R.E.M.

The Ghost of the Mountain

       

Questa è sorniona e curiosa, ma abbastanza divertente. Mi sa che in quell’agosto del 2013 non era uscito un emerito fico, se mi sono trovato costretto a scrivere dei Tired Pony. Di certo questa anti-recensione nemmeno mi ricordavo di averla scritta, ma leggerla ora mi ha regalato almeno un paio di sorrisi. A ben vedere è l’ennesima riflessione sui R.E.M., sulla loro parabola discendente, sull’uscire o meno con dignità. Ne è uscito un pezzo del tutto informale su due musicisti che ho sempre amato molto e che hanno deciso di percorrere strade completamente diverse per congedarsi dal successo. Certo, sarebbe stata l’occasione per parlare del sophomore del supergruppo guidato nominalmente da Gary Lightbody, uno che – volendo essere sinceri – non mi ha mai detto un cazzo. Nel caso di Monthlymusic questo è rimasto a lato, spunto più che marginale. Ma ho corretto un po’ il tiro su Ondarock, dove ho analizzato (si fa per dire) l’album un po’ più nel dettaglio. Dubito sinceramente ci siano fan dei Tired Pony interessati ad approfondire ma, nel caso, quell’altra analisi giace qui.
 

Ceci n’est pas un compte rendu

Una catasta di considerazioni lasciate fuori a prender aria, semmai.
Pensieri affettuosi invecchiati in fretta, nei lunghi attimi di confino tra una scintilla e l’altra.
E quando questa s’accende, eccomi ancora una volta lì, a soffermarmi su Bill e Peter. Occasioni molto rare ormai, un tempo frequenti quanto gli sguardi al calendario sul muro della mia camera, dove Mr. Berry e Mr. Buck trovavano spesso spazio in ampi ritratti giovanili. O quei loro passaggi invocati come benedizioni sul mangianastri, sul walkman, sullo stereo. Sul videoregistratore anche, dovunque mi riuscisse di raggiungerli.
Bill e Peter sono stati i prediletti in una compagnia di beniamini senza pari. Escluso Michael, certo, voce carsica e feticcio scapigliato al di fuori di ogni catalogo. Tra gli umani però c’erano loro, soldatini umili e compagni spassosi, destinati a restare intagliati nel cuore. Bill la scimmia, che sperimentò ogni sorta di droga non letale prima di legare con Mike e di regalare a me, almeno a me, un modello inarrivabile di sezione ritmica. E Peter il fratello maggiore, quello da cui farsi consigliare e prestare i dischi, quello che mai ti avrebbe bucato le palle, in senso letterale e figurato.
Del batterista trattengo con piacere la curiosità di un privilegio. Prescindendo dalle pallide comparsate di copertina per i tre veterani agli ultimi fuochi della carriera, è stato proprio lui il solo a venire immortalato sulla cover di un loro album. Lo sguardo malinconico incorniciato da quel suo sensazionale ponte ciliare e, appena sotto, un paio di bisonti virati in seppia. Spettri di una probabile estinzione dalla ricca sfilata della vita? Non è dato saperlo, ma gli incalliti dietrologi di “Abbey Road” e dello scalzo rimpiazzo di McCartney avrebbero anche potuto spenderci qualche riga, volendo.

Bill amava concedere il pass per concerti a una torma di dinosauri in plastica amici suoi, per esorcizzare forse le ombre del proprio declino artistico. Ma potrei sbagliarmi, e sarebbe Peter quello che stipava all’inverosimile i cocuzzoli degli amplificatori per far vibrare di passione triceratopi e stegosauri, finalmente alleati. Sia come sia, proprio nel potere allegorico dei grandi rettili risiede un ultimo nesso tra i due, oggi così distanti. A un estremo Bill, chiamatosi fuori al momento giusto per non privarsi dell’opportunità di una seconda vita. Da comune mortale. Da farmer in Farmington come recita Wikipedia, anche se si stenta a crederci. Dalla parte opposta Peter, che è rimasto invece fino all’ultimo e nemmeno avrebbe chiuso bottega, immagino, fosse dipeso da lui. Ha recitato con abnegazione persino commovente la parte del sopravvissuto, un po’ come i R.E.M. degli ultimi dieci anni e più, quelli senza Bill insomma. Più che interpretarla l’ha introiettata, quasi si trattasse di una missione. Con sincerità, virtù che nessuno si sognerebbe di contestargli, ma anche con patetica prevedibilità e occhi ogni giorno più tristi.

Non ha mai smesso i gilet scuri e le orribili camicie da cowboy del ragazzino lungagnone e magrissimo approdato ad Athens dalla California, quello che lavorava al negozio di dischi dalle parti dell’Università. Il fisico però non è stato altrettanto perseverante, integerrimo né collaborativo, e oggi Buck ha l’aria di un vecchio levriero afgano, mogio e appesantito. Nella band la sua chitarra aveva perso spazio e smalto in egual misura: non più il jingle-jangle byrdsiano che rese classico il marchio, né le sventagliate aggressive degli album più impegnati o la scorpacciata di tremolo ed e-bow lungo tutti i ’90. Al loro posto, una manierata controfigura del felice populismo acustico sfoggiato in quel paio d’anni di frastornante sovraesposizione planetaria – il segmento lampo “Out of Time” —> “Automatic For The People” – costretta a sgomitare oltretutto col pianoforte sempre più ruffiano di Mills e con il fluo pacchiano della sua scorta di sintetizzatori.

