My friend Blue he runs the show…

        

E così alla fine alle esigenze di sceneggiatura ci si è piegato, Scott Weiland. Da quanti anni ci giravamo intorno, parlando del personaggio? “Questo è un altro che se ne andrà prima del tempo”, era quasi un mantra negli anni d’oro del grunge, per noi ragazzini inesorabilmente accattivati dall’alone maledetto di quel plotone di rockstar sul marcio andante, unica generazione a tenere testa a quella mitologica di fine anni sessanta. Col tempo l’adagio aveva perso vigore, con Scotty caduto fisiologicamente in disgrazia, un dimenticatoio in parte meritato tra colpi di testa e rinculi espressivi, in parte fatto scontare come una pena per molti versi ingiusta, appioppatagli in qualità di inarrivabile capro espiatorio. Di recente avevo affrontato il suo ultimo album solista, la nemmeno così infame opera prima intestata ai Wildabouts, e in quell’occasione avevo scritto di lui non senza affetto come di un sopravvissuto, lasciando intendere come la sua musica fosse ormai ben poco in sintonia con il presente. E’ facile immaginare che se ne fosse accorto anche lui, prima degli altri, ma in fondo lo aveva dichiarato anche nelle ultime interviste: la voglia ridotta al lumicino, continuava a salire sul palco solo per tirare a campare, pagare le bollette, il mantenimento dei figli e gli alimenti alle ex mogli. Un tramonto speso in piccoli club di periferia – lontanissima l’eco delle arene e dei sedici milioni di copie vendute con i primi due album degli Stone Temple Pilots – che comprensibilmente gli stava proprio stretto. La causa della morte non è ancora stata rivelata, i comunicati si limitano a un laconico “decesso durante il sonno”, ma ha forse ragione chi scrive che i bookmakers la sua overdose non la quotano nemmeno.

Sarebbe il finale più triste ma anche il più scontato, e nonostante questo mi auguro si tralascino i moralismi di rito: sul suo conto se ne sono sempre dispensati ben oltre la soglia tollerabile, con tutto che Weiland non si dannava certo l’anima per apparire simpatico a forza, e in fondo poi cosa conta? Personalmente mi sento affranto, come ogni volta che se ne va un artista che in qualche modo mi ha fatto sognare. Con lui è capitato tantissimo tempo fa. Ai tempi di “Purple”, il fortunato sophomore dei Pilots uscito col cadavere di Cobain ancora caldo, nel 1994. Tre anni dopo mi sarei tinto i capelli di rosso fuoco, perché quella era la sua linea all’epoca di “Interstate Love Song”, “Vasoline” e “Lounge Fly” e, si sa, gli adolescenti sono “leggerini” quando si parla di corredi estetici. La verità è che Scott aveva tutto per piacere ai più giovani: era obiettivamente un bel tipo, il physique du role rispettava tutte le direttive, aura maudit e storiacce di droga nel suo curriculum occupavano regolarmente le posizioni più alte assieme a una voce tra le più belle di quegli anni, persino più versatile di tante altre meglio accreditate. Un po’ orco à la Layne Staley, un po’ rocker a tutto tondo, talvolta crooner raffinato con in serbo qualche squisitezza soul-retrò. Per non farsi mancare nulla, poteva vantare anche uno stuolo infinito di detrattori, i tanti che non avevano avuto alcuna remora a liquidare il gruppo come una colossale presa per i fondelli. In quel periodo gli attacchi che la critica snob riversava sui malcapitati californiani, rei di avere cavalcato l’onda grunge per bieco opportunismo – loro che erano di San Diego e non di Seattle – nemmeno si contavano. Di certo la band resta tra le più malignamente denigrate di sempre, relegata spesso e volentieri nell’angolo come una congrega di lebbrosi, e dove non arrivarono gli imbrattacarte di professione fu qualche collega burlone a eccedere nello sberleffo (come dimenticare i Pavement di “Range Life”?).

