Wilco @ Teatro della Concordia, Venaria (TO)   12/10/2012  _Il nostro (altro) concerto

      

La prima volta che li ho visti c’era ancora Jay Bennett. Tour di ‘Summerteeth’, di spalla (con i Suede) al Dall’Ara di Bologna nel più indimenticabile concerto dei R.E.M., con due leader al timone e qualche spigolo di troppo, evidentemente. Jeff era smilzo e glabro, capello corto e giacchetta di jeans. Devo ammettere che non mi fecero una grandissima impressione. Conoscevo solo ‘Shot in the Arm’, il cui video passò qualche volta come una cometa  nel cielo tardo-serale di MTV Brand New. Altri tempi. Il pop di quell’album sensazionale non rese al meglio dal vivo, mentre la miscela di folk e alt-country delle loro prime cose non incontrò i miei gusti dell’epoca, un remoto 1999, per cui archiviai l’esperienza con un distaccato e generico apprezzamento in attesa delle più succulente portate in cartellone.

Li ritrovai otto anni più tardi e lo scenario era già tutto stravolto. Tour di ‘Sky Blue Sky’ sul comodo pratone estivo di Spazio 211, in archivio anche le perle di ‘Yankee Hotel Foxtrot’ e ‘A Ghost is Born’, una squadra rinnovata e già affiatatissima, la certezza di un tocco magico. Degli idoli in pratica, dei giganti cresciuti molto in fretta. Jay era ancora vivo ma Tweedy l’aveva già esautorato da tempo.  Un Tweedy decisamente più in parte, più in carne, più in pelo. Accanto a lui il nuovo squadrone avvoltoi con dentro quel paio di fenomeni assoluti che rispondono ai nomi di Nels Cline e Glenn Kotche, oltre ad un altro terzetto di eccellenti musicisti capitanato dall’unico altro reduce dell’esibizione felsinea, il fidato bassista John Stirratt. Complice un salto di tensione e conseguente blackout, un concerto di per sé entusiasmante si trasformò in una pagina memorabile nell’album dei ricordi di chiunque fosse presente a quell’unico passaggio italiano per la band di Chicago: ‘Spiders (Kidsmoke)’ troncata dal buio all’improvviso ma salvata, senza che nessuno pianificasse la cosa, da un batterista troppo testardo per fermare i suoi battiti, da un cantante bravo anche con la chitarra acustica (e del tutto unplugged), da quattro alfieri disposti a percuotere qualunque cosa capitasse loro a tiro (compreso un caschetto ornamentale a fibre ottiche, scosso come maracas) ed un pubblico elettrizzato e come in trance collettiva, perso nelle onomatopeizzazioni corali dei riff della chitarra di Cline manco fosse una curva di faziosi ultras, per dieci minuti ed oltre semplicemente indimenticabili, travolgenti, da pelle d’oca. A corrente ripristinata, fu un’insolitamente entusiasta Jeff a complimentarsi con i duemila spettatori presenti per la cosa pazzesca plasmata tutti assieme sul filo squillante di una semplice, meravigliosa improvvisazione. Un rammarico che non siano presenti su youtube filmati di quel che accadde in quel lungo frangente.

Bando ai sentimentalismi comunque. Archiviato un evento che non faccio fatica a etichettare come uno dei tre live più belli cui avuto la fortuna di assistere in tutta la mia vita, resta da tenere traccia di un rapporto con il gruppo andato scemando poco alla volta da quel giorno di cinque anni e mezzo fa. Due dischi – ‘Wilco (The Album)’ e ‘The Whole Love’ di buon livello ma decisamente non all’altezza dei quattro diretti predecessori. Un discreto numero di nuovi passaggi italiani snobbati dal sottoscritto esclusivamente per necessità (trasferte troppo onerose, in pratica) e salutati da puntuali entusiastiche cronache degli amici di volta in volta presenti, sempre più numerosi come un drappello di nuovi adepti e senza remora alcuna nel dichiarare ormai al culmine della maturità la compagine statunitense nelle prove dal vivo. Sembrava quindi un amore destinato a spegnersi senza clamori ma con una coda di sottile gelosia, questo, poi ecco insperata l’occasione di ritrovare finalmente i Wilco ospiti nella propria città. Impossibile non approfittarne nonostante quel fuoco non più ardente come una volta. “Live sono sempre uno spettacolo”, il dato di fatto da cui partire senza esitazioni, ed eccoci allora sotto al palco del Teatro della Concordia di Venaria, luogo poco sfruttato ed in fondo (azzardo) ideale per eventi di discreto cabotaggio come questo (sì, ma andiamolo a spiegare a chi si ostina a portare solo i carrozzoni intergalattici e tamarri dei vari Muse, Lady Gaga, Rihanna, ecc., regalando poi immancabilmente a Bologna e Milano ogni Okkervil River, Calexico e compagnia cantante che ancora si ostini a passare per l’Italia). Polemiche a parte, rieccoli! Jay Bennett non è più di questo mondo da quasi tre anni, Tweedy ha preso nel frattempo non meno di altri dieci chili e si fregia di indossare una giubba di jeans che non sarà quella di un tempo ma le somiglia terribilmente.

