Da dove sto chiamando  _Letture

      

Ho qualche problema con i racconti. La loro natura di istantanee brucianti è qualità che apprezzo, specie quando la sintesi diventa arte della parola esatta, selezionata e pesata attentamente. Tuttavia, oggi come oggi, da lettore non mi ci ritrovo. Discontinuità, precarietà, finali magari eccelsi ma che irrompono brutali schiantando quel poco che si era faticosamente costruito. Il mio presente di fruitore è fatto di romanzi, lunghi o corti non ha importanza. I racconti invece li evito come la peste. Ho riportato indietro (in biblioteca) più di un volume quando mi sono accorto che era in questo che mi ero imbattuto, tradito magari da una copertina particolarmente invitante. Con Carver però non l’ho fatto. Ho preso questo libro con piena consapevolezza, una volta che non mi era riuscito di trovare di meglio. Mi son detto: “OK. Proviamoci lo stesso”. Non è stato un male, considerato il livello pregevole della scrittura. Ma ho fatto fatica.                                                                         Una volta era tutto diverso. Da bambino divorai i racconti di Kipling, di Wilde e Gogol’, per dire, alle medie feci lo stesso con quelli di Buzzati mentre a diciotto anni ho avuto un’autentica folgorazione per ‘Le botteghe color cannella’ di Bruno Schulz (tre lunghi racconti in pratica) e per il ‘Ritratto dell’artista da cucciolo’ di Dylan Thomas, indimenticabile. Poi un lungo oblio. La ricchissima selezione carveriana è stata come uno di quei farmaci da assumere in dosi omeopatiche e solo ogni morte di papa. Un talento strepitoso negli episodi migliori, unito al mestiere notevole nei momenti meno esaltanti. Nel complesso non un capolavoro, secondo me: potrebbe diventarlo scremando i riempitivi. Comunque un corpus organico – e qui sta la sorpresa – per come ha saputo delineare anche trenta/quaranta anni fa un’umanità che è attuale oggi come non mai. Detto questo, non intendo leggere un racconto che sia uno per i prossimi dieci anni.

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“Le cose cambiano, e senza che uno se ne accorga o lo voglia”                                                                                       E’ un universo desolato e desolante quello che affiora dai trentasette racconti che Carver in persona selezionò e raccolse in quella che considerava, evidentemente, la migliore delle sue antologie. Desolante ma mai eclatante, visto che i piccoli drammi quotidiani dei suoi protagonisti si consumano sempre per accumulo, lentamente, come per via di un logorio silenzioso ma implacabile che lascia solchi profondi nel loro vissuto senza tramutarli per questo in caricature grottesche. 

<<Siamo tutti gente per bene, tutti noi, ma solo fino ad un certo punto>>confessa con una certa stanchezza la voce narrante di ‘Menudo’, alla stregua di un rappresentante eletto per tutte le altre figurine carveriane. Una folla di individui comuni, quindi, mediocri ma accettabili nella loro ordinarietà, come quelli che popolavano i film di Altman ieri (non solo il pluricitato ‘Short Cuts’) e di Todd Solondz o dei fratelli Coen oggi. Personaggi normali annientati da un senso di precarietà dilatato ad oltranza, sospesi di fronte all’incognita di un futuro non nominato ma facilmente pronosticabile. Uomini e donne i cui scheletri negli armadi, dentro i cassetti nascosti del formalismo più bieco, davvero non si contano, rendendo per forza di cose esseri speciali i vicini del villino accanto, quelli che non tradiscono il coniuge e rincasano ogni sera alla stessa ora.

L’umanità di Carver è angosciante per come ci somiglia, ed è angosciata. Trascorre notti insonni e si apre a “terribili” albe come ‘La moglie dello studente’, persa tra ricordi ormai inutili ed il sogno irrealizzabile di “una buona vita onesta”, senza preoccupazioni economiche di sorta e senza errori nel percorso. A ritagliarsi spazio sono soprattutto i padri ed i mariti logorati nei loro affetti più profondi, umiliati da forme di dipendenza sempre più degradanti e traditi da eccessivo infantilismo per l’ostinazione nel negare di aver perso ogni ruolo nella vita dei propri cari. Uno stuolo di maschi adulti in fotocopia, incapaci dell’ultima parola ed inadatti a sostenere con la minima forza le proprie ragioni: svuotati, schiavi dell’alcool in ogni frangente decisivo e in fondo condannati ad una “lunga serie di tragedie da quattro soldi”. Quelli tratteggiati ad esempio nel formidabile ‘Vitamine’, in un quadro di sfiducia ed insoddisfazione assoluti, sono antieroi che letteralmente si lasciano vivere oppure fuggono da tutto e tutti, dando forma al più sconfortante dei controcanti per il caro, vecchio, guasto Sogno Americano.

