Woodpigeon

Balladeer

       

Il mio amico Roberto Balocco mi ha confessato qualche tempo fa che Mark ‘Woodpigeon’ Hamilton ha storto il naso leggendo la mia recensione di questo suo disco. “Leggendo” che è poi una parola usata a sproposito, visto che il cantante canadese avrà al massimo schiaffato il mio pezzo dentro al form di google translate, e arrivederci. Ha avuto da ridire sul voto più che altro, un 7 ben pesato e che ad un anno e mezzo di distanza continuo a considerare più che giusto per questo sincero ma fragile concept sui passati amori omosessuali di Hamilton. Pare che la voce dei Woodpigeon lo consideri il suo lavoro migliore, anche se questa non è certo il tipo di affermazione che mi senta di accreditare. Di sicuro è l’album sul quale ha lavorato di più in prima persona, curando quasi per intero anche la parte produttiva. E’ acclarato che sia il suo disco più personale, autobiografico, franco, magari anche sofferto, e quindi quello nel quale abbia investito maggiormente in termini emotivi e di onestà intellettuale. Ci sta che lo abbia particolarmente a cuore, come un diario intimo al quale si racconta tutto. Personalmente, tuttavia, pur avendo individuato e ribadito alcune positive costanti a livello di songwriting, continuo a preferire i suoi album più ricchi e “partecipati”: l’epifania ‘Treasury Library Canada’, l’esordio ingenuo ma folgorante di ‘Songbook’ e quel ‘Die Stadt Muzikanten’ che col tempo ho saputo rivalutare al punto da considerarlo (forse) la cosa migliore del gruppo di Calgary. ‘Balladeer: To All The Guys I’ve Loved Before’ resta un gradevolissimo diversivo. In attesa dei più volte promessi ma ancora inediti tre dischi che il Nostro avrebbe belli e pronti da tempo immemore (il primo dei quali, ‘Thumbtacks + Glue’, vanamente annunciato per giugno), spiace considerare che la veste acustica disadorna del folk gentile e malinconico di ‘Balladeer’ sembra diventata la bandiera unica dei (meglio, di) Woodpigeon dal vivo: in tour in Europa ormai da un anno e mezzo e quasi sempre da solo, con canzoni un po’ disinnescate in questi abiti di solipsismo povero. Il desiderio di apprezzare la band tutta assieme rimane valido e sentitissimo anche se, dopo tutto questo tempo (e ben 5 show torinesi), non è che ci si speri più molto.

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Woodpigeon @ Circolo Esperia             14/3/2011

       