        

La partenza è proprio tutto fuorché esplosiva. Non certo agevolata dal recupero di un classico tra i più oscuri del repertorio, ‘Misunderstood’, piazzato subito in apertura come un bel pugno nello stomaco, ingolfata oltremodo da un paio di episodi già di loro non proprio esaltanti ed eseguiti in maniera meccanica (e con il basso ed il synth scuro di Jorgensen a raschiare via ogni scampolo di sfumatura), sembra dare credito ai pensieri meno rosei della mia vigilia. Perché le cose migliorino, sensibilmente, non basta il sempre toccante appello di ‘I Am Trying To Break Your Heart’, pure sgrezzata da quell’impasto sonoro invadente, né il cuore di Jeff esibito senza particolari filtri in ‘Sunken Treasure’. A ridestarmi è piuttosto un pezzo che mai avrei pensato di ascoltare, e invece: ‘Laminated Cat’, dall’eponimo dei Loose Fur, progetto minore di Tweedy e Kotche (sempre che si possa definire “minore” una formazione il cui terzo vertice è rappresentato da Jim O’Rourke), lunga e gradita anticamera  per l’inevitabile estasi chitarristica di ‘Impossible Germany’. Sarà scontato, ma solo quando Nels Cline smette i panni della ricamatrice per salire finalmente in cattedra, i Wilco sembrano liberi di decollare. E con lui tutti gli altri, in primis un Pat Sansone che pare più leggero e gioviale che mai nei suoi quarantatre anni indossati divinamente (si fa fatica a dargliene trenta). Con ‘Jesus, etc.’, ‘Handshake Drugs’ e ‘War on War’ (non perfetto il cantato di Jeff) possiamo dire di essere arrivati là dove avevamo sperato. Il finale di set è una lunga fiammata a base di hook festaioli (‘Heavy Metal Drummer’) ed irrefrenabili singalong collettivi (‘Hummingbird’, ‘Shot in the Arm’). Si riparte per la prima serie di bis nello stesso modo in cui si era cominciato, ovvero con una straniante (e stravolta) versione di ‘Via Chicago’, discutibile per l’inclinazione sperimentale che alterna pause, fracassi sonici e limpide melodie. Diversamente da prima, il gruppo è però carico e pimpante e tutti i suoni sono ben equalizzati.  I recuperi della vecchia ‘Passenger Side’ e di ‘California Stars’ (direttamente dal primo dei tre album tributo a Woody Guthrie realizzati assieme a Billy Bragg) sembrano orientare i suoni verso un’Americana di stampo più tradizionale prima che ‘Hate It Here’ e soprattutto ‘Walken’ riportino con decisione il piede sull’acceleratore. Il secondo filotto di bis accentua questa dimensione per chiudere le danze in una lunga ed euforica smargiassata dalle cadenze prog, con tanto di baffuto ragazzotto roadie sul palco a percuotere un campanaccio e sculettare a torso nudo accanto agli altri. Siamo arrivati ai saluti finali e solo la nostra provatissima schiena sembra certificare che dal via siano trascorse due ore e mezza di strabordante ciccia rock. Ventotto canzoni, centocinquanta minuti avvolgenti, mesmerizzanti, quasi tutti impeccabili. Ma resta una sensazione di sortilegio, un retrogusto di precisione un po’ fredda o di scarso trasporto al di là dell’indiscutibile clamore, almeno in certi momenti. Si potrebbe stare qui ancora per ore a discutere se i Wilco siano effettivamente la migliore live band del mondo, oggi come oggi, ed io forse propenderei sempre per il sì. Ma senza il dato tecnico tutta la riflessione andrebbe comunque ripensata, il mestiere è ormai una componente significativa (anche se pur sempre minoritaria). Ad ogni buon conto uno spettacolo, come se ne vedono di rado.

P.S. – Quest’ultima considerazione non può valere per gli Hazey Janes, modesta compagine scozzese che ha aperto la serata con un mix di pop blando ed innocuo indie-rock, con troppo poca personalità a disposizione. Confronto impietoso con gli headliner, per cui mi fermo qui. Nella galleria fotografica raggiungibile dalla prima foto in alto ci sono comunque anche loro.

SETLIST: ‘Misunderstood’, ‘Art of Almost’, ‘Standing O’, ‘I Am Trying To Break Your Heart’, ‘I Might’, ‘Sunken Treasure’, ‘Born Alone’, ‘Laminated Cat’, ‘Impossible Germany’, ‘Shouldn’t Be Ashamed’, ‘Jesus, etc.’, ‘Whole Love’, ‘Handshake Drugs’, ‘War On War’, ‘Always In Love’, ‘Heavy Metal Drummer’, ‘Dawned On Me’, ‘Hummingbird’, ‘Shot in the Arm’; ENCORE I: ‘Via Chicago’, ‘Passenger Side’, ‘California Stars’, ‘Hate It Here’, ‘Walken’, ‘I’m the Man Who Loves You’ ENCORE II: ‘Monday’, ‘Outtasite (Outta Mind)’, ‘HooDoo Voodoo’.

3 Comments