Leopardo o medusa?

       

Comincia a diventare davvero difficoltoso riuscire ad orientarsi nella selva di pubblicazioni legate alla ditta Skygreen Leopards. Se l’impresa pare disperata parlando di Glenn Donaldson, chitarrista e cantante con all’attivo una quarantina di album in neanche tre lustri (con una quindicina di progetti diversi, tra cui il supergruppo Badgerlore con Ben Chasny e Grouper), complicata per giunta dalle copiose uscite del gruppo principe, un po’ più agevole dovrebbe essere la catalogazione dei lavori dell’altra metà della band di San Francisco, quel Donovan Quinn che ha sin qui messo a referto due dischi sotto il misterioso alias Verdure, uno a proprio nome ed altri tre con l’aggiunta dell’etichetta “& The 13th Month”. L’ultimo del lotto è questo ‘Honky Tonk Medusa’, arrivato in sordina a febbraio e passato pressoché inosservato (per dire, neanche un nuovo video su youtube da postarvi in fondo), anche più del pregevole album eponimo e del successivo ‘Your Wicked Man’. Non farà certo la storia della musica questo ennesimo oscuro songwriter yankee, e nelle sue corde non ci sono mai stati capolavori. Se lo stile assembla in maniera personale idee già strametabolizzate, la voce è di quelle che possono lasciare seriamente perplessi, nella sua pedissequa devozione verso il Dylan più lagnoso e disimpegnato. Non sembra proprio una grande pubblicità quella racchiusa in queste stringate righe, ed assicuro che nemmeno intende esserlo. A difesa di Quinn mi tocca però spezzare qualche lancia, sostenendo che di un artista abbastanza genuino si tratta, di quelli che poco si curano dell’apparenza preferendo seguire il proprio sentiero capiti quel che capiti. Artista borderline, è bene ribadirlo, di quelli che chiedono pazienza e non è detto la ripaghino. ‘Honky Tonk Medusa’ non aggiunge nulla a quanto detto dai predecessori e soprattutto dai migliori Skygreen Leopards (‘Jehovah Surrender’ e ‘Disciples of California’, per quanto mi riguarda), insistendo su uno standard di musica delle radici a metà strada tra folk e country senza essere né l’uno né l’altro, forse anche per merito delle sottili contaminazioni (lo-fi, psichedelia assai vaga) che la incrociano senza soluzione di continuità.

Il cantautorato  molle ed indolente di Quinn si muove dunque su binari sempre molto classici, senza guizzi da virtuoso ma con la regolarità e la disinvoltura di poche illuminazioni anche intriganti. L’indole introversa ed amabilmente sfuggente, il controllo, l’essenzialità, l’aderenza ai propri cliché prediletti, trovano conforto in un’impronta sonora tra Saddle Creek e Jagjaguwar sempre parca negli arrangiamenti, efficace per la resa emotiva, scarna ma non tetra ed a suo modo indimenticabile. Per quanto sia proprio tutto fuorché pirotecnico, Donovan Quinn dimostra di conoscere bene i trucchi del bravo cantautore, quello attento a svelare la meraviglia nascosta nell’ordinario, e riesce anche nell’intento di rendere appetibilmente vario un lavoro dagli ingredienti altrimenti limitati. Il fantasma di Mr. Zimmermann torna a far capolino solo nel voce e chitarra d’altri tempi relegato alla traccia numero cinque, ‘Shadow On the Stone’, dopo aver rasentato il plagio soprattutto nel primo album condiviso con il “tredicesimo mese”. Questo consente di lasciare un po’ più spazio alle sorprese, a cominciare dagli echi di Twin Peaks che introducono la ballad narcotica ‘My Wife’, degna di un Simon Joyner minimalista, per proseguire con il numero à la Conor Oberst (la voce che si fa largo nel chiacchiericcio insistente prima di un fraseggio di chitarra ripulita) ed il taglio amatoriale, finto dozzinale, docilmente stentato e rumoristico (una bassa fedeltà gracchiante e bizzosa) che segna a fondo la registrazione in ‘Night Shift’ e che, al di là del vezzo formale, proprio non dispiace. Tutto il resto è riempitivo. Pure valida arte del frammento, sabotata con elettronica povera o intrisa di dolente romanticismo, ma pur sempre fuffa. Non l’avevo forse detto all’inizio di non aspettarvi chissà quale capolavoro?

    

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