Ridimensionato in casa ma riluttante per carattere al capriccio polemico, Peter ha silenziato la sua bulimia di musicista insaziabile ricercando gratificazioni anche minime in un’operosa marginalità collaterale. Dai Minus 5 ai Venus 3 ai Baseball Project. Da Ken Stringfellow a Robyn Hitchcock a Steve Wynn. E dai Tuatara ai Tired Pony, sempre un gradino più in basso e sempre in compagnia del quasi-R.E.M. Scott McCaughey. Particolarmente crudele il Nomen omen dietro l’ultimo progetto, con un pony stremato al posto del baldanzoso purosangue di ieri. Dopo la discreta confessione della prima fatica – “Il posto da cui siamo scappati” – e lo sfizio di un esordio solista a cinquantasei anni suonati, arriva oggi un sophomore destinato a smorzare ulteriormente gli entusiasmi degli affezionati. Un prodotto gradevole, confezionato con garbo e attento alla calligrafia. Ma anche troppo timido e immacolato, laddove il tocco ruvido non passerebbe certo per una pretesa spropositata. Se perfino una canzone intitolata “Sangue” suona minata in partenza dall’anemia, fingere che sia tutto a posto varrà quasi quanto una medaglia olimpica del metallo più prezioso. Il grosso problema di questo “The Ghost of the Mountain” è che tutto sembra costruito per assecondare la levigata malinconia e quel tono da crooner al velluto del frontman belloccio, Gary Lightbody, col gruppo sacrificato alla stregua di una lussuosa appendice. Per Peter è lecito parlare di umiliazione, anche se lui non lo ammetterebbe neanche sotto tortura. Si limita a firmare qualche autografo con la Rickenbacker, prima di scomparire nel marasma biancorosso di coretti e organi vaporosi, intruppato senza fiatare come un beffardo Wally alla fiera sui Docks. Gli arpeggi leggendari della sua elettrica ridotti a semplici orpelli decorativi, un motivo bluastro sulla tappezzeria di un anonimo alberghetto in provincia.

Non me ne voglia Buck, se scelgo di usare contro di lui le parole del primo titolo in scaletta.
I don’t want you as a ghost.
Non abbiamo bisogno di surrogati, di riempitivi, di talenti sbiaditi e consumati. Non vogliamo anime dannate dalla beatitudine fasulla di sogni protratti troppo a lungo. L’album dei ricordi è già completo, ed è bellissimo. Quasi quanto un musicista famoso che si reinventi contadino.

Ma questa, in fin dei conti, non è nemmeno una recensione. Soltanto un cruccio personale senza alcuna impellenza. Lo scherzo di una memoria che si sia dimenticata di quanto può fare cilecca. O una preghiera senza destinatari nelle alte sfere, se preferite.
E finisce qui.

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R.E.M. – Una classifica

<<D’ora in poi dovremo fare a meno degli R.E.M. E al di là dell’eleganza della loro uscita di scena e del riconoscimento di quanto, tutto sommato, quest’uscita di scena potesse essere considerata addirittura opportuna, un po’ di magone, a molti di noi, rimarrà per un bel po’. Ed è già chiaro cosa non potremo evitare di fare. Staremo dietro a Buck e alle sue mille collaborazioni, ovviamente, seguiremo Mills tra i suoi tributi ai Big Star e i suoi progetti solisti, e cercheremo di capire se quel cinquantenne eccentrico e barbuto che Michael Stipe è diventato avrà la voglia di sottrarre un po’ del suo tempo alle sue fotografie e alle sue sculture e alla sua invidiabile vita da intellettuale newyorkese per farci sentire ancora quella voce che un qualche dio benevolo un giorno ha deciso chissà perché di mettergli in gola, perché la adoperasse nel modo sbalorditivo in cui è riuscito ad adoperarla in questi trent’anni passati a incidere i nostri nervi e le nostre carni cantando alcune delle canzoni più grandiose che ci sia mai capitato di ascoltare>>.

E’ passato ormai quasi un anno. Il magone citato su Ondarock da Giovanni Dozzini in questa bella recensione di ‘Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage’ , l’antologia definitiva del gruppo di Athens, rimane e rimarrà chissà per quanto. La consapevolezza che di una bella storia si sia trattato è però consolazione sufficiente. Un concetto che già avevo espresso a caldo e che ora mi sento di ribadire, nell’intro a questa personalissima (e senz’altro discutibile) classifica degli album del gruppo che spero possa essere solo la prima scritta per questo blog.

 

17. Collapse Into Now  (2011 – 4,5)

Dopo averli visti dal vivo per la quinta ed ultima volta, settembre 2008, capii che i R.E.M. erano finiti. Una percezione dettata dalla stanchezza, che mi parve evidente nonostante l’impegno realmente ammirevole, e che forse era un po’ anche mia. Avrebbe dovuto finire con quel grande tour la loro avventura, sarebbe stato perfetto. Il problema di ‘Collapse Into Now’, in fondo, sta tutto in questo ritardo non più giustificabile. Nessuno avrebbe preteso la reinvenzione della ruota a questo punto, nessuno gli avrebbe chiesto un’urgenza di cui si erano perse le tracce ormai da parecchio tempo. Una chiusura più decorosa sarebbe stata sufficiente, in pratica un addio in silenzio, ma per troppo amore verso i fan hanno commesso un ultimo passo falso, uno dei pochi peraltro. Pur con tutta la buona volontà, mi tocca ammettere che ad oggi non riesco a riconoscere ‘Collapse Into Now’ come un loro album. L’ho ascoltato pochissimo e dubito, soprattutto, che lo ascolterò ancora in futuro, non posso farci niente. Il songwriting è appannato come non mai, la produzione magniloquente ma dozzinale, il sound inutilmente muscolare e Stipe spesso poco convinto e poco convincente. La band fa quello che può con il mestiere, in un ambito di riferimento (sbrigativo pop-rock mainstream da stadio) francamente avvilente per chi ha amato fino allo stremo le ballate introspettive ed il jangle-pop degli anni d’oro. Encomiabile il vecchio Buck, l’unico a tenere su la baracca per quanto possibile, anche se l’inflazione di pezzi veloci e rombanti non riesce a silenziare un vuoto di idee generalizzato e disarmante, ben reso dalla (oggettivamente bruttissima) copertina. Il fatto che ‘Überlin’ sia l’episodio migliore, dice praticamente tutto.