Come promesso, ecco un rapido passo indietro alla serata di Mark Hamilton all’Esperia, primo evento organizzato da Roberto Balocco di Elyron e primo concerto assoluto di Woodpigeon in territorio torinese. Mentre la sua terza data in città nel giro di sei mesi si avvicina sempre più e ancora non sappiamo né il luogo, né alcun dettaglio, eccetto che di pazzia si tratta (ma di quelle unicamente piacevoli), rieccomi con la mente e con i link a quell’evento miracoloso che è stato il concerto in solitaria di Mark nell’ottocentesco circolo canottieri in riva al Po, ad un passo dalla Gran Madre e dalla cornice fragorosa di Piazza Vittorio Veneto illuminata a dovere. Se per il recentissimo live di Caluso la cornice rustica aveva giocato un ruolo cruciale nella riuscita della serata, al pari della voce e della chitarra di Hamilton e delle nuove canzoni proposte (ma anche di quell’aperitivo sontuoso, come dimenticarlo?), lo stesso si può dire anche della venue deliziosa scelta per l’esibizione di fine inverno: un salone grande, elegante ma reso intimo ed accogliente da alcuni accorgimenti preziosi, dallo stanzino di sfondo pieno di libri e coppe, ai tappeti, i serpenti luminosi e i lumini sulle mensole, con gli eleganti finestroni affacciati su uno dei più begli scorci cittadini e quel finto scheletro di balena appeso al soffitto, a conferire all’insieme un’aura più insolitamente magica, ludica quasi. L’incontro con Mark è avvenuto qui, dopo un’apprezzabile antipasto offerto da Orlando Manfredi e i suoi Duemanosinistra, accompagnati in un brano anche dalla guest star Tommaso Cerasuolo, voce dei Perturbazione. Nella prova di Woodpigeon, come ribadito in sede di recensione, tantissime sorprese. In primo luogo il buon numero di belle cover, quindi la cura per arrangiamenti vivacizzati dal pedale del delay, creando una scorta ritmica e corale dal nulla. Penalizzato in Italia dallo status limitante dell’artista poco noto, Hamilton è ancora un comandante senza armate, ma si arrangia con gusto e stile. I suoi trucchi virtuosi hanno saputo tenere a considerevole distanza il tedio, ampliando a dismisura gli umori e le tonalità della sua esibizione. Anche la stoffa dell’intrattenitore è risultata fondamentale per avvolgerci nell’illusione di essere al cospetto di una banda, di una realtà multiforme con moltissime cose da comunicare. Questa impressione è svanita soltanto quando i Duemanosinistra e l’amico Roberto Necco hanno affiancato il cantante canadese per reinventarsi come backing band in un paio di riprese da ‘Die Stadt Muzikanten’. Il balzo in avanti, in termini di profondità, calore e colore, è stato evidente per tutti. Ora che arriva settembre non avremo ancora modo di assaggiare finalmente i Woodpigeon dal vivo come gruppo, anche se un tassello significativo dovrebbe aggiungersi al mosaico (la violinista Foon Yap). Come il piccolo mugnaio nella pubblicità del Mulino Bianco non disperiamo: la prossima volta, forse. Intanto conserviamo prezioso il ricordo della magica prima volta all’Esperia. Per Mark deve essere stata un’emozione non inferiore alla nostra, visto che ha voluto pubblicare sul proprio sito alcune delle registrazioni del concerto passategli a mo’ di regalo dall’infaticabile Balocco. Le sue parole a corredo del relativo post, raggiungibile per chi volesse ascoltare quel pugno di brani dall’immagine qui sotto, rimane forse il più bel regalo per chi (oltre a lui, naturalmente) ha reso possibile tutto questo.

       

SETLIST: ‘Lonely Kiss’, ‘Knock, Knock’, ‘Oberkampf’, ‘Redbeard’, ‘An Entanglement of Weeds’, ‘I Live a Lot of Places’, ‘Lay All Your Love on Me’, ‘…And As The Ship Went Down, You’d Never Looked Finer’, ‘Enchantee Janvier’, ‘Spirehouse’; ENCORE: ‘Love Is Teasin’’,’I’m Set Free’.

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Woodpigeon Secret Concert @ Aré di Caluso (TO) 24/07/2011   _Il nostro (altro) concerto

       

