Richard Yates

Sotto una Buona Stella _Letture

       

Era un bel po’ di tempo che non scrivevo qualcosa su Richard Yates. Lo faccio ora nel presentare l’ultimo dei suoi titoli pubblicati in Italia, “Sotto Una Buona Stella”, all’esordio assoluto in italiano nonostante si tratti del secondo romanzo del Nostro e sia vecchio quasi mezzo secolo. Evitare di ripetere quanto già detto in precedenza è impossibile, e allora lascio parlare la recensione. Giudizio arrotondato a 9.0 perché non si possono affibbiare a Yates meno di cinque stelle… 

 

Robert Prentice è un diciottenne fresco di diploma, ma non esattamente il classico giovanotto di belle speranze. Nell’imminenza di un futuro che già bussa prepotente alla sua porta non ci sono impieghi favolosi, né relazioni con fanciulle da cartolina, bensì i campi di battaglia europei del secondo conflitto mondiale ormai agli sgoccioli. Il ragazzo non sarà certo un fenomeno di maturità e consapevolezza ma non pare darsi pena del destino che incombe. In fondo, la guerra può rappresentare un’opportunità formidabile e fare di lui l’eroe che ha sempre sognato di essere, nell’ingenuità di quelle sue prospettive così limitate. E poi, a guardar bene, che cosa lascia a casa? Una famiglia che è solo sua madre Alice, donna assillante oltre ogni immaginazione, e nient’altro: beni, passioni, progetti concreti. Proprio nulla. Nemmeno la suddetta casa, in fin dei conti, visto che dai tempi lontani del divorzio dei genitori ha sempre vissuto la pena di un’esistenza girovaga attraverso gli Stati Uniti, un patetico e lento declino – dal benessere impossibile della buona società di provincia a sistemazioni sempre più umili e avvilenti – a rimorchio della donna e delle sue ambizioni ormai irricevibili.

 

Il fronte come fuga dall’infelicità e dal vuoto delle sue giornate, il fronte come riscatto definitivo. Questo sulla carta, dove non fa una piega. Ma quelle speranze così gracili non potranno che infrangersi contro il muro della realtà, nel fango del Belgio, della Francia, della Germania, per tradursi in una nuova forma di incompiutezza e smarrimento. Se non altro, però, il disincanto accumulato in pochi mesi avrà buon gioco nel mandare in pezzi quella vecchia catena, di frustrazione e dipendenza, che lo opprime dal primo giorno. Un futuro, forse, sarà ancora possibile per lui.

 

Impacciato, indifeso, invidioso delle coppiette che incontra per le strade di New York nell’ultima licenza prima di partire. E’ così che ci viene presentato (ri-presentato in realtà, essendo già apparso in uno dei racconti di “Undici Solitudini”) il mite, imbelle Bobby, primo vero alter-ego dello scrittore di Yonkers, qui al secondo romanzo (“A Special Providence” sarà pubblicato nel 1969, otto anni dopo “Revolutionary Road”). Per inquadrare Alice con la necessaria precisione, non occorre molto di più, anzi. Bastano un paio di pagine e la si è già riconosciuta senza possibilità d’errore, la madre di Yates che abita tutte le sue opere con quell’intonazione tra lo sfatto e il nevrotico, e un bicchierino di whiskey sempre a portata di mano. Una donna inerme, minuta, stanca, ansiosa di piacere e di non passare per la fallita che è. Una donna che sognava di affermarsi come artista eminente, scultrice che plasma la creta e lavora la pietra grezza, ma le cui velleità sono state piegate presto da avversità di varia natura, un matrimonio senza capo né coda, un altro legame sentimentale minato dall’inganno e la grande depressione implacabile sullo sfondo, beffardo accompagnamento al disfarsi del suo personale sogno americano.

 

Un’ “odissea isterica”, la sua, alleviata solo dall’amore e la fede incondizionati di suo figlio, quel “meraviglioso cameratismo” a lungo vagheggiato e in cui si troverà a credere solo più lei, visto che il sentimento del ragazzo piegherà piuttosto verso una “pazienza cupa e amorevole”. Nei suoi confronti Robert pare dilaniato, tra il disprezzo silenzioso per la sua ignoranza, per il suo ottuso egocentrismo e le sue bugie, e l’impossibilità di affrancarsene, di sgravarsi di una pietà che è anche e soprattutto un “cercare rifugio nella consolazione” di quelle stesse menzogne condivise.

 

Ancora una volta i personaggi di Richard Yates appaiono schiavi indimenticabili. Di se stessi, ovvero dei propri sogni impossibili, ma anche degli altri, dei loro affetti e, come se non fosse abbastanza, dell’alcool in cui affogare tutta la loro sconfinata (e altrimenti non silenziabile) amarezza. Dopo un’introduzione a mo’ di ribalta condivisa, prima della partenza di Bobby per l’Europa, ecco lo sguardo del narratore americano seguire i suoi protagonisti come in montaggio alternato, la sua lucida prospettiva realista a fare da comune denominatore: il presente di Robert, dapprima giovane zimbello dei commilitoni nel campo addestramento reclute, quindi fragile soldatino senza carattere in balia degli eventi nel teatro bellico; e i trascorsi di Alice annientata nella solitudine, illusa dalla gentilezza del nuovo compagno, Sterling Nelson, tormentata dalla garbata disapprovazione della sorella Eva, pervicace nel suo ottimismo stoico e un po’ triste.

