R.E.M. @ Palastampa

20/02/1995 _ Il nostro (altro) concerto

 

Questa è la storia di un’iniziazione. Il resoconto di uno di quegli episodi che potrebbero sembrare insignificanti abbandonati nel flusso della memoria accanto a tanti altri simili, eppure sono là a ricordarci dove, e come, certi aspetti della nostra vita hanno registrato una svolta profonda. Questa è la storia di un passaggio. Filtra il superfluo delle note meno liete e senz’altro ricama sui dettagli più piacevoli di un concerto di tanti anni fa, ricolorando come ad acquerello l’ossatura scarna di un ricordo destinato quasi per necessità a venire esaltato, senza sostanziali scorrettezze da parte del narratore.
 
 
E’ lunedì 20 Febbraio 1995. Ci sono io che torno a casa da scuola solo per lasciare lo zaino. Anzi, ci sono io che a casa non torno affatto e trascorro il pomeriggio con i compagni di liceo che mi faranno compagnia quella sera. Frequento la quinta ginnasio con un certo profitto, anche se mi dedico con costanza solo alle materie che ritengo meritevoli di attenzione. Amo il latino, riamato. Il greco non provo nemmeno a studiarlo, tanto il ministro D’Onofrio ha appena depennato gli esami di settembre e poi in qualche modo mi aggiusto, tra traduttori, bigliettini capolavoro e l’immancabile Pechenino sotto la felpa. Nessuno mai ha saputo barare sul greco come me, nessuno. A parte pochi memorabili eventi, si galleggia noiosamente in una routine da adolescenti che non sanno bene cosa fare della loro anonima vita. Ma questa sera no, questa sera vado al concerto dei R.E.M. e non me ne frega un cazzo di tutte le altre menate. Ci andiamo in parecchi della classe, e per tutti è una sonora eccezione al riflusso delle banalità quotidiane. Per me più che per gli altri, visto che i R.E.M. sono Il Mio Gruppo. Appendo i loro calendari in camera da tre anni e lo farò ancora, fino al ’98. Poi basta. Il Mio Gruppo viene a Torino ed io non me lo perdo. Ho comprato il biglietto appena il tour è stato annunciato: trentasettemila lire, dal mio negozietto di fiducia in corso Orbassano. Ci sono anche quattromila lire di diritti di prevendita, la prima volta che li sento nominare. Beh, chi se ne importa se arriviamo a 41 e dovrò aspettare la prossima paghetta per comprare qualsiasi altra cosa? L’amico negoziante lo strappa dal blocchetto senza molta cura. Per lui sono pochi soldi che entrano, per me è un tesoro che va direttamente in tasca, e poi nel cassetto della scrivania. Il negozio chiuderà nel giro di un paio d’anni, rimpiazzato da una latteria. Ovviamente non lo immagino, né mi sognerei mai di pensare che arriverà a mancarmi, ma è così che finirà. E’ qualcosa di epocale questo live al Palastampa, i manifesti sono arrivati a tappezzare anche la mia zona nella cornice invernale del parco Rignon. In quei primi mesi del ’95 andrà ad incastonarsi molto comodamente tra le due vittorie con cui lo scalcinato Toro di Calleri liquidò la prima Juventus (già vincente) di Marcello Lippi, sovvertendo abbastanza clamorosamente ogni pronostico. La prima volta a gennaio e con la novità della notturna, dato il recupero di una gara spostata a novembre per via di quella micidiale alluvione che fece anche tanti morti. Bei tempi quando le notturne erano una novità. Stavamo cambiando e il calcio cambiava con noi. Più velocemente di noi, e in peggio. Un doppio Rizzitelli più Anglomà, Pastine che para un rigore a Ravanelli. Il ritorno sarebbe stato meno di tre mesi dopo, in zona vacanze pasquali, di domenica pomeriggio, con la sola