Per una volta giocare d’anticipo è doveroso. Non solo in via generale, parlando di un live di appena cinque sere fa, ma anche nello specifico dell’artista in questione, il sempre più adorabile Mark Hamilton aka Woodpigeon. Avrei dovuto scrivere del suo meraviglioso concerto in solitaria al Circolo Esperia di Torino, giusto pochi mesi fa, ed è certo che dopo le ferie non mancherò di farlo. Quella serata magica, tirata su come dal nulla dalla disponibilità del cantante canadese ma soprattutto dal superbo lavoro organizzativo di uno straordinario ragazzo mio concittadino, Roberto Balocco, resta per il sottoscritto tra i ricordi musicali più felici e preziosi degli ultimi anni, non solo per la qualità della performance ma proprio per l’unicità della sua atmosfera intima e festosa al tempo stesso, in una venue insolita e con un pubblico finalmente all’altezza. Brucio le tappe recuperando invece questo concerto “segreto” della scorsa domenica, in cui il cast si è confermato il medesimo così come i piacevoli risvolti, a riprova che gli house concert possono essere incredibilmente belli e coinvolgenti (a patto che passione ed amicizia vengano prima di tutto il resto). Mark è pazzo di Torino. Ci si è trovato benissimo nel marzo scorso ed ora è tornato da turista portandosi dietro i genitori. Nonostante il clima molto più rilassato che nel recente tour europeo, Mr. Woodpigeon non ha comunque rinunciato ad offrire ai suoi fan italiani un nuovo evento speciale. Roberto Balocco did it again, ebbene sì! Il grafico di casa Elyron che già si era speso così tanto e che aveva lavorato per Woodpigeon curando la copertina del mini-album ‘Fra Le Nuvole’, ha organizzato in brevissimo tempo una seconda serata aggregativa per Hamilton, che si è svolta in provincia questa volta, in un piccolo ed accogliente caseggiato nelle campagne di Caluso, la città dell’Erbaluce. Inutile rimarcare che tutto è andato al di là delle più rosee previsioni, l’avrete già intuito. Cornice rustica e calorosa, tanta gente alla mano, un aperitivo gargantuesco per ingolosire e viziare i presenti e poi la chitarra e la voce di Mark, solo per noi. In previsione di un pubblico per buona parte già presente nel salone dell’Esperia, il buon Roberto deve aver “stressato” Hamilton a sufficienza pregandolo di non replicare il pur avvincente spettacolo della volta scorsa. Preghiere soddisfatte, perché Woodpigeon ha stravolto la scaletta torinese (ed anche quella di pochi giorni fa a Friburgo, che a giudicare dal suo quaderno doveva essere molto simile) recuperando brani eseguiti assai di rado ma assolutamente straordinari (come una delle sue canzoni che preferisco, ‘Anna, Girl in the Clocktower’, o ‘My Denial in Argyle’) e regalando la bellezza di cinque inediti di prossima pubblicazione, molto diversi tra loro. Davvero niente male il pezzo più spigliato (indicato sul quadernetto come ‘Edimburgh’), quello dal titolo stranissimo che racconta di laghi, tuoni e corvi (‘Ohkoonii’), e la splendida, delicatissima ninnananna che ha chiuso il set. Bis a parte (dove Roberto Necco ha nuovamente affiancato Mark con il banjo), solo una conferma rispetto al precedente live, ma di quelle eccelse: ‘Entanglement of Weeds’, l’episodio più bello e toccante di ‘Balladeer’, al solito vivacizzato dai virtuosismi ritmici creati ad hoc da Mark giocando con il pedale del delay. Finale entusiasmante con la dylaniana poesia di ‘Rambler, Gambler’, poi tutti in coda per una stretta di mano o una dedica sul poster omaggio della serata. Un nuovo incontro speciale che non resterà ancora a lungo l’ultimo della serie. Il rossobarbuto ha già annunciato un’ulteriore visita da queste parti a metà settembre, forse in compagnia della violinista del gruppo, Foon Yap. Garantito al limone che grazie all’infaticabile “Graficone” la regola del “non c’é due senza tre” sarà favolosamente onorata.

SETLIST: ‘Woodpigeon vs Eagleowl (Strength in Numbers)’, ‘My Denial in Argyle’, ‘Anna, Girl in the Clocktower’, ‘Empty-Hall Sing-Along’, ‘Still in Love With You’, ‘Piano Pieces for Adult Beginners’, ‘Pine Bluff’, ‘Ohkoonii’, ‘Entanglement of Weeds’, ‘Edimburgh’, ‘Lullaby (Asleep & Dreaming)’; ENCORE: ‘Enchantee Janvier’, ‘Spirehouse’, ‘Rambler, Gambler’.

