Jonathan Richman @ Spazio211

27/10/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

"Non perfetto, mi arrangio”. Umiltà ed ironia come armi irresistibili, oltre ad un incomparabile bagaglio di trucchi mimici, siparietti improvvisati e tanta buona arte dell’intrattenimento. Non immaginavo che il menestrello gentiluomo Jonathan Richman, cinquantanovenne che si direbbe ormai arrivato da un pezzo, fosse un tale pozzo di sorprese e calore, ma artisti senza maschere come lui sono tra i pochi a saper gestire i propri spettacoli come autentici spezzoni di vita, confondendo il piano espressivo e quello esistenziale senza lasciare mai facili coordinate allo spettatore. E’ questo a lasciare stupefatti e piacevolmente spiazzati, la genuina follia di un cantautore fuori dagli schemi come pochi altri perché sincero come nessun’altro. Non sapevo che questo suo nuovo tour, ad un anno appena dall’ultimo passaggio italiano, servisse in teoria a promuovere una nuova fatica discografica, ‘Oh Moon, Queen of Night on Earth’. L’ho scoperto soltanto qualche giorno dopo, cercando tramite la rete di dare un nome a qualcuno dei brani inediti sentiti al concerto. Lui in tutta la serata non ne ha fatto menzione neanche una volta, e questo la dice lunga. Gli album di Richman hanno ormai un’importanza assai relativa, non occorre molto per accorgersene. Pur suonati benissimo, restano trascurabili come istantanee, garbati ma senza grandi lampi, sostanzialmente sovrapponibili ad una stessa matrice riproposta senza variazioni di rilievo da tanti anni a questa parte. Non sono i dischi a contare, non fanno la differenza per gradevoli che possano suonare. E’ lui soltanto a rendere uniche queste canzoni, è la loro svalvolatissima interpretazione dal vivo. Ho dovuto attendere l’inizio di questo prezioso live torinese a Spazio per arrivare a comprenderlo, ma un indizio importante avrebbe dovuto mettermi sulla strada giusta già qualche minuto prima: il pubblico. Aspettavo un pugno di spettatori, per lo più brizzolati, ed il livello di sale e pepe sulle teste degli astanti ha confermato la bontà della previsione. Del tutto fuori strada è stata invece l’intuizione sul dato quantitativo: con 2-300 presenti ravvisabili ad occhio con incredula panoramica sul locale prima del via, siamo andati ben al di là del più roseo preventivo della vigilia, superando con ogni probabilità anche il numero di biglietti venduti due sere dopo all’assai più hypato doppio appuntamento con No Age e Abe Vigoda. In pratica non immaginavo che esistesse un culto tanto vivo ed affettuoso nei confronti dell’ex leader dei Modern Lovers, ma sono bastati cinque minuti scarsi per comprenderne la pur incredibile ragione. Jonathan è un ometto alla mano. Il volto percorso da rughe in lungo e in largo, il pizzetto grigio, gli occhi vispi ma tristi di chi ne ha viste di tutti i colori. Nonostante l’aspetto alquanto compassato, è un entusiasta per natura. Un tipo curioso che ama mettere in piazza la sua ingenuità fanciullesca e condividerla con i fan, un piccolo esercito che evidentemente gli si è sempre dimostrato legatissimo. Accompagnato dal fido Tommy Larkins, armato di una semplicissima chitarra classica (non elettrificata) oltre a qualche sonaglio e vestito con una buffa camicia da ballerino di Flamenco, il cantante di Boston si è lanciato immediatamente, dopo gli applausi di benvenuto, in una liberissima performance lunga l’intero concerto, una sorta di ininterrotta serenata e nel contempo farsa, balletto, improvvisazione letteraria. Un mix semplicemente incredibile, difficile anche solo da raccontare vista l’insolita inclinazione spettacolare dell’evento, gestito con fantasia ed umorismo dall’arguto musicista ed orientato alla dialettica aperta con il pubblico, nel modo più spontaneo che vi riesca di immaginare. A suo modo Richman è un animale da palcoscenico, i suoi estimatori lo sanno. Ve n’erano molti, a ridosso del palco, che hanno seguito in prima linea i suoi concerti cittadini dei primi anni ’80. Lo hanno incalzato ricordandogli il Big Club o lo Studio Due, raccogliendo da lui conferme sui begli anni che furono, ma anche una risoluta presa di distanza: “il passato non deve incatenarci”.

