Bambole che volano via

 

Sempre restando in tema di delusioni del 2009, non posso non piazzare al volo un riferimento ad un duo che amo forse esageratamente, al di sopra degli effettivi meriti, ma che, seppur in sordina, ha avuto modo di rifilarmi una discreta spernacchiata alle spalle con il suo più recente passaggio discografico. I Brunettes li ho scoperti relativamente tardi, un po’ come tutti quelli che li conoscono da queste parti. La firma per la Sub Pop è stata determinante, insieme alle accattivanti foto promozionali che hanno accompagnato il lancio europeo e americano di questa oscura (ma coloratissima) band neozelandese. ‘Structure and Cosmetics’, l’album scelto per una conquista di fatto mai concretizzatasi, ha rappresentato per me il primo piacevole tuffo in una realtà di cui ignoravo anche solo l’esistenza. Un disco fresco, allettante, ma più di questo la chiave per arrivare ai primi Brunettes, quelli twee e sorprendenti, oltre ad altri validi personaggi della stessa scena, dai Ruby Suns ai Reduction Agents e da questi al loro misconosciuto leader, quel sensazionale James Milne che, sotto le spoglie di Lawrence Arabia, si sta affermando a sorpresa come il più talentuoso autore di tutta la cricca. Quella dedicata a Jonathan Bree e alla splendida Heather Mansfield è stata la mia prima recensione su Indie-rock.it. Li ho anche intervistati via mail, ho setacciato tutto il repertorio (ottimi i primi due EP), mi ci sono affezionato. Sarà anche per questo che non posso non dirmi deluso dal recente ‘Paper Dolls’, decisa virata che asseconda (radicalizzandole) certe tentazioni sintetiche già espresse negli ultimi capitoli dell’avventura del duo e che mira forse a ritagliarsi uno spazio maggiore del dovuto (da alleggerimento estemporaneo e niente più ad album vero e proprio con tutti i crismi) nella carriera dei Brunettes. Alla Sub Pop non è piaciuto, ragion per cui Bree ha dovuto licenziarlo tramite la sua etichetta, la Lil’ Chief. Al di fuori dei confini nazionali non è stato minimamente recepito ed anche in patria, va detto, non è che la critica si sia stracciata le vesti per l’entusiasmo. Se avete amato la genuina vena sixties di ‘Holding Hands, Feeding Ducks’, o il candore intelligente di ‘Boyracer’ e ‘When Ice Meet Cream’, girate al largo. Come suggerito dal titolo, l’aspetto più evidente di ‘Paper Dolls’ è la fragilità della sua natura, una leggerezza che in termini di songwriting evoca impietosamente un’idea di bozzetto senza sviluppi, di spunto magari anche interessante ma lasciato – appunto – sulla carta. Anche la copertina, in questo caso come in quelli precedenti, vale più di mille parole: i due musicisti disegnati come pallide figurine prive di anima, polpa, sangue, colore. La preoccupante assenza di sostanza annunciata dalla cover trova immediato riscontro nella musica, basta un ascolto. Il singolo di lancio ‘Red Rollerskates’ trasmette una fastidiosa impressione di annacquatura della bella vena melodica dei neozelandesi, ex arma vincente che qui affoga letteralmente nel "cosmetico" (tanto per citare loro stessi), nella sovrastruttura sonora posticcia. Se nel caso specifico il trucco risulta inevitabilmente pesante, tradendo anche una certa dozzinalità a livello produttivo, il risultato non può che essere frigido. A parte questo fiacchissimo episodio da vetrina ed una ‘It’s Only Natural’ a tratti stucchevole in maniera quasi imbarazzante, il resto soffre di una generica pochezza di stimoli e idee pur senza mancare di meritarsi per l’ennesima volta l’appellativo "cute" con cui da subito le canzoni dei Brunettes sono state etichettate dalla critica. Il problema in fondo sta tutto qui e riguarda il giusto inquadramento che questi nuovi brani cercano. Il gruppo aveva le carte in regole per puntare ad una svolta ma c’é da sperare che le sue effettive intenzioni fossero di procrastinare tale appuntamento con la maturità alla fatidica "prossima volta". Come "coraggioso passo avanti" ‘Paper Dolls’ potrebbe avere un senso solo nella prospettiva del gambero, riducendosi per tutte le altre specie animali ad un fiasco anche abbastanza clamoroso. E’ evidente allora (ed auspicabile, come direbbe un qualsiasi presidente del Senato) che Bree e la Mansfield puntassero piuttosto a registrare uno smaliziato divertissement, buono come bizzarra pacchianata per raccogliere senza particolari sofisticazioni un ridotto numero di B-sides (esemplare ‘Bedroom Disco’), uno sfogo antintellettualistico da perfetto cazzeggio nella stanza dei giochi. Pezzi come ‘Connection’, ‘Magic (No Bunny)’ o ‘The Crime Machine’ sono cloni leggeri leggeri delle consuete trame melodiche della band, diversivi banalotti, simpatici e poco incisivi, con addosso la classica patina di ordinaria amministrazione, di creatività al minimo sindacale. Anche se il doping elettronico non riesce mai a convincere del tutto, valutate sotto questa luce le canzoni di ‘Paper Dolls’ si meritano comunque una benevola assoluzione. L’iniziale ‘In Colours’ – per dire – è anche abbastanza carina, sulla falsariga pop saltellante di ‘Structure and Cosmetics’. Gioca con taglio minimalista le proprie carte, soprattutto nell’uso parco e calibratissimo delle chitarre, regalando conferme preziose nel pimpante incastro delle due voci, nel synth guizzante e in un suono sempre piacevolmente avvolgente. Non mancano momenti in cui le qualità dei due neozelandesi sembrano a fuoco nonostante la veste sbarazzina. La Title Track replica con ostinata aderenza ai tipici cliché malinconici e ruffiani il clima e la malìa un po’ drogata dei Brunettes da ‘Mars Loves Venus’ in poi, con arrangiamenti sintetici funzionali che non vanno mai sopra le righe. Dopo una mezzora alquanto scarsa arriva il finale garbato che ci si aspetterebbe a prescindere (‘Thank You’) e che porta in dote anche un ritornello finalmente all’altezza. Prima comunque c’é ancora spazio (‘If I’) per una riflessione di maggior spessore. Il romanticismo esasperato di Jonathan Bree trova un felice risvolto limitando all’essenziale le sporcature innaturali, rallentando l’andatura e riportando in primissimo piano le due voci: "Se dovessi morire accidentalmente e lasciarti così presto" canta lui "suoneresti e canteresti ancora le nostre canzoni con qualcun’altro?". Un piccolo brivido si riaffaccia allora nell’episodio più palpitante del disco. Ma è un attimo appena. Ecco, col vento è già volato via.

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