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On Hiatus

Pausa di riflessione in un periodo ricco di pensieri e preoccupazioni. Il tempo che solitamente dedico alla musica, già scarso di suo, si è ridotto ai minimi storici. Dovendo recuperare alcuni album importanti da poco usciti, preferisco comunque orientare i pochi minuti giornalieri a mia disposizione all’ascolto invece che alla scrittura, lasciando da parte per un po’ le uscite marginali che in genere propongo su queste pagine per spendere qualche parola su questi lavori più “rilevanti”, nella speranza un domani di affrontarli con la dovuta attenzione. Quattro dischi e quattro band americane, sostanzialmente quattro conferme piene. Le vibrazioni migliori sono forse quelle che arrivano da ‘The Golden Archipelago’, la nuova fatica degli Shearwater a meno di due anni dall’uscita di ‘Rook’. Qualitativamente, Jonathan Meiburg riesce ancora una volta ad attestarsi sui suoi standard recenti, dimostrandosi autore versatile ed eccellente alle prese con registri diversi, dalla vena intimistica e sofferta (‘Runners of the Sun’) all’efficacia di uno sguardo sempre attento alle inquietudini (‘An Insular Life’), dalla delicatezza (‘Meridian’, ‘Hidden Lakes’) all’impatto vertiginoso della vitalità e del rumore (‘Black Eyes’ – eccellente traino – ma anche la frenetica ‘Corridors’). Un’opera bella e palpitante come da attese, con la certezza rinnovata che l’uscita di Meiburg dagli Okkervil River sia valsa ai fan lo sdoppiamento di quel cuore creativo in una coppia di formazioni di eccellenza. Il leader degli Shearwater è un fuoriclasse alla stregua di Will Sheff, nessun dubbio a riguardo, e questo album non sarà ‘Palo Santo’ ma poco ci manca. Il respiro, la profondità, la solidità degli arrangiamenti non possono non far parlare di garanzia rinnovata, puntualmente. L’unico elemento discutibile, a questo punto, restano le copertine vagamente new age, sicuramente bruttine perché un po’ fasulle (questa e quella di ‘Rook’). Un peccato veniale comunque.

Restando in Texas, non posso non dire qualcosa su ‘The Courage of Others’, l’album che è valso ai Midlake, fino al giorno della pubblicazione, la palma di gruppo più atteso dell’anno. Vertiginosa la distanza temporale da ‘The Trials of Van Occupanther’, quattro anni quasi eterni considerando quante uscite di rilievo si siano alternate nella medesima mattonella musicale dal 2006 ad oggi (su tutti i Fleet Foxes, almeno in quanto a eco nei circuiti alternativi). Enormi anche le aspettative per questo terzo passo della band di Tim Smith, forse veramente troppo elevate per poter consentire di leggere con la giusta lucidità un cambio di prospettiva in realtà meno radicale di quanto abbiano immaginato (e scritto) i più. E’ un disco che ha spiazzato, questo sì, dividendo la critica tra entusiasti forse eccessivi e detrattori feroci. Mediamente l’accoglienza è stata tiepida, proprio per l’errore di valutazione da cui l’analisi di queste nuove canzoni è parsa viziata in partenza. ‘Van Occupanther’ è stato un grande disco e i Midlake non hanno potuto (forse) né voluto (sicuramente) replicarne l’impatto easy listening, il fascino diretto, l’irresistibile magia pop-folk che tante tracce ha lasciato nel sottobosco indie statunitense. E’ cambiato anche il contesto, questo va detto, ma mi sembra importante non limitarsi ai riferimenti esteriori e al background del gruppo per svelare il limitato appeal che il disco pare aver espresso. ‘Van Occupanther’ va dimenticato e, se possibile, demitizzato. Un’opera emozionante e riuscita, non il capolavoro che ci è stato spacciato o che abbiamo creduto di vedervi. Con questa semplice premessa si può rendere giustizia alla peculiarità e alla natura altra di ‘Courage’, che è un disco bello alla stessa maniera di quello, meno facile e ruffiano, meno efficace, ma più maturo. Il recensore di pitchfork lo ha demolito sulla base di una convinzione secondo me errata, citando (fregandosene) il lavoro fatto da Smith nella rilettura del folk britannico di fine anni ’60, quello anche obliquo e misterioso dei Fairport Convention e dei Pentangle, senza segnalare però come quella rilettura fosse filtrata da una sensibilità yankee in direzione psych folk e come la fattura dei brani sia veramente ottima, sempre. Come ho scritto altrove i Midlake “classici” io ce li sento eccome (in ‘Small Mountain’ per esempio), mi conforta che la band abbia scelto di percorrere una strada diversa senza snaturarsi davvero, facendo propria la prospettiva stilistica di un Greg Weeks o di un Ben Chasny (‘Bring Down’ – strepitosa – valga come emblema) ma rifiutandone a priori gli eccessi più acidi e barocchi, proponendosi con un equilibrio ed una pulizia sonora sufficienti a scongiurare i rischi di caricatura che il sottogenere spesso porta con sé.

