Piers Faccini @ Cursi (LE)

17/08/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

I miei ultimi viaggi in Salento non sono state vacanze, sono state ricerche. Ritorni a casa, esplorazioni di un piano forse insondabile che è logico chiamare origini. Anni e anni di ferie ad oltranza, spensierate quanto prive di vera consapevolezza, non mi hanno mai permesso di andare al di là di una generica superficie umana e culturale, di un folklorismo buono al più per il turista occasionale e senza legami nei confronti di una terra sempre vampirizzata ed in fondo mal vissuta. Mancavo da tre anni, ma devo ammettere che quest’assenza è stata degnamente ripagata. Mi ha accolto un clima benevolo in tutti i sensi, senza il fastidio di una fugace velatura al sole, senza il classico tormento dell’afa africana, ad anni luce di distanza – ma questo era scontato – dall’avvelenante frenesia universale della grande città. E poi il mare, che quest’anno ha rasentato la perfezione: sempre placido, sempre cristallino, senza meduse, senza inconvenienti di sorta. Una tavola azzurra adagiata sugli scogli alti della litoranea neretina. Con buona pace di chi ama le spiagge (e non parlo degli immondezzai liguri o romagnoli), io ho accuratamente evitato di addentrarmici, se si eccettua una puntata in quel di Torre Colimena, provincia di Taranto, pianificata però con intenti da “fine contemplativo”, spendendo buona parte del tempo nella visita ad un’enorme salina e nella passeggiata in un villaggio di pescatori che sembra fermo a cinquant’anni fa (e mi ha ricordato remoti angoli della Grecia meno devastata dal turismo). A parte il piacere inarrivabile del godersi il mare, l’intenzione fondamentale – direi quasi l’imperativo – è stata quella di fare miei svariati frammenti di autenticità salentina, in qualsiasi ambito mi si presentassero, a patto di evitare come la peste quella convenzionalità farlocca che l’industria turistica ha costruito pezzo dopo pezzo in oltre quindici anni di scellerata campagna promozionale, propinando agli ignari villeggianti un prodotto più che un territorio, un luogo comune invece che un luogo reale, un macchiettismo da cartolina che non è meno preconfezionato delle orecchiette vendute in pacco regalo direttamente con i cocci di ceramica decorata. Bandite le false facilitazioni per non finire subito fuori strada, bandita la falsa veracità bastarda che di originale non conserva più nulla, nemmeno l’involucro. Rispetto agli anni passati ho provato a vivere maggiormente il posto addentrandomi nei paesi, quelli fuori dagli itinerari scontati e dagli opuscoli dei settimanali, quelli dell’interno. Non che non l’avessi mai fatto ma questa volta si è trattato di una scelta fortemente voluta più che di una collezione di coincidenze. Per poter tradurre in qualcosa di concreto questo mio desiderio ho puntato ad un affinamento emotivo, direi quasi spirituale, provando ad immergermi nello spirito del posto, nella sua anima più primitiva e resistente alle contaminazioni unilaterali, quelle che impoveriscono anziché arricchire, per catturarne almeno qualche bagliore di riflesso. Musica e feste di tradizione popolare sono stati i miei campi di battaglia, un po’ come in passato ma con molto più costrutto. Posso allora lasciare la testimonianza di un evento fragoroso cui ho avuto la fortuna di presenziare, la lunga notte dedicata a San Rocco, tra il 15 ed il 16 Agosto, in quel di Torrepaduli, frazione di Ruffano. Di ciò di cui ero in cerca qui si è colta l’essenza in tutta la sua asprezza, resa dal suono regolare, ossessivo ed ipnotico, di centinaia di tamburelli suonati fino alle prime luci dell’alba dai vecchi come dai bambini, scandendo un ritmo di frastornante follia per accompagnare danze e rituali di corteggiamento che da secoli si rinnovano immutati. Grandi cerchi occasionali di suonatori, le ronde (quelle buone), creatisi dal nulla per dare sfogo a nuovi cerimoniali danzanti, simulando il gioco della vita con la giusta miscela di seduzione e morte, in linea con i precetti della cultura greca e nella forma attualmente più pura di tarantismo. Dare un suono alle pulsioni elementari per esorcizzarne la potenza distruttiva, chiuderle in una rappresentazione che è forse troppo difficile da raccontare. Un po’ come la danza delle spade (la pizzica scherma, un tempo non mimata ma eseguita con veri coltelli) che ha preso vita intorno alle tre di notte con analoga spontaneità nel piazzale antistante il santuario, ancora più curiosa, animata ed indescrivibile: una via di mezzo tra un ballo ritmato ed un gioco, con la competizione però lasciata da parte in nome di un fenomenale spirito di fratellanza tra i partecipanti. Da un secolo sentivo parlare di queste cose e di Torrepaduli, finalmente ne sono stato testimone. Non c’è dubbio che l’impatto sia forte ed è innegabile come la più genuina radice di queste usanze si sia mantenuta, almeno nelle linee generali. Spiace invece constatare come l’evento non sia sfuggito alle logiche ed al richiamo della massa, pur limitati in sostanza ad una dimensione localistica (pochi gli accenti non salentini uditi), con decine di migliaia di presenze (sciami di “mazzari” del posto e orde di alternativi da strapazzo le categorie più odiose, le stesse che infestano l’ormai prescindibile concertine di Melpignano) ed un mostruoso carrozzone commerciale a base di porchettari, venditori di ciarpame religioso (con punte kitsch sublimi ed una varietà di articoli strabordante, va detto) e giostrai di tutte le fogge. Ancora una volta la pubblicità che fa solo danni, per una manifestazione oggi meno affascinante di come doveva apparire solo pochi anni fa ma, va beh, si prende l’intero lotto e amen. Considerando il buio assoluto nelle distese di ulivi attorno a Ruffano, con la possibilità di ammirare il cielo stellato come in poche altre parti d’Italia, è facile ammettere che i pro siano ancora largamente superiori ai contro.