 

Rispetto alle altre donne dei romanzi di Yates, Alice è segnata da una disperazione placida e mai davvero rovinosa. Soffre in silenzio ma non si abbatte, nonostante quel senso di abbandono ritornante, e non si piega al rancore come diverse sue omologhe in altre opere (si pensi alla straordinaria Grace di “Cold Spring Harbor”), non è incattivita da un livore allo stadio terminale.

 

In ultimo, il ritorno al fronte e a un conflitto che si conclude nella desolazione. Un compagno d’armi morto fuori scena in modo assurdo, e tutto che sembra sempre più privo di senso, nella maniera più banale possibile. Se il cameratismo si rivela nulla più che una fugace illusione, la guerra stessa non potrà essere che l’espediente per espiare colpe soltanto immaginate. Ma anche questa, nel gioco a schema libero del caso, resta una pur vana speranza. A differenza che nei film, i combattimenti non plasmano eroi, non servono a regolare conti o a dimostrare alcunché. Soprattutto, non offrono risposte che già non si conoscano. L’implicito parallelo tra i due soggetti pare, in tal senso, evidente. Bobby sui campi di battaglia è come la madre in giro per gli States, sballottata da una destinazione all’altra senza mai riuscire ad essere l’attrice della sua stessa esistenza: entrambi inadatti, entrambi fuori contesto e fuori fuoco, entrambi rassegnati a mentire a se stessi per non dover guardare in faccia la realtà e provare a cambiare le cose. Ma se Bobby alla fine riuscirà a fare quel minimo scatto, il medesimo sussulto verrà negato ad Alice, e la sua resa all’inganno sarà ineludibile.

 

Pubblicato per ultimo in Italia solo grazie all’opera meritoria di Minimum Fax, “A Special Providence” è l’ennesimo grande romanzo del narratore statunitense. Forse il meno crudele, a dispetto dei temi affrontati, di certo il più autobiografico. In alcuni frangenti (su tutti la parentesi-miraggio in cui appare il falso gentiluomo Sterling Nelson, o la patetica fissazione con cui Alice si aggrappa a quella remota istantanea di notorietà, pubblicata da una nota rivista), siamo senza dubbio dalle parti del miglior Yates.

9.0/10

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Revolutionary Road _Letture

       

Di Richard Yates ho già scritto tanto, talvolta ripetendomi, ma non posso esimermi dal tornare a farlo se è del suo più celebrato romanzo che devo parlare. “Revolutionary Road”, ok, difficile che anche i lettori della domenica non lo abbiano mai sentito nominare. Certo, diranno molti: c’è il film di Sam Mendes con Di Caprio e la Winslet. Il libro, come capita quasi sempre, è meglio e vale la pena d’esser letto anche se avete già apprezzato la sua trascrizione cinematografica. Però la distanza non è così incolmabile, ci tengo a dirlo. Forse perché l’opera di Yates non è la sua migliore, a mio modestissimo parere, forse perché la pellicola di Mendes si dimostra all’altezza, con attori in forma eccellente (lei soprattutto) anche tra i comprimari (la solita Kathy Bates, Zoe Kazan e, soprattutto, il sempre sottovalutato Michael Shannon, impeccabile nel rendere la lucida follia di John Givings). Ad ogni modo, un romanzo – uscito per la prima volta in Italia (per Garzanti) con un altro titolo, “I Non Conformisti” – che vale come paradigma dell’arte narrativa di Yates, che ha dentro tutti i topoi del suo realismo sporco, la sua disperazione silenziosa ma senza appelli. Non può che essere, per chi non conosca affatto Yates e il suo universo, la quasi inevitabile porta d’ingresso.

Lui è Frank Wheeler, impiegato trentenne (alquanto anonimo e scioperato) in una grande azienda di New York. Lei è sua moglie April, madre e casalinga, non più in fiore ma ancora discretamente carina. Nel tranquillo sobborgo residenziale di Revolutionary Hill, Connecticut, la loro vita ha tutte le carte in regola per essere definita invidiabile: una bella casa rassicurante, due figli piccoli in piena salute, la stima di tutto il vicinato e un legame di coppia che si direbbe d’acciaio. Ben poco in quest’idillio, tuttavia, corrisponde a verità. Formidabile per eloquio e piacente d’aspetto, Frank passa per essere una mente assai brillante e tende a cadere lui per primo in questo sostanziale equivoco, rivendicando a vanvera vaghe aspirazioni e un impegno intellettuale che sono pura facciata. April, al suo fianco, non coltiva certo più interessi di lui: ex allieva – “scarsamente dotata di talento” e “scarsamente animata d’entusiasmo” – di una scuola di recitazione abbandonata ai tempi della prima gravidanza e del matrimonio, cerca una patetica occasione di riscatto grazie al ruolo di protagonista che si è ritagliata nella filodrammatica locale, la Compagnia dell’Alloro, la cui prima e unica rappresentazione è però destinata a clamoroso insuccesso. Anche la convivenza dei coniugi all’interno della grande periphery newyorkese non è poi chissà quanto armoniosa.