‘Teen Dream’, ritorno in pista per i Beach House a meno di due anni da ‘Devotion’, è valso al duo di Baltimora un’inattesa quanto indiscutibile consacrazione. Non è una sorpresa, soprattutto non è così ingiustificato questo risultato. Meno “dream” e più “pop”, una prodigiosa capacità di sintetizzare le proprie linee melodiche in modo da renderle facilmente metabolizzabili per gli ascoltatori meno smaliziati. Una dote, questa, tutt’altro che comune, e che in fondo era intuibile anche nella scrittura più articolata, ovattata e stilosa dei due album usciti per Carpark. A questo giro sarà il benemerito marchio Sub Pop, sarà la semplificazione intelligente delle trame, sarà l’intatto fascino della voce di Victoria Legrand, sia quel che sia, i Beach House dimostrano senza ombra di dubbio di aver saputo creare le perfette condizioni per una loro entusiasmante volata sul traguardo. Pitchfork li ha sempre apprezzati, ora li esalta con la ragion di stato che si deve ai cavalli vincenti, alle promesse sostenute dal primo istante e accompagnate trionfalmente al successo. Personalmente non tutto in ‘Teen Dreams’ mi convince a pieno. Il singolone ‘Norway’ o la nuova versione di ‘Used To Be’ sono abbacinanti e retorici (in termini pop) quanto basta, qualche canzone è meno riuscita e non può certo vantare le virtù della dolce ipnosi che avevano le seconde linee nei primi due album della coppia. Ma un brano come ‘Silver Soul’, straordinario a dir poco, conferma che sotto sotto non ci si è allontanati troppo dalla magia irresistibile di ‘Devotion’ (per il sottoscritto quello resta il capolavoro della band). Validissima in produzione l’enfasi attibuita senza indugi a synth, tastiere e all’organo della Legrand, a conferire al sound spiccate tonalità di pastello, calzanti e per nulla artificiose per quanto indubbiamente orientate a rendere più catchy l’impatto delle nuove canzoni. Un’altra svolta non draconiana ma comunque precisa, importante, a riprova di come oggi si possa fare ottimo easy listening solleticando anche i palati fini del pubblico alternativo. ‘10 Miles stereo’, ‘Zebra’ e ‘Lover of Mine’ – tra le altre – sono qui a confermarcelo.

Due parole, infine, le voglio dedicare anche al meno considerato tra i dischi in questione. ‘Die Stadt Muzikanten’ avrebbe dovuto essere il secondo vero album per i canadesi Woodpigeon, la formidabile band guidata da Mark Hamilton e di cui già ho scritto su questo blog. Il condizionale è necessario, dato che, di fatto, l’album da poco uscito è in realtà il terzo capitolo nell’avventura della numerosa compagnia di Calgary. La fortuna ha voluto che il precedente ‘Treasury Library Canada’ uscisse dai cassetti cui pareva destinato in virtù di logiche distributive e promozionali carbonare. Lo abbiamo intercettato, conosciuto ed amato. In pochi purtroppo hanno potuto godere della nostra stessa opportunità, ma questo è un problema loro. Ora arriva fresco fresco il seguito di quella meravigliosa scoperta ed il risultato non delude. Sulle prime l’ascolto mi ha un po’ spiazzato, devo ammetterlo. Non perché io abbia riscontrato un qualche inopportuno cambio di direzione, che peraltro nemmeno c’é. ‘Die Stadt Muzikanten’ è, tra i quattro nuovi LP citati in questo pezzo, quello che evidenzia una più netta continuità rispetto al passato recente dei suoi autori. A lasciarmi un po’ perplesso erano le canzoni: non le trovavo, molto semplicemente. La pazienza e l’attenzione nell’ascolto hanno rimesso le cose a posto, e questo è accaduto con la massima naturalezza. Un vero piacere far propri i dischi in questa maniera, poco per volta, con scoperte minime, ma ripetute. Ora posso sostenere che al nuovo Woodpigeon manca soltanto l’effetto sorpresa che tanto aveva fatto, nel caso di ‘Treasury Library Canada’. Per il resto la band si conferma come un’anomala ma bellissima realtà folk-pop-rock contemporanea, un gioiellino di gruppo. Nel disco è regalata, con la generosità cui i canadesi ci hanno piacevolmente abituato, tutta la gamma di canzoni della capiente valigia d’artista di Hamilton, un americano con la vocina acidula (alla Brian Molko) che ha studiato in Scozia carpendo il meglio da due distinti mondi musicali. La lunghezza del nuovo album (ma anche del vecchio) può scoraggiare, ma resta innegabile che la lievità prodigiosa di tutte le composizioni sappia compensare egregiamente un limite strutturale che, diciamocelo, non è certo il peggior male del mondo, considerata la qualità. Dalle deliziose e rarefatte folksongs ‘Our Love is as Tall as the Calgary Tower’ e ‘Such a Lucky Girl’ al caloroso jangle-pop di ‘Duck Duck Goose’, dalla grazia fragilissima di ‘Morningside’ agli sfiziosi aromi traditional di ‘Redbeard’ o ai passaggi più accesi e chitarrosi tipo ‘My Denial in Argyle’, il piatto è ricco e soprattutto non stanca. Se il buon anno si vede dall’inverno, beh, sarà un grande 2010.