costante del doppio Rizzitelli e di una gioia infinita, mai più provata da allora (e quindici anni sono passati signori, quindici). Euforia destinata a concretizzarsi in sogni realizzati nella squallida periferia cronica delle Vallette, in un Delle Alpi che oggi un po’ ci manca e – a pochissima distanza da lì – in un locale per concerti che, se non proprio al battesimo, viveva comunque i suoi primissimi giorni di attività. Nato Palastampa oggi Palatorino, nel frattempo Mazdapalace e Palaqualcosaltro, si conquista una minima porzione delle nostre discussioni sul 9, lì nella lenta processione del pomeriggio sulle rotaie per me inedite di corso Toscana: “Ho sentito che l’acustica è una merda” dice qualcuno. Ecco, a sedici anni già lì a dissertare dell’acustica degli show dal vivo, per giunta prima di aver sperimentato di persona. Oggi non me la ricordo così di merda peraltro, ma non è che fossi molto attendibile all’epoca. E’ il mio primo concerto serio, il primo per cui pago. I gruppi locali visti a rimorchio di mio cugino batterista, o la sua stessa band in azione in qualche festosa manifestazione a Mirafiori, pro-Palestina, pro-Cile, pro-quellochevolete, non fanno testo e non reggono il confronto. Da qualche anno mi sto svegliando e devo dire grazie a quella radio che oggi detesto. Prima la musica per me era il niente più assoluto, il jingle di una pubblicità, un incartamento inutile e pacchiano dell’esistenza di tutti i giorni, la sigla di un telefilm americano, la ‘Storia di un Impiegato’ ed il sigaro di mio padre, ‘Se Stasera Sono Qui’ o ‘Via Paolo Fabbri 43’ sullo stesso mangianastri, mia madre che canta e confonde puntualmente le strofe. Non si può ascoltare Tenco da piccoli, non si può. Si parte ad handicap, si resta bruciati. La radio, in un certo senso, si è rivelata un salvagente per me. Poi sono arrivato alla scialuppa, quindi al traghetto, ed ora me ne sto sano e salvo sulla terraferma, nella regione in cui ho scelto di abitare. Bagarini, luridi porchettari, magliette non ufficiali sui banchetti di questi grezzissimi commercianti. Mi si svela un mondo del tutto inedito. Alessandro compra una T-Shirt del tour a diecimila lire. Il venditore fa ribrezzo ma la maglia ha decisamente il suo perché. Dopo il primo lavaggio non gli entrerà più, dopo il secondo sarà buona per uno dei bambolotti della sua cuginetta. Coda e fanghiglia, nessuna noia però. Quando sono prossimo ai controlli mi rendo conto che ho il coltello militare di mio nonno nello zaino, quello con il quale ho scavato gallerie su gallerie nel mio banco in classe. Non credo che i poliziotti gradirebbero fare la sua conoscenza in una fantomatica perquisizione, allora asciugo il mio sudore freddo, me lo infilo in una scarpa ed amen. “Apri le bottiglie e butta i tappi!”. Si può andare ad un concerto con un paio di 1,5 L. di Coca Cola nello zaino di scuola? Certo che si può, se hai sedici anni e non sei mai stato ad un evento del genere. Qual è il senso di questo divieto, se poi il mio controllore si gira di centottanta gradi ed io posso raccogliere indisturbato i miei tappi dal cumulo che ho sotto i piedi? Entriamo dai, il cuore va forte. Uno spazio enorme, che luci. Le ragazze più carine del ginnasio vanno a piazzarsi nelle primissime file della platea, io come un idiota mi accomodo sugli spalti, insieme ad un amico e la sua fidanzatina. Roba da pazzi. Certo per me non è ancora tempo di prima fila, di lividi per gli urti alla transenna, di foto ai concerti e lotta con ISO e tempi sempre più lunghi. Quelle