Dietro la maschera di una coscienziosa quanto cordiale rispettabilità, si cela il generalizzato disprezzo per una comunità di “omiciattoli pieni di paura”, frequentati controvoglia più per abitudine che per altre ragioni, ma guardati con orrore come specchio di ciò in cui ci si sta rapidamente trasformando. I fantomatici “sobborghi” dove “allevare figli in un bagno di sentimentalismo”, dove i vicini Shep e Milly Campbell rappresentano la spalla ideale (nella loro mediocrità) cui sostenersi quando si sparla di chiunque altro, dove l’agente immobiliare Helen Givings non è seconda a nessuno nel patrocinare con abnegazione la causa di un American Dream già prossimo all’avvizzire, e dove il perbenismo a tutto campo suona più come una condanna che non come l’incanto cui aspirare, i bucolici “sobborghi” della prima provincia, allegri e color pastello all’ombra delle torri metropolitane, sono la gabbia per i fragili sogni e l’inatteso teatro di un dramma silenzioso ma incombente. Il vero problema dei Wheeler è che non c’è amore nella loro vita. Né per il prossimo, né per figli in fondo non voluti, né per una quotidianità soffocante, né – soprattutto – l’uno per l’altra. Il reciproco adulterio, consumato in entrambi i casi per noia, non sarà sufficiente a spezzare l’impasse con moti d’orgoglio o reazioni virtuose. Né sarà abbastanza il progetto di un definitivo trasferimento a Parigi di tutta la famiglia, coltivato dalla donna e accolto dal marito con finto entusiasmo per evitare il rischio di nuovi scontri frontali, salvo poi essere accantonato forzosamente non appena si presenti l’opportunità di una modesta ascesa sul fronte lavorativo (con l’alibi comodissimo di una nuova, indesiderata gravidanza, pronto all’uopo).

Battuta nella finale del National Book Awards 1962 dal (modesto) “The Moviegoer” di Walker Percy, l’opera prima di Richard Yates possiede già tutte le peculiarità della scrittura “entomologica” e di quel “realismo sporco” che sarebbero diventate le cifre espressive del grande romanziere di Yonkers. Tutte le tematiche a lui care – dall’implosione nervosa della famiglia ai falsi miti del sogno americano, dalla solitudine all’incomunicabilità tra individui nella società contemporanea, sono qui presenti, declinate con una lucidità nello sguardo che sorprende davvero, per un esordiente. Lo stile è già quello potente e asciutto dei lavori successivi, prodigioso il controllo, perfetta l’imperturbabilità nell’osservazione di una tragedia inevitabile, persino umoristico il taglio (solo a tratti però) ma mai incline al cinismo. Da molti “Revolutionary Road” è considerato il capolavoro di Yates, il libro per il quale il Nostro meriterà di essere ricordato. Non sono del tutto d’accordo, gli preferisco ancora i sottovalutati “Cold Spring Harbor” e “Disturbing The Peace”, ma non vi è dubbio che si tratti di un’opera eccezionale, con protagonisti semplicemente memorabili e, col senno di poi, paradigmatici. Anche senza ricorrere a sentimentalistiche forzature “a effetto”, osservati con il necessario, neutro distacco, i Wheeler diventano l’emblema di un fallimento universale.

Imprigionati in “un’enorme, oscena illusione, la grande menzogna piccolo borghese, l’idea che, una volta messa su famiglia, si debba rinunciare alla vita reale e sistemarsi”, conducono la loro esistenza in maniera “zelante, sciatta, pretenziosa” e “tutta sbagliata”. Hanno coscienza dei limiti di uno schema che detestano, ma a mancare loro è la forza di ribellarvisi, proprio come tutti i rappresentanti dell’odiato vicinato (tranne il figlio dei Givings, John, il solo a intuire la reale natura delle dinamiche all’interno della coppia e, non a caso, l’unico dei personaggi considerato pazzo a tutti gli effetti). Restano fermi ai buoni propositi (di lei), magari utopici o avventati, come ai bei discorsi (di lui), ma lo scatto positivo della dignità, dell’intelligenza, dell’amor proprio, è strozzato in partenza da quello stesso insinuante conformismo contro il quale si illudono di poter vincere. Al centro della scena, la relazione tra Frank e April: una pericolante architettura di finzioni, una partita a scacchi destinata a chiudersi con una sconfitta condivisa, un raggelante deserto di emozioni e affetto che toglie il fiato al lettore. Se qua e là la tensione pare allentarsi, non si può muovere alcuna critica al finale, eccezionale, che Yates ha confessato di aver scritto prima di tutto il resto e che rivela curiose quanto involontarie (forse) connessioni con quelli dei due più noti romanzi di John Barth, “L’Opera Galleggiante” e “La Fine della Strada”.

