Acid Mothers Temple @ Spazio211
20/05/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Per la sempre ricchissima serie dei concerti destinati a rimanere sepolti nell'oblio, non posso proprio evitare di dedicare il giusto spazio a quello che, per me e le mie povere orecchie, è stato senza dubbio uno degli avvenimenti di punta (musicalmente) della passata stagione, nonché uno dei live più bizzarri ed insieme devastanti di sempre. Acid Mothers Temple. A chi li conosce il nome dice già tutto, mentre per gli altri potrebbe essere illuminante un report anche sgalfio come quello che ho intenzione di tirar giù senza particolare cura qui in pausa pranzo, a corredo della galleria fotografica relativa a quella serata a Spazio, il maggio scorso. Un report può essere sufficiente, l'ho sperimentato io stesso. Quando questi deliranti freak giapponesi vennero annunciati nel programma della primavera passata mi segnai il nome da parte, pronto ad approfondire come sempre quando i riferimenti di massima mi stuzzicano. E' quel che ho provato a fare anche con la band di Nagoya quindi, ma la frenata è stata repentina. Una terrificante discografia di 51 album pubblicati in poco più di dieci anni, senza contare EP, split, collaborazioni, amenità soliste e collateralità assortite, imprevisti e probabilità. E nello specifico, brani mai più brevi di sei minuti e con una media tranquillamente superiore ai quindici, spesso e volentieri con autentiche orge kitsch capaci di sposare con strafottenza il prog più ruspante, i droni, le canzonette pop, i canti gregoriani, i canti tibetani, Morricone, l'hard rock, il kraut e le ghironde occitane, magari schiantando tutto nello stesso pezzo. Un'assurdità insomma, inutile anche solo provarci per poi essere clamorosamente smentiti da qualcosa di completamente diverso, con buona pace delle pur pallide attese. E così, per una volta, ho accettato di buon grado di presentarmi quella sera senza aver ascoltato un solo minuto della musica di questi coltissimi pirati del suono nipponici, completamente vergine in tal senso, un po' come mi era capitato di fare diversi anni fa con degli esordienti Offlaga Disco Pax. Ecco, se in quel caso la mia sorpresa fu totale, considerando che non avevo alcuna informazione su di loro e venni trascinato a vederli senza preventivo avvertimento, per gli Acid Mothers Temple la "rivelazione" è stata mitigata (ma non annullata, no davvero) dalla lettura del live report di una loro esibizione torinese (al caffé Procope, niente meno!) di cinque anni prima, scovato su internet forse proprio il giorno del concerto ed assaporato con una certa incredulità da parte mia. Col senno di poi, le parole di chi in città mi ha preceduto in questo tipo di esperienza estrema (sì, diciamolo pure) si sono rivelate quanto di più fedele a ciò cui ho avuto la fortuna/sventura di assistere dalla prima fila del locale di via Cigna, un piede sul pavimento ed uno sull'unico gradino che porta al palco. Per questo motivo ho deciso di postare anche il link di quello stesso pezzo, cui si accede direttamente dalla seconda immagine in alto.

 

