La commedia umana  _Letture

      

Un libro candido, ottimista, magari ingenuo. Di certo il meno cinico che io abbia mai letto. Fa riflettere in prospettiva, scorrendo le sue agili pagine, quanto sia malato il nostro quotidiano collettivo. La comunità celebrata da Saroyan in questo romanzo mi porta a immaginare un passato che era anche nostro, qui in Italia, ai tempi dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. Un mondo semplice, costruito sulla fiducia irriducibile nel domani e sul rispetto, anche in contesti molto più spietati di quelli attuali. Fa riflettere perché è quanto di più distante da ciò che ci circonda, dalle brutture che inseguiamo, ostentiamo e veneriamo, con la nostra ansia di apparire e di mostrarci pur non avendo nulla da dire e ben poco da voler condividere. Forse queste righe sono imbevute di facili luoghi comuni da disfattista ingeneroso, può darsi. Quello che posso dire è che questa “Commedia Umana” mi è parsa, nelle poche ore che le ho riservato, una specie di medicina. Scaduta, penseranno molti, accreditando in fondo l’ipotesi che siamo ormai senza speranze.

Homer Macaulay ha quattordici anni e la responsabilità di essere l’”uomo di casa”. Orfano di padre e con un fratello maggiore, Marcus, al fronte chissà dove, trascorre le proprie frenetiche giornate tra impegni scolastici al liceo e serate spese come portalettere presso l’ufficio del telegrafo della sua cittadina, un impiego assunto per raggranellare qualche soldo da destinare alla famiglia e per farsi le ossa nel mondo ancora ignoto degli adulti. Tre i sogni nel suo cassetto: il ritorno a casa del congiunto, diventare campione regionale di corsa a ostacoli sulla distanza di duecentoventi metri e arrivare a comprendere tutti i chiaroscuri dell’animo umano che, per inesperienza, ancora gli sfuggono. Se per le prime due voci il futuro non gli riserverà proprio un trattamento di riguardo, la sua esperienza in fatto di azioni e sentimenti lo spingerà suo malgrado a traguardi precoci e significativi. Attorno a lui vediamo orbitare poche altre figure selezionate come ideali satelliti: una madre comprensiva e una sorella, Bess, entrambe musiciste per diletto; il fratellino Ulysses, espediente narrativo cruciale in chiave di alleggerimento lirico; il capufficio Spangler, sempre prodigo di buoni consigli, e Grogan, vecchio telegrafista col vizio dell’alcool che resiste strenuamente alla prospettiva della pensione e di un rimpiazzo da parte delle macchine. E, ancora più sullo sfondo, una ridotta galleria di comparse emblematiche di un universo yankee ormai tramontato da tempo: dall’imbonitore da fiera allo strillone dei giornali, dal figurante di negozio all’improvvisata banda di strada, dalla bacucca avventuriera al piccolo droghiere armeno, evidente richiamo autobiografico per Saroyan alla figura paterna. In questo suo romanzo non c’è altro che questo placido scorrere collettivo, brulicante e nel contempo estatico, tra pause e improvvisi lampi drammatici. Il libro ha il tocco leggero e umile di un acquerello e i colori tenuamente cangianti di un mosaico in trentanove tessere. Protagonista assoluta è l’umanità variegata ma sempre dignitosa e persino bonaria della piccola Ithaca, cittadina californiana in cui il sogno americano risplende con forza anche nei giorni del secondo conflitto mondiale grazie alle energie virtuose attivate da un felice e costante processo di integrazione.

Tra le righe si coglie così una fiducia profonda, irriducibile, nell’uomo, resa manifesta nella lettera di Marcus dal fronte, messaggio d’amore universale e fratellanza al di là di ogni steccato e ogni confine: “non riesco ad accettare l’idea che esistano dei nemici, perché nessun essere umano può essermi nemico. Un essere umano, chiunque sia, lo considero amico”. Si ribadisce così l’ideale di un grande idilliaco paese, culla di un multiculturalismo compiuto, aperto e tollerante. I membri della famiglia Macaulay, i bambini come Auggie o Lionel, piccolo scemo del villaggio, sono pedinati dall’invisibile macchina da presa dello scrittore nell’ordinarietà della loro esistenza, tra momenti di svago e altri di operosa quotidianità, in una periferia statunitense lontana dai campi di battaglia eppure sospesa nel limbo doloroso dell’incertezza riguardo ai propri figli lontani. La pace, in queste vedute parziali ma terse, diventa allora lo specchio di un sentimento più profondo, di un messaggio commovente e sincero perché alieno alla trita retorica del patriottismo, e decisamente più universale. Lo sguardo di Saroyan è quello semplice ed entusiasta del piccolo Ulysses, curioso e innamorato di tutto nella sua gioconda odissea esplorativa in una natura docile, eternamente sorprendente. Anche se la morte è una presenza implicita, inflessibile, che aleggia nelle pagine come l’”altro messaggero” nell’incubo di Homer, apparecchiando un finale quasi inevitabile nella sua fatale prevedibilità, quello di Saroyan resta un romanzo colmo di speranza, positivo, e ha senso parlare di “commedia umana” anche se quella dei Macaulay si rivelerà a tutti gli effetti una tragedia. Nelle nuove generazioni cresciute magari troppo in fretta, ma senza tradire la purezza e l’innocenza dell’infanzia, risiedono i germogli di un’umanità leale e “degna” come Spangler, quella che alla consapevolezza della maturità leghi non il cinismo bensì la compassione verso l’altrui sofferenza. La morale è tutta qui. La morte non vince e non cancella ogni cosa poiché il buono che si è stati e che si è fatto sopravvive sempre e da frutti, nelle persone che amiamo o semplicemente incontriamo sul cammino.

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