Per il resto non rimane che copincollare quanto già scritto a proposito dell’autore nelle critiche di altre sue opere. Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori (indimenticabile, tra gli altri, la figura di Shep) ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione. Gli interessano gli esseri umani al netto degli artifici letterari. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si rivelano sin da qui limpidissimi, mirabili, non comuni. Tutti soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. “Revolutionary Road” è l’opera di uno scrittore straordinario, quindi, nel rendere le psicologie e i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – nello svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli e insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni cinquanta. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.

[Una curiosità: per quanto (come sempre in Yates) si beva spesso e volentieri, i Wheeler sembrano quasi delle educande rispetto ai viziosi protagonisti di altri testi dell’autore. Tutto sommato fuori luogo la bottiglia di Whiskey scelta come simbolo per la copertina dell’edizione dei Minimum Classics. Forse la guida di “Francese per principianti” sarebbe stata più indicata.]

9.2/10

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Easter Parade _Letture

       

E’ da poco uscito in libreria “Sotto una Buona Stella”, prima edizione italiana del secondo romanzo di Richard Yates “A Special Providence”. Sbilanciarsi a sostenere che si tratta di un must, indipendentemente dal ritardo mostruoso (quarantacinque anni) con cui arriva nel nostro paese, pare cosa superflua. Si parla di famiglia anche in quel caso, forse perché – Yates amava ripeterlo – non c’è altro di cui scrivere. Beh, sul tema, la sua opera forse più impietosa è questo “Easter Parade”, memorabile ritratto di una madre e due figlie nel loro disfacimento totale sul filo dei decenni. La solita precisione sbalorditiva nel cogliere l’intima umanità dei personaggi, una scrittura piana in odore di verità, nessun artificio di forma o di lessico, e sullo fondo lo sgretolarsi del sogno americano in una sorta di implicito accompagnamento storiografico. Pur essendo un testo eccezionale, “Easter Parade” è forse il meno valido dei quattro romanzi che ho letto del maestro di Yonkers. Questione di gusti personali, evidentemente, e di sfumature non così cruciali, vista la qualità superiore di questa narrativa. Gli preferisco di pochissimo l’acclamato esordio “Revolutionary Road”, e considero entrambi inferiori – di quel nulla – a “Disturbo della Quiete Pubblica” e “Cold Spring Harbor”, opera-testamento di Yates (in genere poco considerata) che per il sottoscritto è un capolavoro assoluto. Mentre “Una Buona Scuola” vegeta gracilino sul mio scaffale e “Young Hearts Crying” è ancora in attesa di una traduzione italiana, resta da appurare quanto buono possa essere il suddetto “A Special Providence”: mi sa che è arrivata l’ora di andare a comprarlo. Anche a scatola chiusa, un ottimo regalo di Natale.

Sarah e Emily Grimes sono sorelle. Figlie di un matrimonio naufragato negli anni della loro infanzia, si dimostrano legatissime sin dalla più tenera età, anche se in una maniera implicita e poco avvezza agli entusiasmi, come due pacchi sballottati assieme in un faticoso, disagevole, ininterrotto trasloco. A separarle sembrerebbero esserci solo quei quattro anni di distanza, anche se le differenze caratteriali dapprima poco evidenti finiranno col prendere il sopravvento nell’effimera parentesi dei loro giorni da adolescenti. Sarah, la maggiore, indossa sin da piccola un’”espressione di innocenza fiduciosa” ed è schietta, espansiva, per quanto non proprio folgorante. Emily è al contrario molto più chiusa, riservata e giudiziosa, non parla mai a sproposito e ha la tendenza a entrare in punta di piedi nei discorsi degli adulti solo per puntualizzare in modo anche caustico. Il rapporto tra le due vive di sentimenti squilibrati: Sarah è bonaria ma non troppo presente mentre Emily è divisa tra un affetto intenso, che sconfina non di rado nella gelosia, e l’invidia, specie quando la più grande inizierà a poter vantare qualche successo con i ragazzi. Il padre, Walter Grimes, è un modesto correttore di bozze nella redazione di un quotidiano newyorkese, il Sun, che nemmeno apprezza in quanto troppo conservatore; la madre Esther, ribattezzata Pookie, è invece una donna ossessionata dal contegno e dalla finezza idealizzati dei ceti più abbienti. E’ lei che, dopo la separazione, scandisce l’infanzia delle figlie trascinandole con sé in giro per il New Jersey, nell’inseguimento a uno stile di vita da ostentare, a un benessere regolarmente al di sopra delle sue possibilità e a sogni d’indipendenza destinati a tramontare presto e miseramente.