che presento con questa cronaca non sono mie, come potrebbero? Però sono proprio di quel periodo, magari proprio di quella serata. Mills è in fissa per quelle sue giacche sbrilluccicanti orrende. Stipe entra bardato a strati, come una cipolla oversize. Nel buio si presenta con cappellaccio di lana e occhiali neri e poi via, un pezzo per volta, per chiudere con la T-shirt del video di ‘What’s The frequency, Kenneth?’, tra le altre cose il pezzo che aprirà l’esibizione come da mie previsioni. So che mi attende qualcosa di meraviglioso e non ci sto nemmeno tanto con la testa per l’emozione. Quando entrano i Grant Lee Buffalo per il loro live di supporto mi piacciono a tal punto che vado in confusione, non ritenendo possibile che una band che non siano i R.E.M. abbia delle canzoni del genere. “Devono essere pezzi vecchi” dico allora agli amici vicini “quelli dei dischi usciti con l’etichetta indipendente e che qui non si trovano”. Precisazione: al concerto mi presento senza aver mai sentito una canzone di quelle IRS, eccetto ‘It’s The end of The World As We Know It (And I Feel Fine)’, passatami da Fabio perché uscita su non so quale compilation animalista. Non è vero che i dischi pre-‘Green’ non si trovino, la prima stampa europea su CD è del ’92-93. Peccato che io vada avanti con le cassette e i reparti dei CD non li bazzichi proprio. Rimedierò presto, ma per questa sera sono a digiuno. “Ma che cacchio dici, questo è il gruppo spalla…ma sei proprio scemo”. Effettivamente solo un idiota come me può non preoccuparsi nel rilevare differenze tra la voce di Stipe e quella di Phillips, accomunate unicamente dall’essere entrambe belle ed emozionanti. Questo piccolo cortocircuito lo conservo con il sorriso sulle labbra, considerandolo una riprova della grandezza dei Grant Lee Buffalo, quella volta e in assoluto. Peccato essersi presentati senza conoscerli minimamente. Rimedierò presto, ma per questa sera sono a digiuno. E’ il tour di ‘Mighty Joe Moon’, immagino la scaletta dal buio odierno e provo più di un brivido. Avranno fatto buona parte di quel disco e di ‘Fuzzy’, solo che non mi ricordo null’altro che questa grande impressione. Dio, sono là, sono stato là e questa band già mi entrava nell’anima. Poi l’inizio vero e proprio, che mi torna con il boato. Stipe sepolto tra giubbotti e palandrane, le presentazioni, tutte quelle chiacchiere, quelle dichiarazioni festose. Ma allora ad ogni concerto c’è un simile intrattenimento, una simile voglia di legarsi al pubblico in un abbraccio continuo, fondersi in una sola realtà luminosa? No, non è proprio così purtroppo. Dovrò vederne di gruppi blasonati e antipatici per farmene una ragione. Ma questa sera è come un sogno, un idillio, il migliore dei mondi possibili. Ed è così ogni volta che torno a vederli. C’è Bill con le bacchette in mano. Brutto con la salopette di jeans, il suo ponte nero di sopracciglia, l’aria scimmiesca. L’ho sempre adorato per la sua faccia, sempre trovato incredibilmente simpatico. Nove giorni dopo un aneurisma all’inizio dello show di Losanna lo porterà ad un passo dalla morte. Lo rimpiazzerà il bravissimo Joey Peters quella sera, il resto del tour mondiale sarà rinviato. Poi Bill tornerà con gli altri, finiranno col lungo carrozzone milionario, registreranno le ‘New Adventures In Hi-Fi’ e basta, bandiera bianca per lui che ha messo giustamente la vita davanti a tutto il resto. Ho visto suonare Bill Berry, anche questo è qualcosa che oggi mi sembra così incredibile. Di tutto il resto ho ricordi