Thee Oh Sees

Bangers vs. Fuckers

       

Proprio in questi giorni ho sfruttato ogni ritaglio di tempo a mia disposizione per riservare a John Dwyer e alle sue creature musicali la monografia che meritano (e che da queste parti ancora mancava). Sono state tre settimane di intensi recuperi, in cui ogni album della ditta Thee Oh Sees è stato ampiamente sviscerato, ma anche le intestazioni meno note del “camallo” di San Francisco sono state esaminate a fondo, con esiti (lo dico da ascoltatore che ha buona familiarità con un genere sprovvisto di belletti) non sempre dei più esaltanti. Abbastanza Bene gli Yikes, benino i Pink & Brown, maluccio i The Hospitals e da vomito gli Zeigenbock Kopf, parentesi trashissima tra proto-industrial e omo-kitsch che il Nostro ha accuratamente cercato di occultare negli ultimi otto/dieci anni (in rete non si trova quasi più nulla, grazie al cielo). Decisamente bene, invece, i Coachwhips, la sua band importante di quando i Thee Oh Sees erano soltanto una fantasiosa ipotesi futura. Un gruppo garage-punk nella più piena accezione del termine: fragoroso, rumoroso, strafottente, ma sostanzialmente genuino. A volte mi sorprende quanto dischi barbari come quelli dei Coachwhips possano ancora piacermi. Lo ritengo un buon segno comunque, un indispensabile riequilibrio che compensa tanta musica eccessivamente adulta che mando giù ogni giorno. Paradosso dei paradossi: a vent’anni non perdevo tempo dietro a cose così atroci, e allora forse aveva ragione La Rochefoucauld in quell’unica massima che la mia mente ha avuto cura di trattenere negli anni (merito di “Wild Mood Swing”, forse): diventando vecchio non solo sono più saggio, ma anche un po’ più folle.

 

 

Strana bestiaccia selvatica, il John Dwyer pre-Ohsees.

Fiera lacerante nel duo di pazzi Pink & Brown, predatore mugghiante negli Yikes, obbrobrioso scherzo della natura nell’inospitale selva kitsch degli Zeigenbock Kopf: tutte belve reiette, a mollo nella palude del weird-garage e dell’industial-shitgaze californiano (scritto non senza perplessità, a puro beneficio di coloro che amano gli inutili file-under).

A brillare davvero in territori analoghi, a un giorno appena di cammino dalle band sopracitate e a un paio dai futuri Thee Oh Sees, è la fortunata parentesi dei Coachwhips, compagine weirdo-punk già autrice di un paio di ottimi album (tra cui il pregevole esordio “Hands On The Controls”), cointestata alla biondissima Mary Ann McNamara e allo sferzante John Harlow, massacratore di rullanti. Non contenti del loro già incoraggiante avvio di carriera, i giovani di San Francisco alzano di parecchio il tiro con quello che promette di imporsi a mani basse come miglior titolo del catalogo, il mini “Bangers Vs. Fuckers”, in uscita per Narnack a fine 2003.

E’ un’ondata di quelle devastanti e ferocissime questa, imbastita in appena una dozzina di rapide scudisciate, assalto frontale di erculea potenza che radicalizza tanto la lezione dei Mummies quanto la formula vincente dei White Stripes negli anni della loro esplosione (si sentano in proposito “Recline, Recline” e “Extinguish Me”). Imperturbabile, travolgente, diretto e amabilmente barbaro, caotico senza mai risultare gratuito nei suoi affondi, il terzetto si conferma un’esaltante combriccola di vandali e, in diciotto scalcagnatissimi minuti, prende a sberloni l’ascoltatore, alzando una quantità incredibile di polvere sul terreno e picchiando con furia cieca (“I Drank What?”, il blues spellato vivo di “I Knew Her, She New Me”).

La chitarra affilata e schiumante è la stessa che John sfoggerà negli anni a venire ma l’indole appare, se possibile, ancor più selvaggia e fieramente diy, tra sudice pozze roventi (“Dancefloor, Bathroom”) e una giungla di feedback spurgati senza riguardo sulla sporca fanghiglia lo-fi. Un vero gioiello “Bangers vs. Fuckers”, quanto di più prossimo a un bruciante manifesto per il (sotto)genere di riferimento, a opera di un gruppo di inattaccabile purezza, qui scatenato in un corpo a corpo violento con le nostre orecchie e del tutto libero di impazzare allo stato brado. Rigorosamente inafferrabili le liriche del capobanda, e quanto mai preziose le tastiere percosse senza alcuna pietà dalla sadica fanciulla (ben più ferina di qualunque Brigid Dawson incrociata in seguito dal frontman), prima di rifiatare nell’allucinato finale di “Goodnite, Goodbye”.

