benedizione in musica. Ma in questo stesso terreno Edwards è superiore a tutti loro perché – davvero – sul palco porta semplicemente se stesso ed è spettacolo puro. Un po' pastore infervorato, un po' nativo americano in continua trance, musicalmente lucido ed inesorabile. Il suo stile riconoscibilissimo si è imposto al di là di una performance perennemente sopra le righe ma al tempo stesso asciutta, anti-macchiettistica, e ha travolto tutto ciò che ha incontrato: le nostre potenziali resistenze in primis, ma anche l'altro da sé, cannibalizzato ed assimilato con strabiliante naturalezza. Penso alla fantasmagorica cover dei Joy Division che ha aperto le danze e poteva tranquillamente essere scambiata per un pezzo scritto da lui nel pomeriggio, un lampo espressionista in perfetto Gotico Americano. La grandezza di un artista la si intuisce anche da dettagli del genere. In abbinata, l'ottimo lavoro della band – la stessa che lo accompagnava ai tempi dei 16Horsepower, immaginatevi l'intesa – ed il pregevole contributo del set introduttivo di un paio di musicisti folk greci, decisamente a loro agio nel clima sonoro delle canzoni più recenti a marchio Woven Hand. Serata di quelle indimenticabili quindi, per approfondire la quale rimando al live report e alla galleria di immagini raggiungibili dalle foto in alto.

0 comment

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Comment *