vividi e flebili al tempo stesso, frasi di Michael che si intagliano nel mio cervello, come quel "Fottimi – piccolo – gatto", regalato alla platea come ironica chiosa in italiano alla versione di ‘Star Me Kitten’. Mi tornano in mente le monumentali proiezioni video sul mega lenzuolo bianco dietro la band: spezzoni surreali del filmaker Jem Cohen (la stessa persona che anni dopo avrebbe fatto incontrare Vic Chesnutt e i Silver Mt.Zion spingendoli a collaborare due volte) a colorare le pause tra un pezzo e l'altro, tipo quello con i pesci che zampillano da un paio di stivali in un prato. Poi frammenti pop mandati in loop, una ruota panoramica, la mano di un malato di Parkinson, giochi puerili nel parcheggio di un mall americano. Su ‘Let Me In’ un filmato “siderurgico” via via più luminoso, come una grossa palla infuocata sempre più enorme davanti ai nostri occhi. Per ‘Country Feedback’ degli estratti (i più onirici) dal videoclip di ‘Nightswimming’ (sempre di Cohen), all’epoca mai visto nemmeno sulla MTV americana (che era poi l’unica che si vedeva grazie a Dio, infinitamente meglio dell’attuale porcheria italiana) perché censurato, ritenuto scabroso per poche e confuse scene di nudo nelle riprese notturne in acqua. Bellissime sensazioni anche a livello visivo. Per ‘Tongue’ scende dall’alto una palla frangiluce in stile disco anni ’70. “Don’t lay that stuff all over me.
It crawls all over”
. Amo quella canzone, speravo la facessero. Se solo ripenso alla mia prima reazione a ‘Monster’, pochi mesi prima: “Che merda che han fatto”. Si veniva da ‘Out of Time’ e ‘Automatic For The People’, non potevo non restare spiazzato. Cambiai idea presto e mi innamorai di quel nuovo volto dei R.E.M., diverso dalle bucoliche e scapigliate foto anni ’80 sui miei calendari. Questa era la band del primo Stipe rapato a zero, delle magliette con la stella, dello scimmiottamento glam e delle chitarre di Thurston in visita di cortesia. I R.E.M. più sottovalutati di sempre, almeno fino al terribile crepuscolo di ‘Around The Sun’. “Non mi è piaciuta molto la scaletta”. E’ il primo tour dopo i successi planetari. Immaginavo avrebbero fatto più cose dai miei dischi sino ad allora preferiti. Mi rammarico per non aver sentito ‘Radio Song’, possibile? Questa cosa oggi mi fa morire dal ridere. Evidentemente KRS-One in valigia non ci stava proprio, no davvero. Nonostante questo torno a casa con un tale carico di emozioni che quella notte non dormirò, e l’indomani in classe sarà tutto uno scambio di opinioni, un decantare con chi non c’era quanto fosse stato figo l’evento della sera prima. Mi portano a casa con la sensazione del reduce, felice di esserlo. This here is the place where I will be staying. Mi piace questa cosa. La musica, I concerti, l’adrenalina, il colore. Abbiamo cantato tutti insieme, abbiamo battuto le mani, è stato esaltante. Vorrei farlo di nuovo, presto, so già che è questo che mi andrà di fare negli anni a venire, comprare CD, ascoltare gruppi come questi Grant Lee Buffalo che la sponsorizzazione se la meritano tutta. Questo a prescindere da cosa mi riserverà il futuro, non è importante. Il futuro con tutti i suoi punti interrogativi verdi sparati sullo schermo come schegge impazzite, ad accompagnare il mio completo delirio sulle note di ‘It’s the End of The World as We Know It (and I Feel Fine)’, la canzone che ha chiuso questo primo fondamentale concerto della mia vita e tutti i concerti dei R.E.M depositati come scaglie dorate sul pavimento di ogni stanza dei miei ricordi.
 
