The Ghost of the Mountain

       

Questa è sorniona e curiosa, ma abbastanza divertente. Mi sa che in quell’agosto del 2013 non era uscito un emerito fico, se mi sono trovato costretto a scrivere dei Tired Pony. Di certo questa anti-recensione nemmeno mi ricordavo di averla scritta, ma leggerla ora mi ha regalato almeno un paio di sorrisi. A ben vedere è l’ennesima riflessione sui R.E.M., sulla loro parabola discendente, sull’uscire o meno con dignità. Ne è uscito un pezzo del tutto informale su due musicisti che ho sempre amato molto e che hanno deciso di percorrere strade completamente diverse per congedarsi dal successo. Certo, sarebbe stata l’occasione per parlare del sophomore del supergruppo guidato nominalmente da Gary Lightbody, uno che – volendo essere sinceri – non mi ha mai detto un cazzo. Nel caso di Monthlymusic questo è rimasto a lato, spunto più che marginale. Ma ho corretto un po’ il tiro su Ondarock, dove ho analizzato (si fa per dire) l’album un po’ più nel dettaglio. Dubito sinceramente ci siano fan dei Tired Pony interessati ad approfondire ma, nel caso, quell’altra analisi giace qui.
 

Ceci n’est pas un compte rendu

Una catasta di considerazioni lasciate fuori a prender aria, semmai.
Pensieri affettuosi invecchiati in fretta, nei lunghi attimi di confino tra una scintilla e l’altra.
E quando questa s’accende, eccomi ancora una volta lì, a soffermarmi su Bill e Peter. Occasioni molto rare ormai, un tempo frequenti quanto gli sguardi al calendario sul muro della mia camera, dove Mr. Berry e Mr. Buck trovavano spesso spazio in ampi ritratti giovanili. O quei loro passaggi invocati come benedizioni sul mangianastri, sul walkman, sullo stereo. Sul videoregistratore anche, dovunque mi riuscisse di raggiungerli.
Bill e Peter sono stati i prediletti in una compagnia di beniamini senza pari. Escluso Michael, certo, voce carsica e feticcio scapigliato al di fuori di ogni catalogo. Tra gli umani però c’erano loro, soldatini umili e compagni spassosi, destinati a restare intagliati nel cuore. Bill la scimmia, che sperimentò ogni sorta di droga non letale prima di legare con Mike e di regalare a me, almeno a me, un modello inarrivabile di sezione ritmica. E Peter il fratello maggiore, quello da cui farsi consigliare e prestare i dischi, quello che mai ti avrebbe bucato le palle, in senso letterale e figurato.
Del batterista trattengo con piacere la curiosità di un privilegio. Prescindendo dalle pallide comparsate di copertina per i tre veterani agli ultimi fuochi della carriera, è stato proprio lui il solo a venire immortalato sulla cover di un loro album. Lo sguardo malinconico incorniciato da quel suo sensazionale ponte ciliare e, appena sotto, un paio di bisonti virati in seppia. Spettri di una probabile estinzione dalla ricca sfilata della vita? Non è dato saperlo, ma gli incalliti dietrologi di “Abbey Road” e dello scalzo rimpiazzo di McCartney avrebbero anche potuto spenderci qualche riga, volendo.

Bill amava concedere il pass per concerti a una torma di dinosauri in plastica amici suoi, per esorcizzare forse le ombre del proprio declino artistico. Ma potrei sbagliarmi, e sarebbe Peter quello che stipava all’inverosimile i cocuzzoli degli amplificatori per far vibrare di passione triceratopi e stegosauri, finalmente alleati. Sia come sia, proprio nel potere allegorico dei grandi rettili risiede un ultimo nesso tra i due, oggi così distanti. A un estremo Bill, chiamatosi fuori al momento giusto per non privarsi dell’opportunità di una seconda vita. Da comune mortale. Da farmer in Farmington come recita Wikipedia, anche se si stenta a crederci. Dalla parte opposta Peter, che è rimasto invece fino all’ultimo e nemmeno avrebbe chiuso bottega, immagino, fosse dipeso da lui. Ha recitato con abnegazione persino commovente la parte del sopravvissuto, un po’ come i R.E.M. degli ultimi dieci anni e più, quelli senza Bill insomma. Più che interpretarla l’ha introiettata, quasi si trattasse di una missione. Con sincerità, virtù che nessuno si sognerebbe di contestargli, ma anche con patetica prevedibilità e occhi ogni giorno più tristi.

