Revolutionary Road _Letture

       

Di Richard Yates ho già scritto tanto, talvolta ripetendomi, ma non posso esimermi dal tornare a farlo se è del suo più celebrato romanzo che devo parlare. “Revolutionary Road”, ok, difficile che anche i lettori della domenica non lo abbiano mai sentito nominare. Certo, diranno molti: c’è il film di Sam Mendes con Di Caprio e la Winslet. Il libro, come capita quasi sempre, è meglio e vale la pena d’esser letto anche se avete già apprezzato la sua trascrizione cinematografica. Però la distanza non è così incolmabile, ci tengo a dirlo. Forse perché l’opera di Yates non è la sua migliore, a mio modestissimo parere, forse perché la pellicola di Mendes si dimostra all’altezza, con attori in forma eccellente (lei soprattutto) anche tra i comprimari (la solita Kathy Bates, Zoe Kazan e, soprattutto, il sempre sottovalutato Michael Shannon, impeccabile nel rendere la lucida follia di John Givings). Ad ogni modo, un romanzo – uscito per la prima volta in Italia (per Garzanti) con un altro titolo, “I Non Conformisti” – che vale come paradigma dell’arte narrativa di Yates, che ha dentro tutti i topoi del suo realismo sporco, la sua disperazione silenziosa ma senza appelli. Non può che essere, per chi non conosca affatto Yates e il suo universo, la quasi inevitabile porta d’ingresso.

Lui è Frank Wheeler, impiegato trentenne (alquanto anonimo e scioperato) in una grande azienda di New York. Lei è sua moglie April, madre e casalinga, non più in fiore ma ancora discretamente carina. Nel tranquillo sobborgo residenziale di Revolutionary Hill, Connecticut, la loro vita ha tutte le carte in regola per essere definita invidiabile: una bella casa rassicurante, due figli piccoli in piena salute, la stima di tutto il vicinato e un legame di coppia che si direbbe d’acciaio. Ben poco in quest’idillio, tuttavia, corrisponde a verità. Formidabile per eloquio e piacente d’aspetto, Frank passa per essere una mente assai brillante e tende a cadere lui per primo in questo sostanziale equivoco, rivendicando a vanvera vaghe aspirazioni e un impegno intellettuale che sono pura facciata. April, al suo fianco, non coltiva certo più interessi di lui: ex allieva – “scarsamente dotata di talento” e “scarsamente animata d’entusiasmo” – di una scuola di recitazione abbandonata ai tempi della prima gravidanza e del matrimonio, cerca una patetica occasione di riscatto grazie al ruolo di protagonista che si è ritagliata nella filodrammatica locale, la Compagnia dell’Alloro, la cui prima e unica rappresentazione è però destinata a clamoroso insuccesso. Anche la convivenza dei coniugi all’interno della grande periphery newyorkese non è poi chissà quanto armoniosa.

Dietro la maschera di una coscienziosa quanto cordiale rispettabilità, si cela il generalizzato disprezzo per una comunità di “omiciattoli pieni di paura”, frequentati controvoglia più per abitudine che per altre ragioni, ma guardati con orrore come specchio di ciò in cui ci si sta rapidamente trasformando. I fantomatici “sobborghi” dove “allevare figli in un bagno di sentimentalismo”, dove i vicini Shep e Milly Campbell rappresentano la spalla ideale (nella loro mediocrità) cui sostenersi quando si sparla di chiunque altro, dove l’agente immobiliare Helen Givings non è seconda a nessuno nel patrocinare con abnegazione la causa di un American Dream già prossimo all’avvizzire, e dove il perbenismo a tutto campo suona più come una condanna che non come l’incanto cui aspirare, i bucolici “sobborghi” della prima provincia, allegri e color pastello all’ombra delle torri metropolitane, sono la gabbia per i fragili sogni e l’inatteso teatro di un dramma silenzioso ma incombente. Il vero problema dei Wheeler è che non c’è amore nella loro vita. Né per il prossimo, né per figli in fondo non voluti, né per una quotidianità soffocante, né – soprattutto – l’uno per l’altra. Il reciproco adulterio, consumato in entrambi i casi per noia, non sarà sufficiente a spezzare l’impasse con moti d’orgoglio o reazioni virtuose. Né sarà abbastanza il progetto di un definitivo trasferimento a Parigi di tutta la famiglia, coltivato dalla donna e accolto dal marito con finto entusiasmo per evitare il rischio di nuovi scontri frontali, salvo poi essere accantonato forzosamente non appena si presenti l’opportunità di una modesta ascesa sul fronte lavorativo (con l’alibi comodissimo di una nuova, indesiderata gravidanza, pronto all’uopo).

