Obituaries

My friend Blue he runs the show…

        

E così alla fine alle esigenze di sceneggiatura ci si è piegato, Scott Weiland. Da quanti anni ci giravamo intorno, parlando del personaggio? “Questo è un altro che se ne andrà prima del tempo”, era quasi un mantra negli anni d’oro del grunge, per noi ragazzini inesorabilmente accattivati dall’alone maledetto di quel plotone di rockstar sul marcio andante, unica generazione a tenere testa a quella mitologica di fine anni sessanta. Col tempo l’adagio aveva perso vigore, con Scotty caduto fisiologicamente in disgrazia, un dimenticatoio in parte meritato tra colpi di testa e rinculi espressivi, in parte fatto scontare come una pena per molti versi ingiusta, appioppatagli in qualità di inarrivabile capro espiatorio. Di recente avevo affrontato il suo ultimo album solista, la nemmeno così infame opera prima intestata ai Wildabouts, e in quell’occasione avevo scritto di lui non senza affetto come di un sopravvissuto, lasciando intendere come la sua musica fosse ormai ben poco in sintonia con il presente. E’ facile immaginare che se ne fosse accorto anche lui, prima degli altri, ma in fondo lo aveva dichiarato anche nelle ultime interviste: la voglia ridotta al lumicino, continuava a salire sul palco solo per tirare a campare, pagare le bollette, il mantenimento dei figli e gli alimenti alle ex mogli. Un tramonto speso in piccoli club di periferia – lontanissima l’eco delle arene e dei sedici milioni di copie vendute con i primi due album degli Stone Temple Pilots – che comprensibilmente gli stava proprio stretto. La causa della morte non è ancora stata rivelata, i comunicati si limitano a un laconico “decesso durante il sonno”, ma ha forse ragione chi scrive che i bookmakers la sua overdose non la quotano nemmeno.

Sarebbe il finale più triste ma anche il più scontato, e nonostante questo mi auguro si tralascino i moralismi di rito: sul suo conto se ne sono sempre dispensati ben oltre la soglia tollerabile, con tutto che Weiland non si dannava certo l’anima per apparire simpatico a forza, e in fondo poi cosa conta? Personalmente mi sento affranto, come ogni volta che se ne va un artista che in qualche modo mi ha fatto sognare. Con lui è capitato tantissimo tempo fa. Ai tempi di “Purple”, il fortunato sophomore dei Pilots uscito col cadavere di Cobain ancora caldo, nel 1994. Tre anni dopo mi sarei tinto i capelli di rosso fuoco, perché quella era la sua linea all’epoca di “Interstate Love Song”, “Vasoline” e “Lounge Fly” e, si sa, gli adolescenti sono “leggerini” quando si parla di corredi estetici. La verità è che Scott aveva tutto per piacere ai più giovani: era obiettivamente un bel tipo, il physique du role rispettava tutte le direttive, aura maudit e storiacce di droga nel suo curriculum occupavano regolarmente le posizioni più alte assieme a una voce tra le più belle di quegli anni, persino più versatile di tante altre meglio accreditate. Un po’ orco à la Layne Staley, un po’ rocker a tutto tondo, talvolta crooner raffinato con in serbo qualche squisitezza soul-retrò. Per non farsi mancare nulla, poteva vantare anche uno stuolo infinito di detrattori, i tanti che non avevano avuto alcuna remora a liquidare il gruppo come una colossale presa per i fondelli. In quel periodo gli attacchi che la critica snob riversava sui malcapitati californiani, rei di avere cavalcato l’onda grunge per bieco opportunismo – loro che erano di San Diego e non di Seattle – nemmeno si contavano. Di certo la band resta tra le più malignamente denigrate di sempre, relegata spesso e volentieri nell’angolo come una congrega di lebbrosi, e dove non arrivarono gli imbrattacarte di professione fu qualche collega burlone a eccedere nello sberleffo (come dimenticare i Pavement di “Range Life”?).