Non ha mai smesso i gilet scuri e le orribili camicie da cowboy del ragazzino lungagnone e magrissimo approdato ad Athens dalla California, quello che lavorava al negozio di dischi dalle parti dell’Università. Il fisico però non è stato altrettanto perseverante, integerrimo né collaborativo, e oggi Buck ha l’aria di un vecchio levriero afgano, mogio e appesantito. Nella band la sua chitarra aveva perso spazio e smalto in egual misura: non più il jingle-jangle byrdsiano che rese classico il marchio, né le sventagliate aggressive degli album più impegnati o la scorpacciata di tremolo ed e-bow lungo tutti i ’90. Al loro posto, una manierata controfigura del felice populismo acustico sfoggiato in quel paio d’anni di frastornante sovraesposizione planetaria – il segmento lampo “Out of Time” —> “Automatic For The People” – costretta a sgomitare oltretutto col pianoforte sempre più ruffiano di Mills e con il fluo pacchiano della sua scorta di sintetizzatori.

Ridimensionato in casa ma riluttante per carattere al capriccio polemico, Peter ha silenziato la sua bulimia di musicista insaziabile ricercando gratificazioni anche minime in un’operosa marginalità collaterale. Dai Minus 5 ai Venus 3 ai Baseball Project. Da Ken Stringfellow a Robyn Hitchcock a Steve Wynn. E dai Tuatara ai Tired Pony, sempre un gradino più in basso e sempre in compagnia del quasi-R.E.M. Scott McCaughey. Particolarmente crudele il Nomen omen dietro l’ultimo progetto, con un pony stremato al posto del baldanzoso purosangue di ieri. Dopo la discreta confessione della prima fatica – “Il posto da cui siamo scappati” – e lo sfizio di un esordio solista a cinquantasei anni suonati, arriva oggi un sophomore destinato a smorzare ulteriormente gli entusiasmi degli affezionati. Un prodotto gradevole, confezionato con garbo e attento alla calligrafia. Ma anche troppo timido e immacolato, laddove il tocco ruvido non passerebbe certo per una pretesa spropositata. Se perfino una canzone intitolata “Sangue” suona minata in partenza dall’anemia, fingere che sia tutto a posto varrà quasi quanto una medaglia olimpica del metallo più prezioso. Il grosso problema di questo “The Ghost of the Mountain” è che tutto sembra costruito per assecondare la levigata malinconia e quel tono da crooner al velluto del frontman belloccio, Gary Lightbody, col gruppo sacrificato alla stregua di una lussuosa appendice. Per Peter è lecito parlare di umiliazione, anche se lui non lo ammetterebbe neanche sotto tortura. Si limita a firmare qualche autografo con la Rickenbacker, prima di scomparire nel marasma biancorosso di coretti e organi vaporosi, intruppato senza fiatare come un beffardo Wally alla fiera sui Docks. Gli arpeggi leggendari della sua elettrica ridotti a semplici orpelli decorativi, un motivo bluastro sulla tappezzeria di un anonimo alberghetto in provincia.

Non me ne voglia Buck, se scelgo di usare contro di lui le parole del primo titolo in scaletta.
I don’t want you as a ghost.
Non abbiamo bisogno di surrogati, di riempitivi, di talenti sbiaditi e consumati. Non vogliamo anime dannate dalla beatitudine fasulla di sogni protratti troppo a lungo. L’album dei ricordi è già completo, ed è bellissimo. Quasi quanto un musicista famoso che si reinventi contadino.

Ma questa, in fin dei conti, non è nemmeno una recensione. Soltanto un cruccio personale senza alcuna impellenza. Lo scherzo di una memoria che si sia dimenticata di quanto può fare cilecca. O una preghiera senza destinatari nelle alte sfere, se preferite.
E finisce qui.

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