Dopo una serie innumerevole di trasferimenti a rimorchio della genitrice, con la sola costante dell’impossibilità di un radicamento profondo, umano ed emotivo, le tre fanno ritorno a New York e si stabiliscono in un vecchio appartamento “elegante e ammuffito”, simbolo quanto mai eclatante delle aspirazioni decadenti della donna. Gli anni trascorrono rapidi, senza che Yates l’illusionista porti il lettore a coglierne la misura, o il peso. Quando Sarah si sposa dopo un breve fidanzamento, periodo immortalato nel testo alla stregua di un crocevia per grandi opportunità che non saranno colte (emblematica l’istantanea dell’intensa quanto sfuggente felicità per la nuova coppia, perfetta nel suo fragilissimo apice durante una parata pasquale, citata più e più volte in seguito, con malcelato rammarico), il romanzo rivolge buona parte delle sue attenzioni su Pookie e soprattutto sulla figlia minore, assumendo sempre più i contorni di una parabola amara sulla solitudine: il loro telefono non squilla mai perché nessuno può “avere voglia di telefonare a una divorziata di mezza età con i denti marci, o a una ragazza magra e bruttina”, sensibile e poca apprezzata, che è un fenomeno nel piangersi addosso ma non è in grado di versare una sola lacrima per la morte del padre. Se Emily si impone così come l’oggetto prediletto di questa nuova indagine verista di Richard Yates, la documentazione riesce addirittura trasparente quando si tratta di mettere in scena la patetica Pookie, personaggio profondamente autobiografico (un calco della madre dell’autore, Dookie, quasi un archetipo che il grande scrittore di Yonkers avrebbe riproposto in modo impietoso nelle sue ultime opere, si pensi alla stupefacente Gloria Drake di “Cold Spring Harbor”), incosciente in fondo della propria stessa disperazione e del tutto refrattario a ogni tentativo di cambiamento dettato dall’esterno, orientato quindi alla caduta con sublime aderenza ai canoni del tragico.

Seguono gli anni della formazione universitaria. “Vivrai nel mondo delle idee per quattro anni prima di dover cominciare a preoccuparti di banalità come la realtà quotidiana”, profetizza Walter Grimes alla figlia minore, venendo al corrente della borsa di studio vinta dalla ragazza. Emily però in quella stessa banalità è già immersa tutt’intera, la registra nel suo piccolo mondo e non è in grado di venirne a capo o prenderla per le redini nonostante un’intelligenza per nulla comune, se anche la perdita della verginità si riduce per lei a uno squallido teatrino con il più insignificante dei figuranti. Con la sorella intenta a sfornare tre maschietti in appena tre anni, Emily appare indirizzata su ben altri binari, persa nel gioco di ruolo dei veri intellettuali tra “egocentrismi al cubo” e un solo, esasperante, paradosso: essere seri, ma “dando a vedere che non si prenda mai nulla sul serio”. Far pratica di disincanto, per lei già così “matura”, non sembra un’impresa chissà quanto proibitiva. E’ l’apprendistato perfetto alle (dis)avventure sentimentali che seguiranno a questo punto, senza soluzioni di continuità: dalla vicenda passionale che la vedrà legata a un marinaio bisessuale a quella con il giovane docente di filosofia Andrew Crawford, irascibile e iper-complessato, chiusa con una fallimentare esperienza matrimoniale della durata di un batter d’ali. E poi ancora la lunga relazione con un poeta al tramonto, il trasferimento nel Midwest, il senso di vuoto e di insoddisfazione crescenti, e quel riscatto rispetto alle miserie delle altre donne della famiglia – in lei, da sempre assai più promettente – negato poco per volta ma inesorabilmente.

La terza e ultima parte del romanzo è una sorta di lenta elegia del disfacimento. Che colpisce in prima battuta la più vulnerabile Sarah, annientata dall’alcool, dalla depressione e forse da un marito troppo violento; quindi la stessa Emily, che dopo esser passata da una relazione all’altra sempre nei panni del timoniere inizia a perdere tutto indipendentemente dalla sua volontà, che si tratti di un rapporto che sembrava davvero solido o dell’impiego, sempre più carico di umiliazioni, in un’agenzia pubblicitaria capitanata da un’altra donna non proprio serena. Assistiamo così al suo lento sfiorire, al sui intristirsi nella solitudine mentre gli anni scorrono implacabili e lei scivola sempre un po’ più fuori posto, imprigionata dal peso dei ricordi e annientata dalla consapevolezza di non aver compreso – oltre che realizzato – nulla in tutta la sua vita. Come il John C. Wilder di “Disturbo della Quiete Pubblica”, sembrerebbe in grado di poter dire la sua, vorrebbe trovare a tutti i costi l’ordine dal caos ma alla fine è travolta dai propri limiti e deve arrendersi alla follia. Con Emily va però a farsi benedire anche lo sfavillio beffardo dell’American Dream, un miraggio che per le figurine affogate nel grande scenario della metropoli in trasformazione non ha saputo dare concretezza ai sogni e alle opportunità di cambiamento e ha reso tutti più poveri, più soli e infelici, nonostante il moltiplicarsi di feste o altre occasioni di colorata socialità.