 

16. Around The Sun  (2004 – 5+)

Per anni ho considerato il bistrattatissimo ‘Around The Sun’ il peggior disco della band di Athens. E per anni, in effetti, si è meritato questo non invidiabile riconoscimento. La sua frigida impalpabilità, resa ancora una volta alla perfezione dall’immagine di copertina, mi è sempre sembrata difficile da contestare. Come spesso capita, tuttavia, una parziale ma significativa riabilitazione si è fatta largo con l’andar degli anni, rivelando che non tutto in questo album era da buttare. Certo gli arrangiamenti che sposano suoni acustici un po’ fasulli ed elettronica sullo sciatto andante restano abbastanza indigesti. Certi episodi (‘The Outsiders’, il singolo ‘Aftermath’, la tirata politica ‘Final Straw’) sono francamente da dimenticare ed il carisma in generale latita alquanto. Eppure ‘Leaving New York’, nella sua semplicità, mi è sempre piaciuta un sacco, ‘Electron Blue’ è talmente zoppicante da farsi apprezzare (con un po’ di vergogna, ok) ed il lato B ha diversi passaggi non malvagi che alzano il livello generale non troppo sotto la sufficienza. Non si trattasse dei R.E.M., la si sarebbe raggiunta senza troppi problemi, ma un minimo di penalità va comunque riconosciuto considerando chi ha scritto queste canzoni sempre un po’ pasticciate. All’epoca sparare a zero sul disco e sul gruppo fu quasi specialità olimpica: evidentemente conferiva crediti preziosi in ottica snob. La verità, come spesso capita, non si veste di bianco, né di nero, ed il tenue grigiore di ‘Around The Sun’ sembra ancora qui apposta per confermarlo.

 

15. Accelerate  (2008 – 6-)

‘Accelerate’ è stato l’ultimo colpo di coda della carriera. Sull’effettiva portata di tale scossa si potrebbe discutere a lungo, anche se non credo ne valga la pena. Dopo il nadir rappresentato dall’impalpabile ‘Around The Sun’, un album veloce ed energico non avrebbe potuto sortire altri effetti che una salutare shakerata, e così andò in fin dei conti. Come con il predecessore la critica era parsa spietata ben oltre il lecito, gli entusiasmi verso un disco tonico ma non sensazionale come questo mi sono però sempre sembrati abbastanza esagerati. C’è un sound frizzante, scaltro restyling capace di far aderire la compattezza rumorosa delle loro cose più rock con le sonorità à la Byrds che resero indimenticabili le canzoni di ‘Reckoning’. E non a caso, visto che proprio l’album del 1984 venne massicciamente riproposto nel monumentale tour del 2008. Operazione intelligente, si diceva, ma dopo qualche anno è difficile ricordare ‘Accelerate’ per altri meriti, al di là dell’importante sforzo promozionale in ambito live (che valse più come panoramica retrospettiva prima dell’arrivederci, a dire il vero). Abbordabile il filotto in avvio con i pezzi più pimpanti (‘Living Well Is the Best Revenge’ e ‘Man-Sized Wreath’ le migliori), prescindibile il resto, specie le fiacche ballate elettroacustiche tipo ‘Houston’.

 

14. Dead Letter Office  (1987 – 6)

Negli anni ’80 e ’90 le raccolte di rarità, scarti, outtakes ed amenità assortite erano molto più diffuse di adesso, dove bastano un paio di inediti di dubbio valore a giustificare l’ennesima uscita spillasoldi infarcita di classici hit ormai logore. Con alcuni (inevitabili) anni di anticipo sugli ‘Incesticide’, sui ‘Westing (By Musket and Sextant)’ ed i ‘Pisces Iscariot’, anche i R.E.M. pubblicarono la loro piccola collezione di cianfrusaglie, buona allora come oggi più per i fanatici incalliti che per gli estimatori occasionali. Lo svuotamento del forziere dei B-sides chiarì come la distanza tra brani titolari e rincalzi fosse per il gruppo di Athens abbastanza marcata: un buon numero di divertissement non proprio indimenticabili, episodi strumentali curiosi o poco più e poche vere chicche. Tra queste meritano di essere ricordate le tre cover dei Velvet Underground, ispirate anche nella pochezza della loro produzione, una ‘Burning Hell’ lercia e feroce come solo i Cramps sapevano essere, e la deliziosa stramberia di ‘Voice of Harold’, in pratica Stipe che canta improvvisando le note di copertina di uno scadente album di spirituals sulla base di ‘Seven Chinese Bros’. I R.E.M. scapigliati del periodo I.R.S. erano anche e soprattutto questo: una band di amici capace di far legna e divertirsi con pochissimo.

 

13. Reveal  (2001 – 6)

Ormai ridefinito senza esitazioni come trio, il gruppo statunitense ha provato una decisa ripartenza con ‘Reveal’, album ai tempi pesantemente sottovalutato (massacrato, in pratica) ma comunque incapace di lasciare agli ascoltatori una proposta nel complesso effettivamente valida. La linea guida doveva essere quella di un atto di amore incondizionato ai Beach Boys ed al loro sound, di cui un bozzetto “preparatorio” si era già assaggiato (a piccole dosi, dato il potenziale glicemico) con ‘At My Most Beautiful’ nel precedente ‘Up’. Pilotati in quest’impresa dal vero fan dei fratelli Wilson (il bassista Mike Mills), i R.E.M. hanno indubbiamente realizzato il loro disco più pop, senza particolari incertezze ed anzi con un’ambizione abbastanza insolita per loro. Le cose non sono andate però come loro per primi avrebbero sperato, ed il risultato inquadra un lavoro magniloquente ma incapace di scongiurare un senso diffuso di artificio, un’aria viziata quasi inevitabile maneggiando oggi sonorità così irrimediabilmente retrò. Il vero campanello di allarme in ‘Reveal’ si avverte a livello di songwriting, con una meccanicità stanca negli automatismi ad indebolire un nucleo di idee di loro già fin troppo elementari. Terribilmente scontati alcuni episodi scelti come singoli (‘I’ll Take The Rain’, ‘She Just Want To Be’) a scapito di altri in tutta onestà ben più interessanti. Rimane una sinistra inquietudine dietro l’estasi gioiosa di queste canzoni, un po’ come quel senso di morte che si cela in ogni estate che si rispetti, come cantava qualcuno. E’ l’aspetto più pregevole (anche se forse non così voluto) di un disco incredibilmente dolceamaro e assai meno infame di come si è descritto. ‘I’ve Been High’ e ‘Beat a Drum’ sono molto belle, ‘Imitation of Life’ e ‘Beachball’ più che discrete.

