American Gong

 

Un anno di stagionatura è intervallo di tempo sufficiente a delineare il verdetto sull'ultimo album dei Quasi, anche a chiusura del cerchio dell'attenzione dedicata alla band di Portland su questa pagina negli ultimi tempi. Ero intenzionato a riscriverne in termini non certo entusiastici, sull'onda di un dato non proprio generalizzabile ma comunque singolare: dal loro concerto di Maggio penso di non aver più ascoltato 'American Gong', di sicuro non ne ho avuto il desiderio. L'ho rifatto questa mattina come rispolverata in vista del pezzo e devo confessare che l'impressione è stata ben migliore delle aspettative. Già a dicembre l'avevo congedato riservandogli una posizione onorevole nella classifica dei dischi dell'anno, sicuramente condizionato dalla mia naturale simpatia di partigiano e dall'energica virata verso il rock espressa a grosse linee con il reclutamento di Joanna Bolme e la firma per la nuova etichetta. Dopo tutto questo tempo l'ho ritrovato molto più vivo e sensato di quanto ricordassi. Ci sono dei riempitivi, per carità, c'é qualche passaggio non proprio esaltante, ma la sua fisionomia di album penso d'averla colta oggi per la prima volta e mi ha fatto piacere. Era il limite che intendevo mettere in evidenza paragonandolo più al trittico di dischi usciti per Touch & Go prima di questo – sicuramente più prossimi per il generale umore torvo e per la cattiveria non filtrata – che non alla terna benedetta degli anni d'oro, quelli della Domino. Ad oggi un senso è riemerso, un filo rosso che lega le diverse canzoni del disco. "No More Empire". L'aveva descritto così Sam nell'intervista di Bologna, una risposta molto meno buttata lì di quanto avessi inteso al momento, considerando il carattere apparentemente meno politicizzato di quest'ultima loro fatica. Anche i meriti ora sono molto più chiari. In primo luogo la conferma che un pezzo come 'Repulsion' (e in parte anche altri) è esattamente quello che volevo sentire dai Quasi dopo la lunga assenza: rabbia, nervi, tetano rock. Azzardo che si tratta forse della mia canzone preferita del gruppo di Portland da parecchi anni a questa parte. Non solo. Il corredo qualitativo resta discretamente alto sui medesimi registri, con una festosa isteria a farla da protagonista in diversi momenti ('Bye Bye Blackbird', 'Rockabilly Party', 'Little White Horse') e la riproposizione non rinunciataria di alcuni tra i migliori cliché coomesiani (ribadisco che anche 'Everything & Nothing at All' in tal senso è una canzone notevole). E' quanto serviva al sottoscritto per ammettere 'American Gong' nel club dei dischi dei Quasi degni di attenzione, ovverto tutti. Non so poi se fosse solo una vena particolarmente benevola la mia di stamattina ma, abbastanza incredibilmente, anche 'Laissez Les Bon Temps Rouler' mi è sembrata dignitosa e non così campata in aria. Romanticismo di grana grossa, non ci piove, ma sufficientemente sincero da meritarsi comunque rispetto. Nella recensione scritta per Monthlymusic.it avevo sicuramente radicalizzato le mie opinioni, parlando di 'American Gong' come del capitolo finale di questo precipitare senza speranze verso l'oscurità. Appurato che non si tratta dell'opera di due (anzi tre) spensierati ottimisti, c'é da registrare comunque che quelle mie lapidarie parole erano eccessivamente orientate dalla comodità della forzatura, da una parabola sulla carriera dei Quasi che sta più nelle recensioni dei critici (anche fan) che non nella realtà effettiva. Coomes e la Weiss non sono davvero due pazzi paranoici incarogniti verso l'universo mondo. Nella sua innegabile natura di invito alla disillusione si tratta in realtà di un album molto più gioioso di quanto non pensassi dodici mesi fa, anche Sam l'aveva rivendicato quando ce ne aveva parlato. E questo è tutto direi. Approvato. 

0 comment

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Comment *