Detto delle donne, protagoniste assolute di “Easter Parade”, resta da rendere conto di come gli uomini siano ritratti nel romanzo con crudezza a dir poco impietosa: cosi gli amanti della più giovane delle Grimes, egocentrici sino al parossismo, immaturi, inefficaci nell’amore come sul lavoro o in qualsiasi altra attività, e disperatamente bisognosi di un sostegno incondizionato che alimenti la loro irritante passività; così il marito di Sarah, un Lawrence Olivier dei poveri, esponente di una buona borghesia solo sulla carta e in realtà zotico razzista, senza ideali né cultura. Le relazioni di coppia, in questo quadro sconfortante, non sono fatte per durare: fa eccezione giusto il matrimonio della sorella maggiore, reso solido per paradosso proprio dalla connaturata superficialità dei suoi interpreti, dalla vacuità dei loro argomenti e dall’esile natura della loro intesa acritica, trasparente, ordinaria, oltreché dalla sopportazione silenziosa di tanti anni di violenze domestiche.

Per il resto non rimane che copincollare quanto già scritto a proposito dell’autore nelle critiche di altre sue opere. Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione (anche se per Emily questo accade solo nelle battute conclusive). Gli interessano gli esseri umani al netto degli artifici letterari. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si confermano ancora una volta limpidissimi, mirabili, non comuni. Tutti soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. sulla dipendenza irriducibile dalle proprie e dalle altrui debolezze, sul bagaglio di aspirazioni e buoni propositi puntualmente disattesi e destinati a languire in una secca di rancore strisciante e sostanziale impotenza. Anche “Easter Parade” è l’opera di uno scrittore straordinario, quindi, nel rendere le psicologie ed i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – nello svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli ed insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni ’40, ’50 o ‘60. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.

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Cold Spring Harbor  _Letture

      

Riecco Yates. L’avevo lasciato nel baratro di amarezza e follia di John Wilder in ‘Disturbo della quiete pubblica’ e lo ritrovo nei sogni infranti della desolata provincia americana di ‘Cold Spring Harbor’, suo ultimo lavoro. Avevo dubitato che quel libro, da me definito all’epoca “eccezionale” senza esitazioni, fosse davvero la sua opera peggiore, come in tanti sostengono: beh, dopo aver aggiunto una spunta all’elenco dei suoi romanzi, posso affermare se non altro che questo secondo titolo è, possibilmente, addirittura “un po’ più eccezionale” di quello. E’ scritto con una fermezza raggelante, con onestà, è una fetta di vita vera. Non soltanto perché si tratta dell’opera più autobiografica dello scrittore di Yonkers, ma proprio perché i personaggi in scena sono terribilmente autentici come i loro drammi senza clamore, come il silenzio delle loro passioni e della loro frustrazione. E’ impressionante Richard Yates, erano anni che non mi imbattevo in un romanziere capace di farmi divorare un libro in due giorni. Di sicuro questo non capitava in casi in cui la materia narrata avesse una connotazione tanto realistica e deprimente, visto che in genere è la fuga dalla realtà a porsi come proposta allettante, non il contrario. Secondo cinque stelle Anobii su due, quindi, per l’autore di ‘Revolutionary Road’. Media impeccabile che immagino sarà confermata anche dopo la lettura del suo romanzo più noto, trovato qualche settimana fa intonso in un mercatino dell’usato ad un euro e cinquanta, edizione Garzanti del ’66 ancora con il primo titolo italiano, ‘I non conformisti’. Finisco i racconti di Carver, leggo un po’ di Buzzati e poi via, mi ci dedico.