 

12. Up  (1998 – 6/7)

Quanto sia stato difficile ripartire per Stipe, Buck e Mills dopo l’abbandono di Bill Berry possiamo senz’altro immaginarlo, ma la corretta misura ci sfuggirà sempre. In un gruppo realmente compatto e democratico quale i R.E.M. sono sempre stati, la perdita di un batterista non poteva rappresentare a livello umano nulla di meno della defezione di un cantante. E’ per questo che ‘Up’ è stato davvero il disco più difficile e sofferto di tutta la loro carriera. Da un lato la convinzione di avere ancora qualcosa di importante da dire, dall’altro la consapevolezza di doversi confrontare nel proprio quotidiano di artisti con la fine di un’alchimia a dir poco magica, uno standard vincente andato irrimediabilmente perso. Gli spifferi di questa frattura sono ancora ben visibili ma rappresentano le giuste attenuanti in un’opera comunque non priva di fascino, ambiguità e colpi di classe. Descritti non a torto all’epoca come un “cane a tre zampe” (ci fu anche chi tirò in ballo la cover dell’eponimo Alice in Chains), i R.E.M. “superstiti” optarono coraggiosamente per la non sostituzione di Berry e quindi per una svolta sonora verso lidi elettronici (comunque mai troppo invasivi) che per i puristi e gli irriducibili non poteva che rappresentare il punto di non ritorno. La realtà non ha dato loro fino in fondo né torto né ragione, anche se è indubbio che, almeno nei suoi passaggi meno riusciti, ‘Up’ abbia sancito l’inizio di un declino fisiologico. ‘Lotus’, ‘Suspicion’ e ‘Falls To Climb’ i momenti più preziosi di un album controverso ma commovente.

 

11. Murmur  (1983 – 7.5)

Ebbene sì, lo piazzo decisamente alto in graduatoria il disco che chi non ha mai granché seguito i R.E.M. si è sempre bovinamente impegnato a bollare come il vero album di culto, il capolavoro segreto ed imperdibile che, in fin dei conti, ‘Murmur’ non è mai stato. C’era la novità – è vero – di un suono attento a recuperare la lezione delle chitarre jangle che Crosby e McGuinn resero così indimenticabili nella seconda metà degli anni ‘60. Nel 1983 il movimento Paisley Underground bruciava i suoi primi fuochi e, per quanto anomali al suo interno, gli esordienti R.E.M. venivano a rappresentare una possibilità di raccordo tra il circuito delle college band ed un rock di sicuro impatto commerciale. ‘Rolling Stones’ ebbe il merito di fiutare l’interesse crescente per l’alternative rock, ambito in cui questi ragazzi promettevano di diventare campioni di razza, e promosse l’album senza timori come il migliore dell’anno, davanti ai ben più fortunati ‘Thriller’, ‘War’ o ‘Synchronicity’. Un azzardo che per il gruppo di Athens rappresentò una spinta di non poco conto (pur non esonerandolo dal peso di una gavetta lunga almeno un lustro) ma che, al di là della lungimiranza storica, mi è sempre parso un tantino sproporzionato rispetto agli effettivi pregi di questo primo LP. Intendiamoci, ‘Murmur’ è senza dubbio l’opera di una band non comune e già incredibilmente matura. E’ scuro, schivo, enigmatico, ricco di dettagli sepolti e di doti nascoste, delle suggestioni ambigue che il cantato carsico e sfuggente di Michael regalò in abbondanza in tutti i primi lavori, qui più che altrove. Però non è un capolavoro, non prova nemmeno ad esserlo. Mitch Easter raccontò di un gruppo in cui ogni componente chiedeva di essere registrato “sempre un po’ più basso”, soprattutto Stipe, e questa timidezza di fondo si impone ancora oggi come il tratto distintivo del disco. Caratterialmente mi ci sono specchiato sin dal primo ascolto, ormai quasi venti anni fa, ma non ho potuto negare che la band della Georgia avrebbe fatto presto le stesse cose in maniera migliore. ‘Radio Free Europe’/‘Sitting Still’, primo singolo nella storia dei R.E.M., rimane il riferimento essenziale, anche se personalmente ho sempre preferito alcuni degli episodi in assoluto più strani: ‘Laughing’, ‘Pilgrimage’, ‘9-9’, la leggerissima ‘We Walk’. Ah, e ovviamente ‘Perfect Circle’, che di ‘Murmur’ era ed è la canzone migliore.

 

10. Out of Time  (1991 – 7/8)

‘Out of Time’ è un disco del quale non è facile parlare con serena imparzialità. I primi R.E.M. che ho ascoltato, come tanti qui in Italia. Dovrebbero essere anche quelli che non si scordano mai, e in un certo senso è così. Febbraio ’91, le radio sputano ‘Losing My Religion’ con una frequenza allucinante, ma non è solo per questo che non può passare inosservata. E’ un mondo a parte, una scintilla che diventa piacevole ossessione. Al mare comprerò la cassetta e avrò il resto del quadro, completo. All’epoca però ‘Out of Time’ è solo quella canzone, ed io la lascio bruciare un altro po’, inconsapevole dello scempio che le procuro e beato nella consapevolezza che è proprio questo che voglio fare nella mia vita: ascoltare canzoni su canzoni come respirandole. E consumarle, se serve. Oggi che un po’ di strada da allora mi sa che ne ho fatta, quel pezzo mi appare inservibile. Un simulacro vuoto, qualcosa che non riesco più ad ascoltare: se lo incrocio su qualche televisione musicale, cambio canale a velocità supersonica come si trattasse dei programmi fecali della De Filippi o di un notiziario letto dalla Petruni. Per il resto, fortunatamente, ‘Out of Time’ è sopravvissuto al suo cavallo di battaglia, ed ogni tanto me lo concedo con un certo piacere. E’ stato l’album del compromesso (ma a modo loro), va bene, mostrava più di una concessione al populismo facile (‘Shiny Happy People’ è terribile. Terribile), eppure è stato un passaggio necessario che mi sento di rivendicare, anche nei suoi (non pochi) riempitivi, anche nella melassa millsiana di ‘Near wild Heaven’ e negli inserti rap di KRS-One in ‘Radio Song’ (che ho sempre adorato, oh sì) . Canzoni come ‘Country Feedback’, ‘Half a World Away’ e soprattutto ‘Low’ rimangono una più che valida contropartita in termini di purezza, davvero tra le cose più belle mai pubblicate. Niente male davvero per una band che, a detta di alcuni, aveva scelto di svendersi definitivamente al music business.