Riguardo alla sfera più prettamente musicale – e qui vengo al punto nodale di questo mio pezzo – vorrei spendere qualche parola su uno degli appuntamenti che avevo annotato in agenda giunto sul posto e ho fatto di tutto per non perdere. Di sagre e concertini più o meno interessanti ne ho vissuti diversi e questo mi ha portato a girare di notte per il Salento come mai in passato. Un bel viaggiare, bisogna dire, anche perché questi oscuri paeselli si svelano soprattutto di sera in tutta la loro agra bellezza e c’è sempre qualche scorcio prezioso da far proprio, anche nel più piccolo e remoto angolo di mondo. In qualche caso particolarmente fortunato può capitare poi di andare a fondo nella propria ricerca senza che lo si fosse minuziosamente programmato, venendo rapiti in modo inatteso da uno dei più bei concerti visti negli ultimi anni.
 
Non credevo possibile che questo mi potesse accadere in ambiti in fondo abbastanza lontani da quelli che frequento abitualmente, ma è pur vero che questa era tra le premesse di un agosto altrimenti senza musica dal vivo. Ho sentito la necessità di una pausa dai miei soliti suoni, dai soliti dischi rassicuranti ed universali pur se indipendenti (indipendenti da cosa non è ben chiaro, soprattutto quando ci si confronta con realtà molto più circoscritte come queste e qui sta il bello) ma al tempo stesso ero convinto che servisse un elemento di contatto con le mie “basi”, qualcosa di concreto e familiare che funzionasse un po’ come una bussola in territori “altri” da esplorare con un minimo di raziocinio. Il live organizzato nella piazza centrale di Cursi la sera del 17 Agosto, nell’ambito della rassegna ‘Festival Notte della Taranta 2010’, è riuscito a soddisfare come meglio non si sarebbe potuto questa mia duplice esigenza di spettatore curioso ma non sprovveduto. Il merito è stato di tutti i musicisti coinvolti in un evento durato la bellezza di quattro ore e mezza (volate via letteralmente, non lo dico così per dire), tre stupefacenti realtà di questo territorio sempre così sorprendente, ma soprattutto di Piers Faccini, l’ospite internazionale che ha illuminato l’intera seconda parte dello spettacolo dimostrando come una tradizione folk estremamente localistica, microregionalistica addirittura, possa essere alimentata e corroborata da musica d’estrazione popolare assai più accreditata e conosciuta, dando vita con essa ad un processo creativo dinamico e paritario, ad un continuo flusso di stimoli e commistioni intelligenti da cui trarre la prova tangibile delle più impensabili affinità espressive ed emotive. Il senso di un’esibizione interamente orientata alla rispettosa rilettura di una tradizione musicale saliente come la pizzica salentina ha trovato nell’unione di forze tra il cantautore indie inglese (ma anche un po’ italiano, anche un po’ francese ed innamorato della musica dei neri americani) e l’eccellente ensemble denominata Canzoniere Grecanico Salentino il punto di maggior interesse in una lunga serata che non ha avuto in realtà alcun giro a vuoto. Per primi si sono esibiti gli Argalìo da Corigliano d’Otranto (uno dei nove comuni della sensazionale Grecìa Salentina), custodi di fatto dell’intero patrimonio cantato in griko (il solo dialetto residuale della lingua greca in tutta l’Italia meridionale, quella che una volta si chiamava Magna Grecia), che con la loro effervescente ma rigorosa colonna sonora ellenofona sono riusciti ad entusiasmare e a far muovere il culo anche ai più decrepiti tra i numerosissimi presenti, ad esempio sulle note ormai celeberrime della conclusiva serenata ‘Kali Nifta’ (praticamente un simbolo di questa terra e dell’amore per essa). Estremamente pregevole anche il concerto di Enza Pagliara, considerata da molti la più bella voce femminile in questo ambito, attualmente. In effetti la sua prova è stata eclatante per limpidezza e trasporto ma anche per eleganza, vera anomalia in un universo che generalmente fa della veracità un po’ sciatta la sua bandiera. La Pagliara è artista di spessore e lo ha dimostrato, pilotando una voce acidula ma incredibilmente corposa ed autorevole nell’esplorazione senza limiti di ogni declinazione del tarantismo fatto canzone, tra propri brani originali e qualche classico dimenticato della tradizione popolare salentina, napoletana e siciliana: un’autentica rivelazione ed un’interpretazione