A Cold Spring Harbor, cittadina residenziale di Long Island e rispettabile buco nel bel mezzo del nulla, il matrimonio di Evan e Rachel segna l’ incrociarsi dei destini di due famiglie. Da una parte gli Shepard: uno sposo privo di grandi passioni e che nemmeno un precedente matrimonio (con paternità) aveva saputo far maturare, suo padre Charles, militare andato in pensione prima del tempo per accudire la moglie, e proprio quest’ultima, Grace, sprofondata da anni in un baratro di alcolismo, depressione e disagio mentale. Dall’altra i Drake: il padre Curtis, in perenne latitanza, la madre Gloria, egocentrica querula, squilibrata e con troppi vizi in curriculum (fumo, superalcolici, nomadismo compulsivo), il figlio Phil, da tutti trattato alla stregua di un bambino ma desideroso di emanciparsi il prima possibile, ed appunto la novella sposa, una ragazza assennata quanto conformista e succube dell’ingombrante genitrice.
Il settimo ed ultimo romanzo di Richard Yates è poco più che uno spaccato. L’azione è ridotta all’essenziale, non succede nulla di particolarmente eclatante ed anche la chiusura lascia inalterate le vicende dei protagonisti. Messo in questi termini potrebbe sembrare un semplice ritratto corale privo di particolare interesse, ma la realtà è che si tratta dell’ennesimo capolavoro di un autore ancora incredibilmente poco conosciuto, almeno dalle nostre parti. Poca azione, si diceva: non certo un problema per uno scrittore realmente straordinario nel rendere le psicologie ed i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – più che la pirotecnia di una fabula forzatamente avvincente. A Yates interessavano gli esseri umani al netto degli artifici letterari, la famiglia come teatro di piccole quotidiane miserie, ed in tal senso ha ragione chi ha parlato di ‘Cold Spring Harbor’ come di una polveriera di sentimenti inesplosi. A dominare la lettura e renderla un’esperienza così impetuosa è la tensione invisibile ma latente di cui le oltre duecento pagine sono impregnate.
Lo sguardo di Yates è rivolto come una macchina da presa del nostro Neorealismo ad una ristretta galleria di anime periferiche, condannate per loro natura ad una desolante e quasi commovente immobilità. Tutti i personaggi (tranne forse Mary, la prima moglie di Evan) soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. Con la precisione di un entomologo l’autore di ‘Revolutionary Road’ si sofferma sull’insulsa normalità dei Drake e degli Shepard ma anche delle figurine secondarie, sulla dipendenza irriducibile dalle proprie e dalle altrui debolezze, sul bagaglio di aspirazioni e buoni propositi puntualmente disattesi e destinati a languire in una secca di rancore strisciante e sostanziale impotenza.
Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si confermano ancora una volta limpidissimi, mirabili, non comuni. E’ questo minuzioso lavoro multiprospettico, con la sua verità non adulterata, a lasciare realmente ammirati. Il modo in cui va svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli ed insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni ’30 e ’40. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.
‘Cold Spring Harbor’ racconta la fine delle illusioni giovanili, l’incomunicabilità, il senso di vergogna e solitudine, la voglia frustrata di ascesa sociale e riscatto, con lo sfavillio del Sogno Americano ridotto mai come ora ad un miraggio beffardo, un fondale di cartone schiacciato dall’onda lunga della Grande Depressione ed ancora terribilmente lontano dai luminosi anni ’60. Il pessimismo di fondo è asciutto, mai gratuito, privo di aneliti moralistici e senza la minima scoria di cinismo. Yates non era uno scrittore sadico, tutt’altro. Sentiva il bisogno di mettere in scena e raccontare un po’ della propria infelicità, ed è forse per questo che il suo ultimo romanzo va letto in prospettiva come quello in assoluto più autobiografico. Nei panni di Phil, goffo ma vitale, non vi è altri che il Richard ragazzo: acerbo, insicuro senza una figura paterna, funestato da una madre straordinaria solo nel dispensare sensi di colpa, ma in fondo ancora in grado di scegliere con la propria testa e di smarcarsi almeno fisicamente dai demoni soffocanti di un mondo sciatto e privo di colore.
Accanto a lui, una rassegna di personaggi emblematici ed indimenticabili. La terrificante Gloria Drake in primis, fantasma della madre Dookie ed icona quasi sublime del patetico e del melodrammatico, maestra del sopra le righe in perenne affanno nella sua rincorsa impossibile ad una rispettabilità idealizzata fino alla nausea. La “donna che muore d’amore” per il consuocero Charles, uomo decoroso, paziente e armato di tanto buonsenso, ma con troppi fantasmi ingombranti nel passato e nel presente, e con più di una responsabilità nello sfacelo psichico di sua moglie Grace. Il figlio Evan incarna invece tracce del ribellismo della (imminente) gioventù bruciata ma in maniera mediocre, inconcludente, senza alcuna profondità romantica o tragica che sia, e come gli altri non riesce a suscitare simpatie nel suo veleggiare privo di rotta, né antipatie per l’adulterio o il disprezzo riservati all’impalpabile Rachel.
L’Alcool e la guerra sono presenze sottili ma costanti, quasi coprotagonisti. Il primo è la linfa che accompagna e scandisce le giornate vuote di tutte le miserabili pallide esistenze della cittadina di provincia. Bevono le due madri, una per evadere più agevolmente la realtà, l’altra per farsi coraggio e rendersi ancora più insopportabile nel suo profluvio di parole fuori luogo. Bevono gli Shepard, per dimenticare le gabbie in cui il loro arbitrio li ha reclusi. Beve Curtis Drake, che nemmeno si degna di accompagnare al treno dell’addio il figlio più giovane, e beve anche quest’ultimo – solo birra però – nelle prove generali di una vita adulta. La guerra non è da meno come pensiero ritornante. Lasciapassare per una vita finalmente diversa, patente di rispettabilità sociale o pozza dei propri più accesi rimpianti, è una realtà con la quale tutti i personaggi maschili si trovano in qualche modo a doversi misurare.
E poi c’è il finale, a suo modo memorabile. Volutamente irrisolto, lascia in sospeso ogni possibile sentenza, affidando alla vena del lettore il piacere di ritrovarvi una condanna amara e senza appelli oppure un barlume di speranza quasi fuori tempo massimo. L’eccezionalità di Yates risiede anche in questa magistrale ed umanissima ambiguità che pochi come lui hanno saputo dispensare con tanta sfacciata disinvoltura.