 

9. New Adventures in Hi-Fi  (1996 – 8 )

Di ‘New Adventures in Hi-Fi’ ricorderò sempre la recensione ignobile pubblicata da ‘Musica!’ di Repubblica, che all’epoca leggevo con bella avidità convinto che quella della critica musicale fosse davvero una nobile missione. Bastò quel pezzo, non scherzo, ad aprirmi gli occhi una volta per tutte su chi parla di canzoni per professione, in cambio di lauti (comunque sia) compensi. Ricordo che il coglione quasi tralasciò di parlare del disco, preferendo sparare odiose bordate alla band perché aveva da poco sottoscritto un nuovo contratto miliardario con la Warner. Li accostò all’immagine di un pugile fiacco e ormai arrivato, interessato esclusivamente a far soldi. Eppure basta ascoltarlo ‘New Adventures’ per rendersi conto che è un album bellissimo e assai ispirato, carico di tensioni e di contraddizioni vitali, di contrasti e di America, in tutte le sue possibili declinazioni. Un disco sobrio ed insieme sovraccarico, pungente e magmatico, uno struggente diario di viaggio di quell’ultimo tour con Bill Berry (le canzoni nacquero in giro per il mondo nel ’95, ‘Departure’ per dire la scrissero in Spagna tre giorni prima di presentarcela a Torino, e fummo i primi a sentirla dal vivo). L’unicità della sua genesi transitoria, il fatto stesso di esser stato registrato un po’ per volta ed in più tappe, con un maggior approccio da “presa diretta”, lo rende ancora oggi un disco attuale e vibrante, forse quello che in tutto il loro catalogo è invecchiato meno (e meglio). Dentro, come è giusto che sia, c’è di tutto: adrenalinico rock simil-glam “avanzato” da ‘Monster’ (‘The Wake-Up Bomb’), ballate elettroacustiche introspettive (‘New Test Leper’), minimalismo geniale (‘How The West Was Won and Where It Got Us’), romanticismo con sintetizzatori (‘Leave’) e quel duetto grandioso con Patti Smith in ‘E-bow The Letter’. Poi, beh, la terna conclusiva (‘So Fast, So Numb’ / ‘Low Desert’ / ‘Electrolite’) che a dir poco mi ha sempre fatto impazzire, con buona pace di quell’idiota di Repubblica.

 

8. Green  (1988 – 8 )

‘Up’ e ‘Green’ sono i due album “di passaggio” per eccellenza nella discografia di Stipe e soci. Se il primo ha fatto da spartiacque tra i massimi risultati artistici e commerciali e gli anni del declino, il secondo verrà invece ricordato come l’anello di congiunzione tra la band indipendente della I.R.S. e quella mainstream lanciata verso i Grammy e le arene planetarie. La fotografia perfetta di un gruppo pronto a spiccare il volo verso la ribalta che conta, eppure ancora condizionato da una mentalità, da un’indole e da un suono alternativi, poco inclini al compromesso e all’omologazione. E’ questa la chiave corretta per interpretare un altro lavoro denso di contraddizioni stimolanti. Intitolato al colore tipico di ciò che è naturale, genuino, ed orientato non per nulla su posizioni apertamente progressiste, ecologiste, come mai prima e dopo di allora nel percorso dei quattro di Athens. Il verde però è anche il colore dei dollari, del denaro, ed era quasi inevitabile che i R.E.M. puntassero ad insistere sugli stessi tasti polemici già battuti nel precedente ‘Document’, come a voler mitigare le critiche di chi li stava accusando di svendersi all’establishment culturale. In questo senso, almeno considerando il suo blocco centrale, ‘Green’ è un altro sensazionale album politico, a tratti anche più feroce di quanto scritto negli anni dorati della loro piccola etichetta. ‘Orange Crush’ è il simbolo, così esplicita, caustica, mentre altrove si parla in maniera più figurata di persuasione, prevaricazione, aborto, con lucidità visionaria ammirevole. Ad alleggerire i toni pensano le trovate pop, prime formidabili strizzate d’occhio ai network radiotelevisivi nazionali, per quanto sempre obliquamente concepite come da tradizione del gruppo. Se seguendo questa logica le ‘World Leader Pretend’ e le ‘Turn You Inside-Out’ si trovano perfettamente controbilanciate dalle ‘Stand’ e dalle ‘Pop song 89’, a rendere particolarmente appetibile l’offerta possono essere allora i presunti brani minori, quelli che esulano dallo schema. ‘You Are the Everything’, per dire, è ancora oggi una delle più belle canzoni che i R.E.M. abbiano mai scritto, e non assomiglia a nient’altro.

 

7. Automatic For the People  (1992 – 8+)

Va bene, mi rendo conto io per primo che il voto rifilato qui sopra ad ‘Automatic For the People’ suona come un’offesa bella e buona. Non lo contesto, lo so. So che ‘Automatic’ è con ogni probabilità il capolavoro assoluto del gruppo, quello più accurato nei suoni, negli orpelli (e ti credo, con gli arrangiamenti di John Paul Jones), quello con le canzoni che più si sono intrecciate al vissuto intimo di molti di voi, e mi ci metto anch’io, per carità. Già mi sembra di sentire le recriminazioni per l’oltraggio al disco che ha dentro ‘Nightswimming’ e tanto altro, un insulto alla fatica che fu spesa per produrre tutta questa meraviglia. OK, serve un chiarimento. ‘Automatic For the People’ è uno dei pochi album che conosca che rasentano la perfezione. Se mi fermassi a questo, alla sincerità dei suoi testi, alla delicatezza con cui parla della morte, dovrei tributargli un 10 o poco meno, e chiuderla lì. Invece non posso, perché ho un grosso problema con quest’opera ed è lo stesso già descritto a proposito di ‘Losing My Religion’, valido anche per ‘Grace’ di Jeff Buckley e per qualcos’altro che ora mi sfugge. Musica così bella da averla consumata senza il sollievo di un difetto, di una sproporzione, di qualcosa fuori posto cui affezionarmi. Un destino triste, perché ‘Automatic’ è forse il loro disco che più visceralmente ho amato, ascoltato, raccomandato, sbandierato. Sulla sua onda nel ’93 comprai un calendario della band e sono andato avanti quasi dieci anni con questo rito, come una teenager idiota. Poi ho smesso di punto in bianco, forse nello stesso momento in cui non mi è più riuscito di ascoltare ‘Man on the Moon’ ed ‘Everybody Hurts’, sempre sul chi vive con ‘The Sidewinder Sleeps Tonite’, tuttora fra quelle che “stan sospese”. Con altri titoli mi è andata meglio: ‘Ignoreland’, ad esempio, mi è sempre piaciuta da matti, perché è un’invettiva politica micidiale ma anche insolita, pura adrenalina. ‘Try Not To Breath’ e ‘Sweetness Follows’ restano gemme, ‘Find The River’ e ‘Nightswimming’ mi sciolgono ancora il cuore mentre ‘Drive’, addirittura in controtendenza, l’apprezzo molto più oggi di quando avevo tredici anni. Eppure ci sono quelle ombre che resteranno sempre e non mi aiuteranno a pesare il disco con la necessaria lucidità: un capolavoro, ma non fa (più) per me.