Moriranno l’indomani i Coachwhips, come ogni cosa bella che si rispetti. Non prima, tuttavia, di regalarsi un disco di commiato (“Peanut Butter and Jelly Live at the Ginger Minge”) ancor più caustico e abrasivo, trionfo di ossessioni schizoidi a base di organi dati alle fiamme e sibilanti feste del tetano, esasperate per l’occasione all’ennesima potenza. I fanatici del lieto fine non si rassegnino comunque: la spietata band di San Francisco sarà destinata a uscire dal sepolcro nella primavera 2014, in una serie di concerti-svago programmati da un Dwyer in pausa di riflessione dalla sua band principe.

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Castlemania

       

Niente, proprio non ce la fanno a fermarsi. Non si ha il tempo di stabilizzarsi negli ascolti, di metabolizzare una nuova uscita ancor più frastornante della precedente che, ecco, sono pronti ad uno dei loro assalti da terroristi sonori. Un po’ come quel monellaccio di Ty Segall, che è nella loro cerchia di accoliti non per caso e che quest’anno sembra intenzionato a sbaragliare ogni avversario nella competizione avendo fatto uscire ben tre album (tutti con ragioni sociali diverse) in appena cinque mesi e mezzo.Non che sia un male, intendiamoci, almeno finché la qualità si mantiene stabilmente sopra la media. Che è poi il miracoloso standard a cui ci ha abituato Ty ed ancor più di lui proprio i formidabili Thee Oh Sees di questi ultimi tempi. Il 2011 ci ha portato in dote questo sciroccatissimo album, ‘Castlemania’, che qui mi accingo a recuperare dopo una lunga stagionatura (la relativa recensione era uscita addirittura su indie-rock.it, altri tempi), una succulenta raccolta di B-sides e demo assolutamente all’altezza (‘Singles Collection Volume 1 and 2’) ed un’eccelsa perla di fine anno, il potentissimo ‘Carrion Crawler / The Dream’, infilato senza grossi problemi dal sottoscritto nelle posizioni di pregio della classifica dello scorso anno. Non contenti i satanassi californiani hanno replicato un mesetto fa, licenziando un’altra raccolta di tutto riguardo intitolata ‘Putrifiers II’. Nel loro caso stupisce davvero come ad ogni nuova uscita il loro suono riesca ad essere più arrembante ma anche più accessibile, con un perfezionamento a livello produttivo che li ha portati molto lontano rispetto allo scalcagnato garage in bassa fedeltà degli esordi. Per ‘Castlemania’, comunque, questo discorso è valido solo fino ad un certo punto visto che, esclusi alcuni dettagli marginali, si tratta di fatto di un disco solista del vulcanico frontman John Dwyer, un caso a parte nella loro ormai quasi sterminata discografia. E’ un lavoro sfarfallante, scombiccherato ed impregnato degli umori briosi e malsani del capoclasse. In genere la critica lo ha accolto con un po’ di scetticismo ma personalmente lo ritengo una delle cose più bizzarre ed originali uscite negli ultimi anni nella scena alternativa statunitense: acre, rancido, sporchissimo e volutamente poco attraente, eppure emblematico nel raccontare una personalità musicale insolita e per farsi un’idea in merito agli estremi di creatività ed intransigenza che il gruppo di San Francisco può raggiungere. Da ascoltare senza pregiudizi e con una buona dose di clemenza, dato che non somiglia a nient’altro in circolazione. Ah, il doppio vinile è una meraviglia.

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Thee Oh Sees @ Spazio 211   19/05/2011

    

