Wilson in acido

 

La notizia è più che altro la conferma di un’impressione andata via via consolidandosi: la Woodsist si sta progressivamente affermando come la più autorevole fucina in fatto di lo-fi scalcagnato nel sempre più ricco panorama rock alternativo statunitense. Se ne aveva avuto il sentore con i Woods prima e i Wavves poi, rafforzando l’idea con qualche lampo di spleen autoriale più (Crystal Stilts) o meno (Kurt Vile, comunque in crescita) valido. Se quattro nomi possono costituire un più che discreto patrimonio indiziario, aggiungendone un quinto dovremmo essere in presenza di una prova fatta. Il quinto nome ci è stato servito da poco ed è quello dei Ganglians, quartetto di Sacramento la cui mappatura genetica pare essere perfettamente in linea con quella della label newyorkese. Il relativo coefficiente di aderenza è in effetti paurosamente elevato, ma questo non deve in alcun modo allarmare chi potrebbe temere un appiattimento del gusto e dei suoni proposti dalla coraggiosa etichetta (coraggiosa sì, perché è da temerari lanciare le Vivian Girls). Al di là di questa significativa navigazione nel flusso sonoro riconoscibile in casa Woodsist come un marchio di fabbrica, i Ganglians giocano anche la carta del ri-flusso, del riciclo, della vivificazione di stilemi musicalmente morti e sepolti. Lo fanno con piglio ed inventiva, portando a casa un risultato apprezzabile anche a livello di canzoni: volendo spostare l’asse dell’attenzione su un piano non meramente formale, bisogna riconoscere che questo ‘Monster Head Room’ è comunque un buon disco, un lavoro stimolante per l’ascoltatore più smaliziato e assai curioso per tutti gli altri. Se si ha una qualche familiarità con le sonorità gracchianti, sfacciatamente rozze ed enfaticamente votate al pop dei Thee Oh Sees, si perderà qualcosa in termini di sorpresa per recuperarlo presto amplificato in chiave di gradimento fidelizzato. Un nome, quello appena proposto, che è molto meno casuale di quel che si potrebbe pensare, dato che anche quell’altra coloratissima brigata californiana è uscita da pochissimo con un singolo proprio su Woodsist. Tornando alla vena passatista di Ryan Grubbs e soci, soltanto due parole si possono riportare in una recensione sull’argomento che voglia definirsi tale, ma sono alquanto pesanti parlando di musica: “Beach” e “Boys”. Non si scappa, è un gioco a carte volutamente scoperte. Dopo l’intro stringata di ‘Something Should Be Said’, ci si trova infatti subito a mollo in una guazza lo-fi a rimirare l’estasi wilsoniana di ‘Voodoo’. E’ straniante il contrasto tra gli impasti corali così smaccatamente retrò ed un armamentario di registrazione tanto approssimativo, in confezione extra-economica. Nella fanghiglia sonora offerta dalla ditta, melodie e svenevolezze vocali sono tradotte in una parossistica fioritura, ribadendo istante dopo istante quel senso di “fuori contesto” che è forse la più piacevole delle sorprese approntate per l’ascoltatore. Non c’è buonismo però. Le trame sono amabilmente in acido, gli umori psichedelici fermentano, si sublimano nell’incontro con i ritmi alquanto grossolani della proposta, e pare che anche il mitico mogwai Gizmo dia il suo contributo in un paio di cori. Eppure il miscuglio funziona, così improponibile, così credibile.

 

La successiva ‘Lost Words’ replica il medesimo meccanismo ma suona se possibile anche più sbiellata. Con l’incrocio di elettracustico ed elettricità fané, un refrain che puzza di Zombies e di nostalgia sixties densa di suggestioni decotte, si perpetuano i canoni naïf della scoppiatissima banda californiana. Il punto d’incontro perfetto tra i due estremi estetici del gruppo – pop di matrice beachboysiana e sporcature in bassa fedeltà – si concretizza con il quarto brano in scaletta, ‘Candy Girl’: che sia questo il modo migliore per preservare i sogni di Brian Wilson dal rischio di tramutarsi nell’incubo di una senile maniera? La risposta resta sospesa anche perché arrivati a questo punto i Ganglians cambiano sostanzialmente direzione adottando un atteggiamento furbescamente elusivo. Con ‘Crying smoke’ e ‘Modern African Queen’ si abbozza un senso di fumosa e languida meraviglia comunque disinnescato (o scongiurato) dalla produzione sempre decisamente (fortunatamente) schietta e deficitaria. Verrebbe da dire che per i Ganglians l’attitudine conti più di qualsiasi altra medaglia. Restando fedeli unicamente alla propria libertà espressiva, i quattro di Sacramento confondono le idee e tagliano i già labili riferimenti a disposizione dei fruitori, offrendosi nelle fogge più imponderabili ed inattese. Una cruda ‘Valient Brave’ lascia più spazio alle increspature rumoristiche e ai suoni tanto cari al marchio Woodsist, tra accenni western, schizzi elettrici e qualche lampo di ordinata lucidità. Ben più sorprendente ‘The Void’, quasi un passaggio folk sepolcrale cui la profondità dei cori conferisce un bel tono barocco à la Greg Weeks: cupa e sbiadita, si rivela capace di spettrali tentazioni come quando si apre in una selva aliena di riverberi e isteria. Sviluppando quanto proposto negli ultimi due pezzi citati, ‘To June’ sfrutta gli aromi folk obliqui e minimali accompagnandoli con una voce chamber pop, ad assicurare un maggior trasporto. Su tutto un gradevolissimo clima di radicale disimpegno, di lentezza, di svacco trasandato e pacifico, di abbandono e beatitudine campestre (si sente anche gracidare). La vetta, in tal senso, è raggiunta con un titolo che spinge alle estreme conseguenze quell’impostazione, ‘100 Years’: il gran pasticcio, tra i grovigli elettrici ed un incedere senza meta alcuna, incurante e festoso nella sua felice e sovraccarica indifferenza. In prossimità della conclusione di questo rapido viaggio, i Ganglians ci hanno condotto nel punto di massima distanza rispetto alle promesse favolose dell’inizio. Era tutta una finta però. In un sol colpo si palesa nuovamente nella forma del manifesto quello che potremmo agilmente definire psych-pop inacidito (con punte rancide ma non fastidiose). ‘Try To Understand’ è il finale brillante e ruspante che ci si aspetta da un disco folle e positivamente ai margini, quale è a tutti gli effetti ‘Monster Head Room’. Insegue come Icaro l’illusione di certe vette auliche, il sublime del proprio modello (o meglio, pretesto), e proprio la scelta fatta a livello formale consente ai suoi quattro autori di giungere a destinazione immacolati, con le ali a posto e con un’opera assolutamente originale a referto. Cercavano il colpo grosso e l’hanno trovato. Noi ci accontentiamo di una conferma, a patto che venga presto.

 

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