 

Sarà per questa rigidità malinconica nei confronti della sua età dell’oro che Richman ha voluto subito chiarire di non essere venuto per riproporre una stanca replica del leggendario Ice Cream Man. Atteggiamento franco ma onesto da parte sua, condivisibile nonostante la delusione per l’assenza di tutti i favolosi pezzi di quel remotissimo esordio, ‘The Modern Lovers’, 1976. Al di là di questo, lo show è stato comunque generoso e godibilissimo. Poteva essere ostica l’impostazione frammentaria conferita allo spettacolo, con pezzi avviati ed interrotti, variati in corsa con testi del tutto nuovi, spezzettati da parentesi danzanti o teatrali ed affogati, soprattutto, in un’orgia irresistibile di ciance, parole su parole (solo apparentemente) a vanvera. Gli si perdona tutto comunque. Richman suona da Dio. A tratti sembrava ricordarsene, allora ha incantato con la sua chitarra e per alleggerire si è preso in un po' in giro – “Non perfetto, mi arrangio” – chiamando la risposta del pubblico. Si è lasciato andare, molto volentieri, discorrendo di Torino, di mass media, di Slow Food, dell’Italia e della Francia, di Boston e della pazzia contemporanea. In certi passaggi era così coinvolto e infervorato dai suoi spettatori al punto di dimenticarsi per qualche attimo di cantare o suonare davanti al microfono, con quelle note che si facevano spazio a fatica per arrivare comunque alle nostre orecchie. Si è fatto sostenere di continuo dai fan, specie nella contagiosa (e maccheronicamente reinventata) versione di ‘Così Veloce’, a dir poco irresistibile come collezione di frammenti nonsense in italiano, amaramente sensati ed attuali ad essere sinceri. Ho parlato di “italiano” ed in effetti il fattore linguistico nei concerti di Richman meriterebbe una ampia trattazione a parte. Per farla breve dirò soltanto che di inglese ne abbiamo sentito abbastanza poco, almeno al di là delle canzoni. Per rivolgersi agli spettatori nel botta e risposta come nei suoi strampalati monologhi, Jonathan si è affidato ad un italiano imbastardito dallo spagnolo e dal francese ma alquanto ricco in quanto a vocabolario, sorprendendo a più riprese per l’uso di termini complessi e persino desueti della nostra lingua, prontamente accompagnati dall’immancabile “non perfetto, mi arrangio” che è valso come autoritratto poetico per eccellenza oltreché come limpida dichiarazione d’intenti. Nel venire travolto da questo bislacco carnevale idiomatico mi è venuto subito in mente il personaggio di frate Salvatore ne ‘Il Nome della rosa’, che “parla tutte le lingue, e non ne parla alcuna”. Questa variegata messe di stimoli ha accentuato la vivacità di una performance assolutamente su di giri dal primo all’ultimo minuto, tra sketch ritmici affidati all’imperdibile Larkins ed una ninna nanna di commiato proveniente dall’Iran. La scaletta in fin dei conti, considerata anche l’assenza del vecchio repertorio, è stata assolutamente secondaria come dettaglio. Quella da me riportata in coda, abbastanza facile da ricostruire (le canzoni di Jonathan si ricordano dopo un solo ascolto), con ogni probabilità non è neppure completa. Se i momenti più divertenti sono stati quelli in spagnolo e in italiano (anche seri in realtà, vedi la sempre apprezzabile ‘In Che Mondo Viviamo’), un paio di inediti si sono rivelati chicche assolute (‘If You Want To Leave Our Party, Just Go’ – per lo più recitata – oltre ad una ‘Keith Richards’ dedicata al chitarrista omonimo ed infarcita di estemporanei innesti di marca Stones) mentre prove di classe sono arrivate nell’unica parentesi in francese (‘Le Printemps Des Amoreux Est Venue’) e soprattutto con alcuni classici recenti di straordinaria intensità, uno per tutti ‘Not So Much To Be Loved As To Love’, meravigliosa. Imperdibile Richman, veramente artista a tutto tondo. Pensare che lui e Larkins hanno accompagnato Vic Chesnutt nel suo disco testamento, quello ‘Skitter On Take Off’ così distante dalla positiva leggerezza di questa serata ma non meno autentico, aiuta a comprendere perché Jonathan gode ancora oggi di così tanta stima tra i colleghi cantautori come tra i fedelissimi aficionados. Forse perché come la vita non è perfetto, ma sa sempre come arrangiarsi.

Scaletta: 'In Che Mondo Viviamo', 'Oh Moon, Queen of Night on Earth', 'Springtime in New York', 'Because Her Beauty Is Raw and Wild', 'Dancing in the Moonlight', 'Così Veloce', 'No One Was Like Vermeer', 'Not So Much To Be Loved As To Love', 'Es Como El Pan', 'Le Printemps Des Amoreux Est Venue', 'A Qué Venimos Sino A Caer?', 'Let Her Go Into The Darkness', 'Keith Richards', 'If You Want To Leave Our Party Just Go', 'These Bodies That Came To Cavort'.
 

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