        

Ri-ascoltate oggi, canzoni come “Plush”, “Meatplow”, “Silver Gun Superman” o “Seven Caged Tigers”, tra le altre, fanno sentire pienamente a posto con la propria coscienza chi, come il sottoscritto, non ha mai prestato troppa attenzione alle malevolenze di cui sopra. Fanno ancora una porca figura tutte quante, specie se ci si sofferma a considerare lo stato nauseabondo in cui versa il rock mainstream da un buon decennio e mezzo. Meno rivoluzionari dei Nirvana, meno dannati degli Alice In Chains, meno belli dei Pearl Jam, meno cazzoni dei Mudhoney, meno tenebrosi degli Screaming Trees e meno metallici dei Soundgarden. Meno tutto quello che volete, o forse semplicemente più adatti alle classifiche di vendita, però nel mucchio gli Stone Temple Pilots ci stavano eccome, a pieno diritto. Grazie ai fratelli DeLeo, autori validissimi, ma soprattutto grazie a un frontman con i fiocchi, vocazione da performer vero e sublime faccia di bronzo, quale era Scott. Che è stato tanti interpreti in uno, trasformista all’acqua di rose (ma efficace) fuori e sensibilità multiprospettica dentro: dalla cattiveria (simulata, più che altro) dell’hard-rock al granito di “Core”, al populismo ruffianotto e irresistibile di “Purple”, dalle digressioni kitsch-pop di certi brani del controverso (sottovalutato, tanto per cambiare) “Tiny Music… Songs For The Vatican Gift Shop” alle inattese gentilezze paterne di “Shangri-la Dee Da”, passando per gli eccessi un po’ tamarri della parentesi Velvet Revolver (la matrice per le ultime cose dentro e fuori i Pilots, purtroppo) ma anche per gli squinternati slanci sperimentali di un album sfortunatissimo come l’esordio solista “12 Bar Blues”, fascinoso, avanguardista e accattone, con più di un passaggio indimenticabile (anche per merito dei produttori Daniel Lanois e Blair Lamb).

Dal vivo l’avevo intercettato solo cinque anni fa all’Alcatraz, nel tour della reunion della sua band principe: appesantito in modo preoccupante, quasi prossimo all’ennesimo licenziamento della carriera e, prevedibilmente, drogato come un cavallo. Sul filo della nostalgia canaglia, fu comunque un live intenso e divertente, mendace eppure languido nella promessa di una rinascita che non sarebbe mai venuta. In fondo ha avuto moltissimo Weiland, e tutto o quasi ha dissipato per debolezza e per scriteriata aderenza ai canoni di genere, una personale via crucis che lui ha sempre portato avanti con ostinato masochismo. A differenza di tante altre anime del medesimo circo, tormentate quanto lui se non di più, questo spreco evidente non gli è però mai stato perdonato. L’accusa di cinismo e falsità, gratuita ma immancabile nel suo caso, ha con ogni probabilità fatto lievitare un conto di per sé già salatissimo. Qualcuno, c’è da starne certi, gli avrà fatto una colpa anche per non essersi immolato ai bei tempi, per aver disatteso i pronostici infausti perché in fondo a quella pellaccia ci teneva. Beh, è oltremodo amaro da rilevare, ma l’insostenibile crepuscolo in cui sentiva d’essersi cacciato non rappresenta certo la più agevole delle vie di uscita, e la sofferenza patita nel declino lento e inesorabile, lontano dai riflettori più abbaglianti, merita comunque rispetto. Dettagli che contano poco, ora che se ne è andato anche lui. Per colpa della compagna fetente di tutta una vita o, chissà, dormendo davvero il sonno dei giusti, quasi si trattasse di un pietoso risarcimento per i troppi travagli, per le infamie reiterate e per il non essersi rivelato poi così caro agli dei: quarantotto anni, età stronzissima per congedarsi. Troppo vecchio per morire giovane, troppo giovane per morire vecchio.

Fai buon viaggio Scotty, ci mancherai.

1 Comment