Battuta nella finale del National Book Awards 1962 dal (modesto) “The Moviegoer” di Walker Percy, l’opera prima di Richard Yates possiede già tutte le peculiarità della scrittura “entomologica” e di quel “realismo sporco” che sarebbero diventate le cifre espressive del grande romanziere di Yonkers. Tutte le tematiche a lui care – dall’implosione nervosa della famiglia ai falsi miti del sogno americano, dalla solitudine all’incomunicabilità tra individui nella società contemporanea, sono qui presenti, declinate con una lucidità nello sguardo che sorprende davvero, per un esordiente. Lo stile è già quello potente e asciutto dei lavori successivi, prodigioso il controllo, perfetta l’imperturbabilità nell’osservazione di una tragedia inevitabile, persino umoristico il taglio (solo a tratti però) ma mai incline al cinismo. Da molti “Revolutionary Road” è considerato il capolavoro di Yates, il libro per il quale il Nostro meriterà di essere ricordato. Non sono del tutto d’accordo, gli preferisco ancora i sottovalutati “Cold Spring Harbor” e “Disturbing The Peace”, ma non vi è dubbio che si tratti di un’opera eccezionale, con protagonisti semplicemente memorabili e, col senno di poi, paradigmatici. Anche senza ricorrere a sentimentalistiche forzature “a effetto”, osservati con il necessario, neutro distacco, i Wheeler diventano l’emblema di un fallimento universale.

Imprigionati in “un’enorme, oscena illusione, la grande menzogna piccolo borghese, l’idea che, una volta messa su famiglia, si debba rinunciare alla vita reale e sistemarsi”, conducono la loro esistenza in maniera “zelante, sciatta, pretenziosa” e “tutta sbagliata”. Hanno coscienza dei limiti di uno schema che detestano, ma a mancare loro è la forza di ribellarvisi, proprio come tutti i rappresentanti dell’odiato vicinato (tranne il figlio dei Givings, John, il solo a intuire la reale natura delle dinamiche all’interno della coppia e, non a caso, l’unico dei personaggi considerato pazzo a tutti gli effetti). Restano fermi ai buoni propositi (di lei), magari utopici o avventati, come ai bei discorsi (di lui), ma lo scatto positivo della dignità, dell’intelligenza, dell’amor proprio, è strozzato in partenza da quello stesso insinuante conformismo contro il quale si illudono di poter vincere. Al centro della scena, la relazione tra Frank e April: una pericolante architettura di finzioni, una partita a scacchi destinata a chiudersi con una sconfitta condivisa, un raggelante deserto di emozioni e affetto che toglie il fiato al lettore. Se qua e là la tensione pare allentarsi, non si può muovere alcuna critica al finale, eccezionale, che Yates ha confessato di aver scritto prima di tutto il resto e che rivela curiose quanto involontarie (forse) connessioni con quelli dei due più noti romanzi di John Barth, “L’Opera Galleggiante” e “La Fine della Strada”.

Per il resto non rimane che copincollare quanto già scritto a proposito dell’autore nelle critiche di altre sue opere. Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori (indimenticabile, tra gli altri, la figura di Shep) ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione. Gli interessano gli esseri umani al netto degli artifici letterari. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si rivelano sin da qui limpidissimi, mirabili, non comuni. Tutti soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. “Revolutionary Road” è l’opera di uno scrittore straordinario, quindi, nel rendere le psicologie e i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – nello svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli e insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni cinquanta. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.

[Una curiosità: per quanto (come sempre in Yates) si beva spesso e volentieri, i Wheeler sembrano quasi delle educande rispetto ai viziosi protagonisti di altri testi dell’autore. Tutto sommato fuori luogo la bottiglia di Whiskey scelta come simbolo per la copertina dell’edizione dei Minimum Classics. Forse la guida di “Francese per principianti” sarebbe stata più indicata.]

9.2/10

1 Comment

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  1. FirstBradley
    dicembre 7, 2017 at 9:51 am (6 anni ago)

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