 
 
 
Questa è anche la storia di un ritorno, un po’ come il “tempo di Muriel” nel film di Resnais, un po’ come il fantasioso gioco di specchi di ‘L’anno scorso a Marienbad’. Un paio di anni dopo la serata descritta qui sopra in un’accozzaglia di lampi e sensazioni, accatastate alla buona e senza troppo criterio fuori dal ripostiglio della memoria, mi si presenta una curiosa occasione per rituffarmi nella magia penetrante di quel giorno lontano. Spulciando un dettagliatissimo sito dedicato ai live non ufficiali dei R.E.M. scopro che del concerto al Palastampa esiste una registrazione di cui poco si sa, e che ne è stato tratto un CD. Le mie ricerche certosine nei negozi che trattavano proprio bootleg e importazione (a Torino c’era Maschio in piazza Castello che era eccellente, davvero fornitissimo, ed ovviamente ha lasciato il posto alla miliardesima bottega di abbigliamento, fanculo!) non mi hanno mai portato al prezioso reperimento di questo benedetto ‘Last Defenders of the Faith’. Poi la rete, in tempi recenti, mi ha dato ancora una mano. Su ebay un giorno il disco l’ho trovato. Non proprio ad un prezzo popolare (35 dollari, spedizioni escluse), in Brasile. E’ valso l’acquisto comunque, assolutamente. Ero scettico quando è arrivato. Qualche foto dal tour di Monster nel booklet, ma poteva essere stata scattata altrove. Una dettagliata rassegna di tutte le date del tour, comprese quelle cancellate per le sventure occorse a Bill, con ben evidenziata quella di Torino. “Sarà davvero il concerto di quella sera?” mi sono chiesto. L’ho caricato sull’ipod, poi quella stessa notte l’ho ascoltato, sdraiato a letto, al buio. Non immaginavo di potermi ritrovare schiantato a tal punto dentro un ricordo, è stata un’esperienza potente e commovente al tempo stesso. Come svegliarsi nel vivo da un sogno vedendo riaffiorare ancora a caldo determinate immagini, impressioni, suoni, parole. Le grida di uno spettatore che urla “Michael, Michael” nella bolgia dopo il primo brano, e potrei essere io, tranquillamente. Le parole di Stipe recuperate come per magia e riconosciute, senza possibilità di equivoci con altre date o altri tour. Il bootleg è quasi inevitabilmente incompleto, con solo 17 delle 25 canzoni eseguite. La qualità della registrazione è tutt’altro che infame, lacunosa in alcuni frangenti, apprezzabile in altri. Più che altro è sufficiente per dare luogo a quell’effetto madeleine che viveva nelle mie speranze prima dell’ascolto, prima che il concerto si rivelasse effettivamente ritrovato.
 