Stanno tornando, non vedo l’ora. OK, precisiamo. Mi lamento spesso che a Torino ci sono pochi concerti significativi di valide band alternative e che, di questi, una bella fetta è rappresentata da gruppi che tornano magari dopo intervalli brevissimi a calcare gli stessi palchi. Non smentisco il concetto, tanto più vero in questa primavera a base di repliche e con ben poche sorprese degne di nota (tipo i Flaming Lips, che atterreranno ad un km da casa mia a Luglio e sono un inedito assoluto in città). In periodi di vacche magrissime come questi, tagliare in maniera corposa il budget per i concerti è una scelta dolorosa ma necessaria (ci sono tagli e problemi ben peggiori, intendiamoci), resa un po’ più lieve dalla consapevolezza che molto di ciò cui si rinuncia in fin dei conti lo si è già visto. Dubito – per dire – che tornerò a vedere gli Sleepy Sun. Per gente come i Lower Dens o la Jon Spencer Blues Explosion vivo una sorta di microdilemma. Non nutro invece il benché minimo dubbio riguardo ai Thee Oh Sees, una di quelle formazioni fuori catalogo che rivedrei sempre e comunque. Non perché possano offrire chissà quale variazione sul tema: il canovaccio, a grandi linee, lo si è colto con buona approssimazione nello show del maggio scorso a Spazio, e dubito ci siano elementi in grado di far pensare a stravolgimenti di massima. Ad esempio perché il tour che approderà in italia a metà giugno presenterà le canzoni del recente ‘Carrion Crawler/The Dream’, le stesse già riservate ai pochi fan in occasione della visita precedente, quella (in teoria) riservata alla promozione di ‘Castlemania’. Anche sullo stile non c’é molto da vagheggiare: il gruppo di San Francisco si produce in una miscela di grezzissimo garage revival, con sessione ritmica preminente e carta bianca alla scarduffata e vitale isteria del suo capitano, John Dwyer. Davvero improbabili ripensamenti in corsa o ritorni alla più educata forma retrò di qualche annetto fa, quando la dolce Brigid Dawson sapeva tener testa al suo partner artistico in protagonismo. Nonostante le presunte conferme sulla proposta, lo spettacolo di questi quattro californiani imbizzarriti sarà senz’altro garantito: come ho scritto nel report del live precedente, è alquanto difficile trovare in circolazione band capaci della stessa purezza dei Thee Oh Sees. Incontenibili e rumorosissimi, barbari ma nel contempo raffinati citazionisti, sono quasi un genere a parte oltre che un bel manipolo di musicisti talentuosi. Se ve li foste persi e quanto scritto su indie-rock.it (link dalla prima foto in alto) vi incuriosisse, non passerà molto tempo perché possiate rifarvi. 

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Warm Slime

 

Mentre è già stata annunciata una nuova uscita per il mese prossimo, stesso periodo in cui torneranno a farsi vedere nel nostro paese e faranno un salto anche qui a Torino, mi tocca liquidare con due parole di presentazione l'ultimo album sin qui licenziato dai Thee Oh Sees ormai quasi un anno fa, quel 'Warm Slime' che fu una parziale delusione. Si dice sempre che moltiplicare gli sforzi e le pubblicazioni discografiche non paga, ma non mancano mai i fan pronti a smentire assunti di questo tipo citando tra le note "a favore" la generosità, merce sempre più rara in tempi in cui ogni dettaglio è stra-ponderato e nessuno regala mai nulla. Io per primo ho sempre valutato positivamente la prolificità del gruppo di San Francisco, autore di più di dieci LP (alcuni dei quali sono in realtà raccolte di demo e bozzetti più che dischi veri e propri) in un lustro o giù di lì. Con 'Warm Slime' ho in parte dovuto ricredermi, convinto che un annetto sabbatico avrebbe forse giovato alla combriccola pilotata dal folle John Dwyer. Mi avevano abituato bene coi loro dischi sgarrupati ma immancabilmente belli e godibili, da 'Cool Death' a 'Master's Bedroom', da 'Hounds of Foggy Notion' ad 'Help', lavori che nel volgere di pochi anni avevano permesso loro di farsi apprezzare grazie ad uno stile peculiare e agilmente riconoscibile, sintesi perfetta del garage pidocchioso portato in dote dal frontman e di quelle svenevolezze vocali così demodé che sono l'inconfondibile marchio di fabbrica della sua controparte femminile, la splendida Brigid Dawson. Il problema per 'Warm Slime', la ragione di questa parziale inversione di tendenza, risiede proprio nella rottura di tale equilibrio. Il noise-punk pestone ed allergico all'alta fedeltà tracima, assieme a quell'approssimazione di forma che è sempre stata nelle corde di Dwyer e che – va detto – di per sé non è affatto un male. Certo senza i coretti alieni della Dawson, tutto il gioco finisce col mostrare un po' la corda. La naturale simpatia per una band così fuori dai giochi e dalle logiche commerciali resta intatta, anzi. Il fatto di presentarsi agli ascoltatori con un brano d'apertura a tal punto spavaldo ed arrembante, tredici minuti e mezzo di schiumanti marosi elettrici, è una scelta kamikaze che merita comunque rispetto. I Thee Oh Sees restano una realtà di rara purezza e questo è un titolo di merito che nessuno potrà negargli. Sono anche uno di quei gruppi che creano ottimo pop per vie traverse, travestendolo ed imbruttendolo grazie ad un sano e coerente terrorismo sonoro, ed anche questo è uno dei dettagli che li rendono così irresistibili. Però, insomma, li preferivo quando di autentiche bocche da fuoco ne avevano due, non una soltanto. La speranza a questo punto, archiviato 'Warm Slime' tra i prescindibili della loro già ampia discografia, è che l'imminente 'Castlemania' ritrovi col delirante vetriolo di Dwyer anche la magia del tocco femminile. La copertina e quel teaser, "Sunshine pop album", sinceramente promettono bene.

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