 

6. Reckoning  (1984 – 8.5)

La “resa dei conti” menzionata nel titolo del loro secondo LP dai giovani R.E.M. doveva per forza di cose tradursi in qualcosa di assai meno altisonante rispetto all’implicita evocazione. Stessa coppia di produttori (Easter e Dixon), stesso studio di registrazione a Charlotte, stessa metodologia di lavoro e tempistiche (un paio di settimane), seguendo la logica del “battere il ferro finché è caldo”. In tal senso non è sbagliato riconoscere in ‘Reckoning’ un gemello oltre che l’ovvia prosecuzione di ‘Murmur’, mentre sulla qualità delle canzoni in ballo non si può che andare a gusti. Personalmente ho sempre preferito questo secondo lavoro. Meno coeso probabilmente, ma più vario a livello stilistico, più maturo nel songwriting (anche senza tradire quella vena oscura che ha reso così affascinanti tutte le loro prime cose) e con dentro alcuni pezzi a dir poco formidabili. ‘So. Central Rain’, ‘Camera’ e ‘(Don’t Go Back To) Rockville’ non usciranno mai dalla mia personale top 20 della band georgiana. Il tempo non le ha scalfite e si confermano ancora dei fuochi sacri, persino il country banalotto della terza, sempre irresistibile. A corredo un altro pugno di brani indimenticabili (praticamente tutti) con alcuni dei migliori testi dell’intera discografia, ed accompagnati in video da una serie di clip amatoriali di grande suggestione. La band scapigliata di ‘Reckoning’ aveva tutto per piacere, specie quell’incoscienza artistica e quella mancanza di direzioni certe che ancora oggi rendono così interessanti queste canzoni: la corposa riscoperta del disco nell’anno dell’ultimo tour la dice lunga sull’importanza anche formativa che questo titolo ha rivestito nella carriera del gruppo. La copertina poi è un gioiello. Basterebbe da sola a far vincere il confronto con il ben più celebrato esordio.

 

5. Fables of the Reconstruction  (1985 – 8.5)

Ecco servita un’altra apparente provocazione. ‘Fables’ così in alto per molti può sembrare una bestemmia, me ne rendo conto. La critica non è mai stata troppo tenera, specie ai tempi. Il gruppo poi ha odiato intensamente il disco per tutti i fantasmi che negli anni deve aver rievocato: le registrazioni a Londra, un inverno infame, un produttore troppo meticoloso e distante, i litigi continui e l’eventualità sfiorata dello scioglimento. Un accumulo di tensioni che nell’album si sentono eccome e che lo hanno reso così unico nel loro catalogo, un’autentica gemma. Il merito senza dubbio è stato in buona parte di Joe Boyd, l’uomo che aveva plasmato il suono di Nick Drake e dei Fairport Convention e che in quel 1985 si prese cura di conferire un’impronta folk più barocca sia ai R.E.M. che ai loro amici 10000 Maniacs. Esperienza generalmente considerata un fallimento, vista la piega tetra e squilibrata presa da molti dei brani in questione (l’apripista ‘Feeling Gravitys Pull’ è emblematica), eppure con un surplus davvero non indifferente in fatto di fascinazione ed allegorie, a tutti i livelli. Curiosa anche la genesi artistica: Stipe, all’epoca influenzato dai temi del folklore orale, del racconto e dei cosiddetti Uncle Remus, mirava a comporre una sorta di anomalo concept album sulla tradizione e sugli stereotipi narrativi del sud degli Stati Uniti. Impresa poi condita dalla propria personale vena poetica obliqua e surrealista, così da riuscire a plasmare lontano dagli States il disco forse più profondamente (e genuinamente) americano di tutto il repertorio R.E.M. Che si ama o si odia, evidentemente. Chi come me non si è fatto troppo condizionare dalla critica e ha scelto di non fermarsi al cliché chitarristico jangle-pop dei primi lavori ha trovato senza dubbio pane per i suoi denti. Qualcosa che non somiglia a nient’altro prodotto dai quattro di Athens né prima né dopo, e che pure ha dentro quella loro sempre inconfondibile fragranza. Scaletta magnifica (‘Driver 8’, ‘Maps and Legend’, ‘Life and How To Live It’, ‘Wendell Gee’, e via andando), titolo e progetto grafico stupefacenti. Io comunque ho sempre preferito le versioni alternative suggerite dal genio elusivo di Michael: la copertina interna (quella del teatro che riporto qui sopra e che non è quella ufficiale), ed il titolo ‘Reconstruction of the Fables’.

 

4. Lifes Rich Pageant  (1986 – 8.5)

Quel che il produttore Don Gehman ha saputo fare per i R.E.M. avendo a disposizione le session di registrazione del solo ‘Lifes Rich Pageant’ rimane qualcosa di inestimabile. Ha tirato fuori un’anima rock prima totalmente inespressa, ha infuso una consapevolezza nuova ai quattro, ha fracassato gli involucri della timidezza di Stipe e Mills e plasmato nel “Ministry of Music” Peter Buck un chitarrista completamente diverso: di fatto il grosso di un lavoro che, completato presto da Scott Litt, avrebbe reso pronta la band per il grande salto di qualità. ‘Lifes’ è un album granitico e squillante, gioioso, ma anche gentile ed intimista come da tradizione del gruppo. Il Deus ex machina di John Mellencamp si è rivelato abile nel gestire il gruppo alternando momenti vitali ed altri a briglia tirata. Ha dato più profondità ad un suono finalmente meno “indipendente”, come reso a dovere dalla tostissima coppia di opener (‘Begin the Begin’ e ‘These Days’), ma senza dimenticare gemme introspettive dal sapore acustico come l’enigmatica ‘Swan Swan H’ ed il manifesto ecologista ‘Fall on Me’, ideali per i fan più affezionati al modello. Tra i due estremi, alcune canzoni indimenticabili del repertorio, dalla politica (ma allegorica) ‘The Flowers of Guatemala’ alla visionaria ‘I Believe’ (che è Stipe in tutto il suo potenziale), passando per la ebbra ‘Just a Touch’ e l’altra perla di stampo ambientalista, ‘Cuyahoga’. Un disco rotondo e divertente ma con la giusta coscienza e l’impegno: perfetto per non scontentare nessuno, in pratica.

