Wolf Parade @ Spazio211

13-05-2010

 

Non sono mai stato un vero fan di Spencer Krug. Ad essere sincero non posso certo dire d’essere mai stato nemmeno un entusiasta adepto di Dan Boeckner. Non mi hanno rapito i Sunset Rubdown, al cospetto dei quali credo di aver sempre espresso una forma di equilibrato apprezzamento, magari un tantino castigato rispetto ai giudizi di amici che con loro sono andati letteralmente in solluccheri. Bravi sì, ma non abbastanza da guadagnarsi lo strillone "colpo di fulmine" in una mia ideale reclame. Gli Handsome Furs mi sono parsi in tutta sincerità anche più trascurabili, non me ne voglia il tarantolato cantante e chitarrista di Montreal, che pure è un più che discreto songwriter oltre che musicista. Certo poi ci sono quei casi – e questo dei Wolf Parade è emblematico – in cui due buoni autori altrimenti destinati a languire abbandonati nello sterminato calderone dei "senza infamia, ma anche senza grandi lodi" riescano a dire la loro in maniera stupefacente proprio grazie ad una fattiva collaborazione. Per questo motivo almeno due dei loro tre album rimangono per il sottoscritto pagine tra le più godibili nella scena power-pop-rock di questi ultimi anni. Per questa ragione il loro live di maggio allo Spazio è stato uno dei più attesi della stagione, confermandosi poi tra i più vivaci, piacevoli e divertenti di tutto l’anno. Potenzialmente sono una band da grande evento festivaliero, da palco ampio, questi canadesi così anomali. Tuttavia le limitazioni tipiche del piccolo club credo abbiano finito col giovare allo spettacolo e all’umore di pubblico e gruppo, avvicinandoli l’un l’altro sin dal primissimo momento e favorendo una genuina e spontanea fratellanza, annientando quello che per chi scrive era l’unico vero timore della vigilia: il rischio di una freddezza eccessiva. Il report per indie-rock.it non è mio ma di Cristiano, anche se mi trova d’accordo su tutta la linea, sul vantaggio effettivo (e non indifferente) di un organismo alimentato da due cuori tanto differenti quanto vitali, come sulla prova nient’affatto malvagia dei rumeni Amsterdams come band di supporto. Purtroppo non conservo annotazioni relative alla scaletta della serata, ma mi sembra di ricordare con buona lucidità una fantastica partenza sulla falsariga di ‘At Mount Zoomer’, con la terna precisa ‘Soldier’s Grin’‘Call It a Ritual’‘Language City’. Ricordo che tutto lo show si è snodato come un’incessante partita a rimpiattino vocale tra i due frontman, un pezzo a testa e pedalare, con il paffuto tastierista a ritagliarsi le pagine ora più intense, ora più allegre, ed il secco chitarrista ad interpretare con convinta aderenza alla parte l’anima più nervosa e canonicamente rock. Secondari, ma assolutamente affidabili gli altri, un’onesta sezione ritmica capace di non invadere gli spazi dei primattori pur suonando ugualmente efficace. I Wolf Parade hanno dato insomma tutto quanto veniva loro richiesto, a cominciare da un’interminabile filotto di hit che non ho potuto esimermi dal cantare a gran voce, almeno nei momenti topici. Impossibile in fondo non farsi coinvolgere da un gruppo che ci ha riservato anche un inatteso calore ed una simpatia per nulla paracula: stavo proprio sotto Dan, ero a portata di tiro e qualche scaracchiata l’ho anche presa. I pezzi forti, specie da ‘Apologies To Queen Mary’, mi pare di ricordare li abbian fatti più o meno tutti, penso a ‘You Are a Runner and I am My Father’s Son’, ‘It’s a Curse’, ‘We Built another World’ e ‘Dear Sons and Daughters…’ ma l’entusiasmo di quella serata e la sua lontananza dall’oggi potrebbero anche trarmi in inganno quando provo a scendere nel dettaglio. Di certo non sono stati affatto male i pezzi, al momento nuovi di pacca, offertici con inalterata verve per presentare l’allora imminente ‘Expo 86’. Un disco che diversamente dai predecessori non è stato in grado di conquistarmi, un po’ come Krug e Boeckner presi nelle parentesi di licenza dal gruppo principe. Hanno colpito per una certa colorata spinta pop, anche con qualche eccesso sintetico e smaccati richiami eighties. Scommetterei un nichelino che ‘Oh You, Old Thing’, ‘Palm Road’ e ‘Ghost Pressure’ le ho sentite per la prima volta li davanti al palco di Spazio. Per la terza sono anzi praticamente certo. Come non ho alcuna esitazione nel confessare di aver goduto come un riccio verso il finale, quando i canadesi hanno raggiunto la vetta emotiva con due delle mie preferite tra le loro canzoni: ‘This Heart’s On Fire’ e ‘Kissing The Beehive’. Strepitosa quest’ultima, la mia personale istantanea del cuore per quella già lontana serata della primavera scorsa.

0 comment