Out Into the Snow

 

Cantautorato nella più piena accezione del termine. Questa la musica di Simon Joyner, uno dei più misconosciuti songwriter emersi negli Stati Uniti negli ultimi anni. Venti per l'esattezza, visto che questo cantastorie di Omaha non è proprio artista di primo pelo. La sua discografia, per dire, è già abbastanza chilometrica, ha pubblicato anche un paio di raccolte antologiche pur essendo poco noto persino in ambito alternativo e questo 'Out Into The Snow' dovrebbe essere il suo dodicesimo album di materiale inedito, esclusi mini, EP e collaborazioni varie. Mi ha raggiunto in una busta assieme ad altri dischetti – quelli sì, di poco conto – e mi ha subito colpito per la bella foto seppiata in copertina. Cris questi dischi "impegnativi", diciamo così, me li sbolognava spesso ed io li prendevo volentieri, devo ammettere. Tra le cose che mi ha riservato non c'é mai stato un CD classificabile come brutto, e il disco in questione è anzi tra i migliori. Certo non è proprio musica per tutti i gusti e non è proprio originalissimo come materiale, anche se personale è la miscela dei tanti grandi autori che ne hanno influenzato la scrittura: la santa triade Dylan – Cohen – Young ma anche altri mostri sacri come il Kris Kristofferson ed il Richard Thompson degli inizi. Canzoni tranquille, asciutte, essenziali, ma con l'inevitabile tendenza alle deviazioni emotive, più elettriche e nervose. Il canovaccio è questo. Non granché in anni di esasperazioni e contaminazioni pop, ma interessante come dieta rigenerante qualora si punti all'omeopatia del folk-rock senza tempo. Partito un po' come Bill Callahan dalle secche di una bassa fedeltà senza grandi margini di manovra, Joyner è approdato a questa più compiuta rivisitazione della canzone d'autore d'impronta classica, vestendo (è comunque un eufemismo) via via sempre più i propri brani ed avvalendosi con sempre meno diffidenza dell'aiuto di altri musicisti (come Alex McManus, già con Kurt Wagner nei Lambchop e nella prima band di Vic Chesnutt). Non un copista di Dylan, cui è stato da molti associato (anche da me, nella recensione: impossibile non menzionarlo tra i debiti), ma uno scrupoloso discepolo del suo verbo. Nonostante una gran quantità di belle canzoni, la fama non è mai arrivata se non per vie molto traverse. Due fantastici aneddoti raccontano infatti la marginalità con cui il successo lo ha incrociato, strada facendo: nel '94 il grande John Peel trasmise il suo nuovo album dell'epoca ('The Cowardly Traveller Pays His Toll') per intero nella propria trasmissione, cosa mai fatta sino ad allora dal celeberrimo conduttore radiofonico britannico. Joyner lo seppe però soltanto alcuni mesi dopo durante il suo tour europeo, quando cadde dalle nuvole alla ricorrente domanda in proposito dei giornalisti musicali venuti apposta per intervistarlo. Sempre in quel periodo si trovò a dividere il palco con Beck. Avendo apprezzato 'Mellow Gold', volle lasciare al biondo losangelino un nastro con alcune sue registrazioni. A sorpresa quell'anno, intervistato da Rolling Stone, Beck indicò proprio quel disco di Joyner nella propria top ten. Episodi belli da citare, anche se a Simon non ne venne nulla in termini di popolarità o pubblico. La Jagjaguwar comunque si accorse di lui e lo avrebbe poi aiutato, almeno in minima parte, ad uscire da un anonimato inglorioso ed in fondo non meritato.

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