 

3. Chronic Town  (1982 – 8.5)

Immagino l’aria perplessa di chi non può credere che un semplice EP possa meritarsi tanta attenzione. Probabilmente sarebbe un’obiezione anche più che legittima, ma mi è impossibile convalidarla. ‘Chronic Town’ rimane un tassello fondamentale e nient’affatto prescindibile, come in tanti hanno invece scritto. E’ un piccolo lavoro che ha dentro il germe di una grande promessa, ancor più del singolo ‘Radio Free Europe / Sitting Still’ partorito dalle medesime session nel 1981. Solo cinque canzoni a tratti grezze, zoppicanti, oscure. Ma che canzoni. Come lettera di presentazione per il gruppo c’era davvero da fregarsi le mani, e poco poteva importare per quella patina di imperfezioni cui i fan avrebbero saputo abituarsi presto, riconoscendovi uno dei veri marchi di fabbrica della band. Come e più che in ‘Murmur’, la forza vitale e magnetica di un progetto espressivo squisitamente naïf, capace di spaziare dal country byrdsiano di ‘Wolves, Lower’ alla visionarietà barocca della spettrale ‘Carnival of Sorts (Boxcars)’, passando per le stranissime e  battagliere atmosfere di ‘Stumble’ e ‘1,000,000’, fino alla poesia onirica di ‘Gardening at Night’, forse – ma non so se sbilanciarmi a tal punto – la canzone che preferisco del gruppo. Tra le tracce allegate assieme all’EP nella ristampa per il mercato europeo (del 1992) di ‘Dead Letter Office’ era presente una versione elettroacustica più soffusa di questo brano, che non ha nulla da invidiare all’originale. Caricata sull’Ipod come sesto episodio a mo’ di reprise, ha orientato per un posto nel podio la mia scelta su ‘Chronic Town’. E così sia.

 

 2. Monster  (1994 – 9)

Il primo ascolto fu un disastro. Ricordo ancora le parole (“Madonna-che-merda”) a sessione conclusa, e sì che sono passati diciotto anni. Fu uno shock. Aspettavo una fotocopia di ‘Automatic For the People’ e trovai ben altro, compreso un inedito Stipe rapato a zero e particolarmente aggressivo. Naturale quello spiazzamento. Gli ascolti che seguirono – e seguirono, all’epoca ci si smenavano davvero dei soldi e non ci si arrendeva al primo “bah” – furono una rapida ed inarrestabile salita verso lidi musicali nuovi, affrontati con un paio di orecchie nuove. In meno di una settimana mi innamorai in modo devastante del disco, e lo avrebbero fatto anche i tanti che oggi gli abbassano le medie voto in rete, non si fossero limitati alla ricerca frustrata di nuovi pezzoni strappalacrime bocciando tutto il lotto eccetto un paio di brani. Ancora oggi sono grato ai R.E.M. per questo violento pugno in pancia, per questa svolta un po’ suicida che chiarì una volta per tutte come si trattasse davvero di un gruppo fuori dagli schemi, vivo, indipendente. Al di là dell’opinione consolidata per cui ‘Monster’ andrebbe considerato un passaggio minore della carriera e del periodo Warner (ipotesi presto appoggiata dagli stessi autori, che lo hanno quasi ripudiato), rimango fermamente convinto che si tratti di un’opera straordinaria. Forse il loro lavoro più romantico, per quanto in maniera distorta. Un altro album sulla morte, con dediche a River Phoenix e a Cobain. Un album sul sesso, esplicito oltre ogni aspettativa. Un album schiettamente rock, attento al suono, tagliente, vizioso, vorticoso: una manna per l’elettrica di Buck, accompagnato a dovere da quella di Thurston Moore in un paio di casi. Il passo verso i Sonic Youth e l’indie americano degli anni ’90 era tracciato. Non ricordo canzoni men che belle, mentre ‘Crush With Eyeliner’, ‘Let Me In’, ‘Circus Envy’ e l’incredibile ‘Tongue’ restano saldamente nel novero delle loro cose più formidabili di sempre.  La vitalità catturata in studio sarebbe poi tornata utile per il primo monumentale tour promozionale dai tempi di ‘Green’ (che per me fu la prima occasione per incrociarli dal vivo), incappato in una serie di sventure (operazioni per tre dei quattro, Bill Berry ad un passo dalla morte) da Guinness dei primati.

 

1. Document  (1987 – 9.5)

Avrebbe dovuto chiamarsi ‘Last Train to Disneyland’ questo album. Un’intonazione caustica in più nel computo di un affresco di suo già sufficientemente impietoso sul reaganismo imperante. I R.E.M. ci arrivarono con una determinazione bruciante e con una pienezza di risorse non comune per degli outsider indipendenti. In fondo però il salto di qualità era alle porte, e ‘Document’ fotografa con fedeltà sia le prove generali per quella nuova avventura, sia il congedo irriverente dalla tranquillità incontaminata del circuito alternativo. Avrebbe dovuto chiamarsi ‘File Under Fire’, indicazione ironica per i negozi di dischi che venne poi effettivamente riportata sulla costa dell’LP (come pure avvenne per il ‘File Under Water’ di ‘Reckoning’), e non a caso. I riferimenti al fuoco non si contano, disseminati nelle liriche di Michael in praticamente ogni canzone. Sul piano musicale l’arrivo del produttore Scott Litt portò a compimento la svolta rock del lavoro precedente, agevolando un disco incendiario nel vero senso della parola. Frenetico, impulsivo, feroce e politico, politico soprattutto. Dall’etica del lavoro nella società degli yuppies di ‘Finest Worksong’, all’imperialismo yankee degli anni ’80 in America latina (‘Welcome To the Occupation’, ‘Disturbance at the Heron House’), dai rigurgiti del maccartismo (‘Exhuming McCarthy’) alla giostra impazzita e apocalittica di ‘It’s The End of the World As We Know It (and I Feel Fine)’, passando per i fantasmi di vecchie lotte sindacali (‘Fireplace’). A legare il tutto, una miscela elettrica senza freni ed un andazzo ritmico roboante (Bill Berry al meglio) tali da confezionare il disco forse più coerente ed armonioso dell’intera produzione. Dove anche un’apparente canzone d’amore non avrebbe potuto che suonare lancinante e brutale (‘The One I Love’ naturalmente, prima vera hit in carriera); dove ogni ipotesi di pop song edulcorata avrebbe finito per lasciare il campo alle ombre di un’epica disperata, antagonista, malata (‘Oddfellows Local 151’) ed i Wire sarebbero stati evocati con felice opportunismo. R.E.M. ancora abbastanza giovani da promettere in maniera credibile i lampi di una rivoluzione, ed adulti il giusto per potersi far apprezzare fino in fondo dopo tanti anni: l’attimo perfetto, evidentemente. Con dentro anche la gemma ‘King of Birds’, e scusate se è poco.