magnetica, potente, arricchita dai costanti interventi della stessa Pagliara al tamburello (della cui arte è una eccelsa sacerdotessa) e nobilitata da una scorta strumentale solitamente rappresentativa di generi musicali assai meglio considerati (mandola raffinatissima, contrabbasso, clarinetto e violoncello elettrico). Confesso che guidando alla volta di Cursi avevo ben più di un timore a proposito di questi artisti, considerati volgarmente “locali” per un mio forse eccessivo snobismo (e provincialismo, per paradosso) oltre che per troppa ignoranza. Di pizzica ne ho vista e sentita in abbondanza nelle mie tante estati leccesi, ed in un certo senso ne ero stanco, decisamente saturo. Va detto però che si era sempre trattato di musicisti alla buona, interpreti a tempo perso di una tradizione ridotta a semplice cliché, a stereotipo di superficie ideale come ordinario accompagnamento per sagre paesane ed occasioni mangerecce. L’inflazione di queste grossolane tarantelle ha in fondo condizionato le mie opinioni su un universo che può rivelarsi di ben altro spessore. E’ proprio vero che, come in ogni ambito, l’eccesso di mediocrità può indurre al disgusto mentre della bellezza non si è mai sazi. Questo spiega meglio di tante parole perché alle due di notte non sentissi la minima stanchezza nei confronti di quelle sonorità incalzanti e contagiose. Il piatto forte, come accennato, se lo sono ritagliato Faccini ed i suoi occasionali compagni d’avventura nel lungo set che ha completato la serata. Il piacere in questo caso è stato duplice: da un lato la possibilità di godere fino in fondo di un patrimonio folk celebrato con perizia assoluta e varietà di soluzioni dal gruppo di Mauro Durante, dall’altro la sorpresa nel rilevarne nuove possibilità nell’incontro vivificante con influenze ben diverse (ma al tempo stesso pertinenti) come quelle portate in dote dall’eclettico cantante inglese, non nuovo a sortite in questi territori (e ad esibizioni da queste parti: la sua ammirazione per una figura cardine come Uccio Aloisi lo ha portato in Salento già diversi anni fa). Il mix delle squillanti pizzicarelle cantate da un’intensa Maria Mazzotta e le inquiete invocazioni soul di Faccini ha dato luogo ad un’armoniosa e quanto mai convincente preghiera popolare, vibrante, a tratti asprigna ma sempre capace di emozionare. Per farsi un’idea di questa insolita ma riuscitissima convergenza di stili può essere utile il video cui si accede dalla seconda foto in alto (la prima apre la galleria dei miei scatti di quella sera), sicuramente rappresentativo del suono e dello spirito stesso del concerto. Un evento aperto da Faccini intonando il leggendario spiritual gospel blues ‘John The Revelator’ come a voler subito tracciare un ideale ponte tra il Salento ed il Delta del Mississippi ponendo le premesse di un discorso curioso quanto coerente, in cui non hanno stonato anche alcuni pezzi del repertorio del cantautore di Luton (‘If I’ da ‘Tearing Sky’ e ‘Your Name No More’ dal più recente ‘Two Grains of Sand’). Ha funzionato benissimo l’intreccio degli strumenti acustici della tradizione mediterranea con le eleganti chitarre elettriche suonate da Piers, tra fisarmoniche, zampogne ed ogni sorta di percussione e la sua affilatissima e sanguigna armonica (raddoppiata in qualche caso da quella più forsennata – tarantolata, verrebbe subito da dire – di uno dei musicisti leccesi). Alcuni tra gli spettatori più anziani hanno inizialmente storto il naso di fronte all’intruso e al suo personale bagaglio, salvo ricredersi molto presto non appena Faccini si è lanciato con coraggio e bravura nel primo di diversi duetti in dialetto stretto con la Mazzotta (si veda in proposito il video di ‘Beddhra Ci Dormi’, dalla foto qui sopra). Da quel punto in poi è stata festa grande anche al di qua della transenna, con molti ragazzi intenti ad assecondare il ritmo con il proprio tamburello o a replicare in maniera improvvisata i balli affidati sul palco ad una danzatrice di pizzica, fino alla fine dello spettacolo ed oltre. Per me, arrivato a quel momento non ancora satollo, la soddisfazione di un tardivo spuntino a base di leccornie locali (pittule e mustazzoli, povero chi non li conosce), prima di tuffarmi con la mia auto nel buio di un’altra incomparabile notte stellata.

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