Qualche considerazione, traccia per traccia.
1- ‘WTFK?’: apertura rombante, con i fendenti della Rickenbacker di Peter che tagliano l’aria con limpida irruenza. Quell’anno era un must questa canzone, una scatto rock che sapeva di rinnovamento ma non li avrebbe portati lontano.
2- ‘Crush With Eyeliner’: solidissima anche questa, uno dei cinque singoli pubblicati nei mesi del tour di Monster, eseguita con una vitalità elettrica di grande impatto.
3- ‘Disturbance At The Heron House’: perfetta, scintillante, con uno straordinario Mills sui cori ed un finale frenetico da parte di Stipe che la presentò come “A song about the revolution”. Non la conoscevo, era destino ci andassi pazzo, come per tutto ‘Document’.
4- ‘You’: interessante per capire le ragioni delle ripetute esclusioni future di questo brano. Intensa, cupa, pulsante ma falcidiata da una serie di atroci stecche di Michael, all’epoca attribuite ad un’ernia che lo tormentò in quella prima fetta di tour. Sia come sia, in seguito è stata sistematicamente trascurata dal vivo. Una sofferenza, peccato.
5- ‘I Took Your Name’: cattivissima, con un grande Bill ed un Michael luciferino.
6- ‘Try Not To Breathe’: il primo recupero da ‘Automatic’ dopo ben sei brani da Monster e pezzi più vecchi è accompagnato dal pubblico in un coro ad una sola voce, quasi da stadio, per una versione insolitamente monumentale.
7- ‘Revolution’: “Questa è una cansone incaszato”. Me le ricordo bene le incerte parole di Michael in italiano. Scritta proprio nei primi giorni di quel tour mondiale, non ebbe la fortuna di una ‘Wake-up Bomb’ e non approdò nella collezione delle fatidiche ‘New adventures In Hi-Fi’, per quanto riflettesse adeguatamente l’energia di quei giorni di viaggio convulsi e trionfali. Di certo accentuò la piega rock della serata al Palastampa.
8- ‘Tongue’: fantastica, accompagnata stoicamente da un lungo battito di mani ritmato. Ottimi il falsetto di Michael, i cori di Mike, l’assolo di Peter. La versione vissuta a Bologna quattro anni dopo sarebbe stata immensa, anche visivamente. Questa comunque l’ha quasi eguagliata, come confermato dal boato d’applausi finale.
9- ‘Country Feedback’: “This is my favourite song” afferma Stipe introducendola, affermazione peraltro mai smentita anche in seguito. Accompagnata dalle meravigliose immagini notturne di Cohen, è stata in agilità uno dei momenti più emozionanti della serata. La parte in libertà affidata all’elettrica di Buck si è presentata ben diversa dall’originale presente su ‘Out of Time’ ma anche da quella memorabile di Wiesbaden nel 2003 (forse la più bella versione di questa canzone mai registrata dal vivo), a conferma che CF è sempre stata un ottimo banco per le improvvisazioni live del chitarrista. Una coda blueseggiante un po’ più breve, in questo caso, ma non meno intensa o trascinante, con i continui avvitamenti di una chitarra capricciosa, malinconica, decadente. ‘Country Feedback’ è un brano semplicemente magico, sempre e comunque. Questa la spiegazione più plausibile.
10- ‘Losing My Religion’: Michael è in vena di scherzi e parla di un pezzo nuovo di zecca, suonato oggi per la prima volta apposta per noi. Siate pazienti, la richiesta di questo strafottente campione d’intrattenimento. Quando sente le prime tre note di quel mandolino elettrico il pubblico esplode. Brividi. Ininterrotto il cantare di tutti in coro, costante il battito di mani (me le ricordo roventi, alla fine). Il ritornello viene dilatato sulla parola ‘Heard’, come Stipe faceva sempre in concerto nei primi anni ’90.
11- ‘Departure’: nella scaletta del concerto e nella lista sul bootleg è ancora indicata come ‘Baby Come’, così si chiamava allora. Le parole di Stipe confermano che si tratta di un pezzo freschissimo, scritto meno di una settimana prima (in effetti il viaggio descritto nella prima strofa lo conferma: a Singapore suonarono il 7/2, a San Sebastian il 15/2). Calorosa questa che è forse la prima ‘Departure’ suonata ad un concerto. Anche piacevolmente caotica.
12- ‘I Don’t Sleep, I Dream’: partenza tenebrosa, con un eccellente mike al piano ed un Michael bravo nonostante qualche incertezza vocale.
13- ‘Star Me Kitten’: un po’ impastata all’ascolto, con la voce che si percepisce a fatica. Ma Michael la congeda sugli applausi con quell’incredibile “Fottimi – piccolo – gatto” che non ho mai dimenticato.
14- ‘Get Up’: pimpante e gioiosa. Un’altra delle preferite da Stipe, tra le altre cose.
15- ‘Orange Crush’: uno dei capisaldi per ogni concerto dei R.E.M. che si rispetti. Rocciosa, notevole, assolutamente impeccabile. Peccato non abbiano fatto ‘Turn You Inside-out’, una delle mie preferite di ‘Green’. La regalarono ai milanesi cinque giorni dopo.
16-  ‘Everybody Hurts’: direttamente dai bis, subito dopo l’indimenticabile ‘Let Me In’, uno dei pezzi che più attendevo all’epoca. Partenza alla camomilla ma Stipe decisamente bravo. Soliti cori di tutto il palazzetto, solita ovazione finale.
17- ‘Star 69’: introdotta dalla presentazione dei musicisti (elaborata per i già arruolati Scott McCaughey e Nathan December, un semplice "That’s Mike…Peter…Bill…I’m Michael” per i titolari), una chiusura adrenalinica del set regolare.
 
Di seguito la scaletta compresa della serata. In rosso i pezzi esclusi dal bootleg e, in un certo senso, sepolti per sempre.
 
· What's The Frequency, Kenneth? · Crush With Eyeliner · Disturbance At The Heron House · Me In Honey · Circus Envy · You · I Took Your Name · King Of Comedy · Try Not To Breathe · Revolution · Tongue · Man On The Moon · Country Feedback · Losing My Religion · Departure · I Don't Sleep, I Dream · Star Me Kitten · Get Up · Orange Crush · Star 69
 
· Let Me In · Everybody Hurts · Pop Song 89 · Bang And Blame · It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)
 
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