 

 

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Il momento giusto

        

“Un saggio una volta disse che la cosa più importante quando si va a una festa è sapere quando è il momento di andare via. Abbiamo costruito qualcosa di straordinario insieme. E ora è tempo di abbandonarla. Spero che i nostri fan capiscano che questa non è stata una decisione facile. Ma tutte le cose hanno una fine e noi abbiamo voluto finire bene, a modo nostro”.

Il momento è arrivato ed è quello giusto, indubbiamente. Le parole sono di Michael Stipe, il suo messaggio di addio ai fan sul sito dei R.E.M., accanto a quelli di Peter e di Mike. Parole semplici, franche, per annunciare lo scioglimento di uno dei più significativi gruppi musicali di sempre. Una comunicazione asciutta e dal taglio friendly che conferma l’unicità di questi artisti, persone normali prima che star. Parole che, nel lasciarmi senza fiato nonostante un esito che avevo facilmente profetizzato, mi hanno ricordato il testo di ‘Camera’, una loro vecchia canzone risalente al 1984: “When the party lulls, if we fall by the side. Will you be remembered?“.
Loro saranno ricordati di certo. Dischi e canzoni provvederanno a lavorare sulla memoria collettiva per tanti anni a venire e per nuove generazioni, come capita a tutti i gruppi o cantanti che sappiano ritagliarsi uno spazio importante anche al di là del tempo effettivamente concesso loro. Ci sono riusciti perché hanno saputo diventare per molti una presenza costante, una compagnia, una colonna sonora tra le poche realmente indelebili, coniugando il successo planetario con un’integrità artistica a dir poco straordinaria. Questo spiega in parte perché godessero ancora oggi di estimatori di lungo corso anche tra i critici e tra gli appassionati di musica indipendente. Quella era la loro provenienza, quello in un certo senso è rimasto il loro DNA fino alla fine, nonostante i contratti milionari con la Warner e le camionate di dischi puntualmente venduti.
Negli ultimi tempi qualcosa non funzionava più come prima. Il recente ‘Collapse Into Now’ è un album abbastanza misero proprio a livello di idee, sconfortante se rapportato al passato (tendenza al declino partita ai tempi di ‘Reveal’, per qualcuno già con l’addio del batterista Bill Berry nel 1997 e con il successivo ‘Up’) ma anche al presente live del gruppo, esaltante fino all’ultimo tour. Probabilmente oltre all’ispirazione si stava perdendo la voglia, e proprio per questo il loro serafico arrivederci impressiona e non può non lasciare con un sorriso. C’é il ringraziamento ai fan, c’é il senso di meraviglia ed appagamento per quanto fatto, non taciuto ma portato in primo piano, sbandierato. E più di tutto il resto c’é la consapevolezza del limite, quella “saggezza” evocata nello stringato ma sincero messaggio di Michael che dovrebbe colpire anche quelli che, a differenza del sottoscritto, non abbiano particolari legami verso la band di Athens. Dignità. Lasciare con dignità, prima di scadere in un circo sempre più fiacco alimentato solo e soltanto dal denaro, dalla propria mercificazione. Un esempio di onestà verso se stessi e verso i propri seguaci che non può lasciare indifferenti, oggi come oggi. Pur avendo abbracciato la fama, i R.E.M. si chiamano fuori con la stessa umiltà con la quale avevano cominciato, avendo poi conquistato un passo alla volta la stima di un così vasto pubblico. Questo loro carattere, anche questa loro esemplare armonia in quanto gruppo, sono gli ingredienti che hanno contribuito in maniera determinante, al pari della loro musica, a renderli così genuini ed ammirevoli, sempre. Una lezione superba, questo scioglimento, per tutti quei colossi ormai vuoti del baraccone musicale che non si schioderebbero dalle scene per nulla al mondo, anche se la loro vena d’oro si è esaurita da quindici, venti o più anni.

La foto in alto l’ho scattata alla fine del concerto di Torino (Palaisozaki) del settembre 2008, l’ultima delle cinque occasioni in cui ho avuto la fortuna di apprezzarli dal vivo (la prima, sempre qui a Torino, nel febbraio del 1995. Ne avevo scritto qui). Credo sia un bel modo per ricordarli, salutarli e ringraziarli. Sinteticamente, perché potendo mi dilungherei e non basterebbe un’intera pagina di questo blog. Quel giorno avevo percepito la loro stanchezza. Erano praticamente alla fine del mostroso tour mondiale di ‘Accelerate’, mancavano giusto un paio di date in Europa e qualcuna in Sud America. Fu un bel concerto, come al solito, anche se loro erano esausti e non lo nascosero dietro la generosità di sempre. Mi erano parsi un po svuotati. Passionali sì, ma quasi per senso del dovere, non più così entusiasti. Uscendo dal palazzetto pensai che quella sarebbe stata l’ultima volta. Mi sentii anche fortunato comunque: averli visti e rivisti lungo quasi quindici anni di viaggio, aver cantato con loro sotto il palco, un po’ come entrare a far parte di un mito e conservarne il lato più umano, l’amicizia.
E’ stato un vero privilegio, ragazzi. Grazie per tutto quello che siete stati, che siete e che sarete.

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