L'onore di aprire una serata che mai avrei immaginato così lunga è toccato ad una di quelle band locali più conosciute all'estero che non in città o in Italia: non i Disco Drive questa volta, né gli onnipresenti Larsen, bensì gli Stearica, gruppo di chiara matrice Shellac che proprio con gli Acid Mothers Temple ha realizzato il suo lavoro più recente, accompagnando i moderni vandali del Sol Levante nelle ultime due scorribande in giro per il mondo (oriente compreso). Quasi inevitabile allora che le nostre misconosciute glorie locali indossassero per l'occasione la maglietta ufficiale della ben più nota formazione nipponica, dove quel "nota" va logicamente contestualizzato nell'ambito delle nicchie indipendenti di musica d'avanguardia. Della loro prova niente da segnalare tra le infamie o tra le lodi, eccetto la performance davvero straordinaria del batterista Davide Compagnoni, impressionante per velocità e potenza. Temevo in una potenza di fuoco anche maggiore con gli headliner, e invece loro si sono presentati sul palco con pochi mezzi malridotti ed intenzioni assai lontane dal furibondo ma prevedibile post-core casereccio. Davanti a me Hiroshi Higashi, specie di santone dai lunghi capelli bianchi, armato di chitarra Fender gialla apparentemente uscita da un ciclopico pacchetto di patatine e di un più familiare sintetizzatore Roland, chiaramente il suo gingillo preferito. Sulla destra un chitarrista robusto e non meno pittoresco, Makoto Kawabata, con spaventosa criniera corvina e riccioluta, elettrica rabberciata alla meno peggio e pantaloni neri attillati. Molto meno suggestivo l'attempato batterista, classico contabile al soldo degli Yakuza nei film di Kitano, mentre l'annunciato bassista folle è stato rimpiazzato da un non meglio identificato belga, con aria da neo-pensionato e basso a sei corde. Questo il cast, ma il concerto? Beh, per quello mi riduco veramente a quattro parole in croce in coda alla recensione: non saprei bene come descriverlo se non limitandomi a dire che si è trattato di una sorta di lunghissima ed avvolgente trance. Quattro pezzi in tutto, ciascuno dei quali di oltre mezzora, dall'andatura lenta e stratificata, insinuante, con scartamenti e variazioni esigui in un magma sonoro veramente prossimo alla mia personale idea di mantra. Ridotte al minimo le parti cantate – si fa per dire – affidate alla vocina di Higashi, il guru della reiterazione serafica, dello sfinimento gentile, del sibilare dondolante ed ininterrotto. Potrà sembrare un pacco clamoroso messo in questi termini, ed il fatto che chi mi ha accompagnato quella sera si sia presto assopito su uno dei divanetti laterali dello Spazio parrebbe confermarlo. E invece…, invece no, non per me almeno. Oltre due ore di fantasmagorica e sibilante ipnosi space mi hanno positivamente sconvolto, quietandomi dopo i tuoni dell'artiglieria pesante dei nostri Stearica. Seguire il flusso sinuoso delle parti elettroniche e i ricami apparentemente controllati delle chitarre è stato molto più divertente di quanto possiate immaginare, un po' come fotografare questi movimentati pazzoidi con gli occhi a mandorla su quel palco. L'incantesimo veniva spezzato solo nelle prolungate code dei singoli brani, aperte finalmente alle accelerazioni elettriche della pattuglia, alle impennate del synth cinguettante e alle atroci lacerazioni di quelle chitarre così improbabili. Pensavo che il leader fosse Higashi ma proprio questi spettacolari sviluppi acidi mi hanno convinto – cosa poi verificata in rete – che la vera guida del gruppo è Kawabata. Proprio lui che, in principio controllatissimo, tendeva a rivoltare i brani in autentiche battaglie con la sua chitarra: percossa, fatta roteare, schiantata, suonata sulla testa o a mo' di violino in una schizofrenica progressione d'enfasi teatrale. Space rock trasmutato in shoegaze convertito in post-rock dei più virulenti, questa la sintesi. La cosa più assurda in una serata tanto fuori criterio da risultare entusiasmante e divertentissima? La rottura dell'illusione. Immerso in quello stato di inspiegabile semi-incoscienza, in quella penetrante bagna sonora, tornavo in me di tanto in tanto pensando "Che cacchio scriveva quel tizio? Orecchie al collasso? Le mie orecchie vanno da Dio", e giù di nuovo in apnea per un'altra decina di minuti. Questa sensazione è durata tutto il concerto, anche oltre. Quando mi hanno richiamato, alla fine, mi sono reso conto che no, non era proprio tutto a posto. Nessun dolore, solo un oceano di ovatta ed io in balia di un macroscopico effetto collaterale, costretto poi a leggere il labiale a chiunque per un paio di lunghe giornate.  

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