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Treasury Library Canada

Resiste in cima alla mia classifica delle sorprese dell’anno e all’inizio non ci avrei scommesso un nichelino. Invece il primo giudizio sta trovando conferme a tutti i livelli, lasciandomi piacevolmente colpito. Il Canada mantiene le promesse. Un certo criterio selettivo ha sempre permesso a lavori di eccellente fattura di venire alla luce da quelle lande non più desolate, e la costanza di questi sviluppi è ammirevole. Se consideriamo che le produzioni made in U.K. sono desolatamente al tappeto e che negli States i nomi nuovi degni di nota sono sensibilmente ridotti rispetto a quanto avveniva anche solo un lustro fa, colpisce nel contrasto l’aumento vertiginoso di nuovi gruppi canadesi che fanno centro già con gli album d’esordio. Per i Woodpigeon non si tratta di un debutto ma quasi, considerando quel solo episodio precedente risalente al 2006. Quel che più mi ha fatto pensare in merito al talento creativo di Mark Hamilton è che ‘Treasury Library Canada’ era nato come regalo per una stretta cerchia di fan e sodali. Sulle prime ho anche pensato ad una dichiarazione buttata lì per scherzo, dato che non ci si capacita di come queste canzoni possano essere semplici rimasugli del disco precedente, eppure è proprio così.

Fortuna che qualche lampo meritocratico ha ancora modo di manifestarsi in questo pazzo mondo che è l’industria musicale. Non tutti i discografici sono così pazzi o avventati da lasciarsi sfuggire una buona occasione quando si presenta. I Woodpigeon sono senz’altro una buona carta, dato che i loro lati B riescono a costruire un intero album di ottime canzoni. Per tante altre band l’ultima delle gemme nascoste di ‘Treasury Library Canada’ sarebbe un inarrivabile punto d’approdo. Questo Mark Hamilton è un tizio da tenere d’occhio, sin dal prossimo passo della combriccola di Calgary, a quanto pare imminente. Si è formato in Scozia e si sente. Più che i soliti Belle & Sebastian i rimandi vanno tutti a quella Reindeer Section che più che un supergruppo pareva il frutto dell’ispirazione di un uomo solo al comando. Con i Woodpigeon la sensazione è la medesima, anche se il contorno è quello di un’autentica grande banda. Aggiungiamo i rimandi al sottobosco folk statunitense più recente ed il gioco è fatto. Un miracolo a ben vedere, ce ne rendiamo conto in misura crescente man mano che questi brani sono meglio metabolizzati: canzoni come ‘Knock, Knock’, ‘Anna, Girl In The Clocktower’ o ‘Bad News Brown’ sono destinate a restare, inevitabilmente. Con la certezza che abbiamo già in archivio un’altra fantastica sensazione Made in Canada, tanto più gradita se pensiamo che è clamorosamente inattesa. 

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