Tra le critiche più comuni ai racconti di Carver c’è la tendenza a contestare che i suoi personaggi non “sanguinano” abbastanza, che manca il pathos, sacrificato per lasciare spazio al vero: noia, depressione, apatia, risentimenti pallidi e senza bersagli veri e propri. L’osservazione è corretta ma è sbagliato il presupposto, ovvero che questo presunto limite non sia il frutto di una consapevole scelta. Forse proprio per questo Carver è amatissimo più da chi scrive che non dai soli lettori, specie se assuefatti alle forzature fasulle della fiction.
I temi più cari allo scrittore statunitense non sono cambiati con il tempo. Parabole di piccola grettezza quotidiana, un certo talento nel rendere l’amore sfiorito o la magia dei sentimenti perduta per sempre e poi, beh, quell’occhio straordinario nel cogliere le velature sottili, il repertorio sterminato di allusioni e non detti nella vita coniugale non così esaltante della middle-class, tra perversioni spicciole e sesso consumato più per tedio o abitudine che per passione. La coppia è, giocoforza, quasi sempre protagonista assoluta: riassemblata dopo uno o più fallimenti e destinata allo stesso pantano di stanchezze e incomprensioni, immancabilmente. A cambiare è solo il particolare momento in cui Raymond decide di sottoporla al giudizio impietoso della sua ideale macchina fotografica, per cui l’amore ora sembra un’energia che può tutto, ora è un coacervo di dubbi e preoccupazioni, ora un grumo di catarro che finirà col soffocarci.

Affrontare questi racconti rimane un’esperienza impegnativa e vincolante, visto che le pause per riflettere tra un segmento e l’altro sono elemento pressoché indispensabile e la spensieratezza non è concessa. La scrittura è piana, sobria, toccante ma lenta, come la presa di coscienza del padre nell’eccezionale ‘Febbre’, tra frustrazione, incomprensione e dignità. L’essenzialità del tratto è necessariamente funzionale. Ogni parola ha il peso corretto ed è sistemata al posto giusto, in armonia tra le altre. Uno stile minimale ed evocativo in maniera mirabile. L’unica cosa davvero superflua è l’aspettativa, in chi legge, che debba capitare per forza qualcosa di memorabile. E forse la vera grandezza di Carver risiede proprio nell’onestà di questo orientamento, nell’understatement, nelle parole in meno, nell’implicita significanza che lascia naufragare senza clamori le illusioni mal alimentate dei protagonisti.

A interessare il narratore dell’Oregon era in fin dei conti la persona, nuda e cruda, miscela non esplosiva di emozioni, tic, manie, timori ed umori, in ampia gamma di sfumature. La resa delle psicologie – meglio, delle condizioni psichiche – di queste pallide figure alla deriva è spesso eccezionale: dai preconcetti, la gelosia e le misere cattiverie del marito in ‘Cattedrale’(ribaltati nella scoperta di un’intesa umanissima e sorprendente) al fortino di solitudine ed indignazione in cui si barrica la moglie de ‘Con tanta di quell’acqua a due passi da casa’, dalla frustrazione macerante di ‘I Chilometri sono effettivi?’ alla delicata disperazione di chi non ha più nulla (‘Perché non ballate?’) o l’ossessione cieca che consuma il vecchio Dummy in ‘La terza cosa che ha ucciso mio padre’. Tutti aspetti lasciati per lo più all’intuizione del lettore, osservati da una comoda distanza, non esasperati. Come l’amore evocato nel racconto forse più celebre del lotto, materia che comunque la si guardi rimane indefinibile, irriducibile ad ogni logica spiegazione. Come la normalità, la banalità del dolore per una perdita senza alcun senso, affrontata in ‘Una cosa piccola ma buona’ evitando ogni tentazione retorica o la comodità ruffiana del sentimentalismo.

In questi racconti non c’è alcuna pretesa di insegnamento, nessuna morale nascosta, solo lampi di verità dietro gli schermi incolori del quotidiano, in una routine di intime labili passioni descritta sempre sottotraccia, di battiti e pensieri che nascono e muoiono senza mai tradursi in azioni o cambiamenti autentici. Gli antieroi di ‘Da dove sto chiamando’ sono infatti individualisti per lo più immobili, impassibili mentre tutto cambia sullo sfondo, solitudini fatte di rancore latente, felicità impalpabili o solo apparenti e crolli di nervi mai fragorosi, soffocati quasi. Parlerei di capolavoro, non fosse che non tutto è veramente indispensabile, non tutto è all’altezza di una media comunque invidiabile. Gli scampoli di amara meraviglia dell’apertura (‘Nessuno diceva niente’, magico) e di tanti altri passaggi sono purtroppo bilanciati da qualche divertissement di troppo, dove l’atmosfera o la tensione prevalgono su storie di fatto assenti o un taglio meno impressionista (e più convenzionale, come il simil-reportage televisivo di ‘Che si fa a San Francisco?’ o la lettera della madre in ‘Perché, tesoro mio?’) non può che far storcere il naso. Anche per chi non ama i racconti brevi, comunque, l’occasione per una lettura importante.

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