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Disturbing the peace      _letture

 

OK, mi tocca fare ammenda per esserci arrivato tardi. E facciamo ammenda. Come scritto con l'avvio di questa nuova rubrica, ho ricominciato solo da poco e Yates, beh, proprio non lo conoscevo. Avevo sentito parlare di lui quando uscì l'adattamento cinematografico di 'Revolutionary Road' con relativa schiera di scintillanti star hollywoodiane, ed è a quel punto che mi sono annotato il nome. Ovviamente ignoravo del tutto che Yates fosse morto da quasi vent'anni, né potevo anche soltanto immaginare i dettagli della rocambolesca vita dello scrittore di Yonkers. Ne ho letto la biografia solo dopo aver consumato, letteralmente, il romanzo in questione, trovandovi come ovvio una serie impressionante di parallelismi. Curioso come l'intesa con Yates sia stata subito perfetta, nonostante 'Disturbo della quiete pubblica' venga ancora considerato da molti il suo peggior lavoro. Non avendo letto altro di Yates non ho modo di fare confronti, ma che questo sia il peggio mi sembra quantomeno difficile da credere. Più probabile che rientri nello standard dell'autore, essendo per il sottoscritto decisamente elevato. Un romanzo che scorre fluido pur svelando un po' per volta scorie di pessimismo radicale senza valide consolazioni. Un romanzo lucidissimo, a differenza del suo protagonista, impietoso più che verso di lui nei riguardi dell'intera società americana degli anni di Kennedy. Yates obbliga il lettore a fare i conti con lo sgradevole John Wilder, ad immedesimarsi in lui riconoscendovi le proprie peggiori ossessioni, i propri sogni più biechi e le aspirazioni di ogni perdente che speri di non essere tale. In questo senso Wilder non può essere antipatico, anche se diventa insostenibile fare il tifo per un genitore e marito scriteriato come lui. Ci si aggrappa ai suoi sogni di meschino per forza di cose, forse ben sapendo che le cose non andranno comunque a finire come lui avrebbe voluto. E' forse la sua follia, proprio lei alla fine, a definire i cortocircuiti necessari a preservarci dall'immedesimazione piena, a ridestarci quasi mentre il protagonista pare cedere al sonno della ragione. Una precauzione sufficiente a lasciare tra le pagine un'angoscia che nelle intenzioni di Yates andava forse estesa a tutto il contesto e a tutta un'epoca: quella della fine delle illusioni. Un libro eccezionale.

Una "vita d'ordinaria follia" quella di John C. Wilder. Follia pura, perché tesa ad assumere i contorni di una progressiva condanna, perché germogliata inesorabile dai semi dell'autodistruzione; ed ordinaria anche, riflesso di un personaggio tetro quanto si vuole ma spaventosamente autentico, genuino nella sua irriducibile ed umanissima mediocrità.
Il romanzo di Yates, da molti considerato a torto uno dei suoi lavori minori, è tutto racchiuso nel suo straordinario protagonista: venditore di successo eternamente insoddisfatto, attore e bugiardo per indole, razionale sino al paradosso, camaleontico come un novello Zelig, opportunista e cialtrone capace però anche di grande umanità. Un borghese terra terra che sembrerebbe in grado di poter dire la sua, che vorrebbe trovare a tutti i costi l'ordine dal caos ma alla fine è travolto dai propri limiti e deve arrendersi. Yates fotografa ad un tempo gli anni del suo crepuscolo e di quello parallelo di un'America bruscamente ridestatasi dal sogno dell'era Kennedy. Lo stile è secco, incredibilmente asciutto, senza forzature teatrali, senza compiacimento, con un distacco calibrato che non esclude forti richiami autobiografici e soprattutto non giudica il suo antieroe. Un personaggio sgradevole questo Wilder, ma in fin dei conti non così antipatico da negare una qualche identificazione nei suoi confronti o la partecipazione sincera alle sue tristi vicende. Nell'alcool ha i propri demoni, quelli che annientano maschere e facciate per ripiombarlo alla fine in un baratro di gelosie, volgarità, vili meschinità ma anche umanità, in fondo, pure nella pazzia. Il colpo di genio sta in quella sorta di meccanismo meta-narrativo architettato dall'autore grazie allo stratagemma del film sulla prima esperienza di Wilder in manicomio. In questo modo leggiamo di John non solo in cronaca diretta ma anche attraverso la proposta di un oscuro sceneggiatore chiamato a dire la sua per rendere meglio vendibile la storia di Wilder al Bellevue di New York: un abbozzo di copione che si rivelerà quanto mai profetico.
Un grande ed impietoso romanzo che può ricordare vagamente 'Corri Coniglio' di Updike: con meno dissertazioni esistenzialistiche, maggior concretezza ed una critica più puntuale alla società americana. 

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