        

Ri-ascoltate oggi, canzoni come “Plush”, “Meatplow”, “Silver Gun Superman” o “Seven Caged Tigers”, tra le altre, fanno sentire pienamente a posto con la propria coscienza chi, come il sottoscritto, non ha mai prestato troppa attenzione alle malevolenze di cui sopra. Fanno ancora una porca figura tutte quante, specie se ci si sofferma a considerare lo stato nauseabondo in cui versa il rock mainstream da un buon decennio e mezzo. Meno rivoluzionari dei Nirvana, meno dannati degli Alice In Chains, meno belli dei Pearl Jam, meno cazzoni dei Mudhoney, meno tenebrosi degli Screaming Trees e meno metallici dei Soundgarden. Meno tutto quello che volete, o forse semplicemente più adatti alle classifiche di vendita, però nel mucchio gli Stone Temple Pilots ci stavano eccome, a pieno diritto. Grazie ai fratelli DeLeo, autori validissimi, ma soprattutto grazie a un frontman con i fiocchi, vocazione da performer vero e sublime faccia di bronzo, quale era Scott. Che è stato tanti interpreti in uno, trasformista all’acqua di rose (ma efficace) fuori e sensibilità multiprospettica dentro: dalla cattiveria (simulata, più che altro) dell’hard-rock al granito di “Core”, al populismo ruffianotto e irresistibile di “Purple”, dalle digressioni kitsch-pop di certi brani del controverso (sottovalutato, tanto per cambiare) “Tiny Music… Songs For The Vatican Gift Shop” alle inattese gentilezze paterne di “Shangri-la Dee Da”, passando per gli eccessi un po’ tamarri della parentesi Velvet Revolver (la matrice per le ultime cose dentro e fuori i Pilots, purtroppo) ma anche per gli squinternati slanci sperimentali di un album sfortunatissimo come l’esordio solista “12 Bar Blues”, fascinoso, avanguardista e accattone, con più di un passaggio indimenticabile (anche per merito dei produttori Daniel Lanois e Blair Lamb).

Dal vivo l’avevo intercettato solo cinque anni fa all’Alcatraz, nel tour della reunion della sua band principe: appesantito in modo preoccupante, quasi prossimo all’ennesimo licenziamento della carriera e, prevedibilmente, drogato come un cavallo. Sul filo della nostalgia canaglia, fu comunque un live intenso e divertente, mendace eppure languido nella promessa di una rinascita che non sarebbe mai venuta. In fondo ha avuto moltissimo Weiland, e tutto o quasi ha dissipato per debolezza e per scriteriata aderenza ai canoni di genere, una personale via crucis che lui ha sempre portato avanti con ostinato masochismo. A differenza di tante altre anime del medesimo circo, tormentate quanto lui se non di più, questo spreco evidente non gli è però mai stato perdonato. L’accusa di cinismo e falsità, gratuita ma immancabile nel suo caso, ha con ogni probabilità fatto lievitare un conto di per sé già salatissimo. Qualcuno, c’è da starne certi, gli avrà fatto una colpa anche per non essersi immolato ai bei tempi, per aver disatteso i pronostici infausti perché in fondo a quella pellaccia ci teneva. Beh, è oltremodo amaro da rilevare, ma l’insostenibile crepuscolo in cui sentiva d’essersi cacciato non rappresenta certo la più agevole delle vie di uscita, e la sofferenza patita nel declino lento e inesorabile, lontano dai riflettori più abbaglianti, merita comunque rispetto. Dettagli che contano poco, ora che se ne è andato anche lui. Per colpa della compagna fetente di tutta una vita o, chissà, dormendo davvero il sonno dei giusti, quasi si trattasse di un pietoso risarcimento per i troppi travagli, per le infamie reiterate e per il non essersi rivelato poi così caro agli dei: quarantotto anni, età stronzissima per congedarsi. Troppo vecchio per morire giovane, troppo giovane per morire vecchio.

Fai buon viaggio Scotty, ci mancherai.

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I only wanted to be sixteen… and free

        

L’altra notte non riuscivo a prendere sonno. Come talvolta capita tra un volteggio e l’altro nel letto, del tutto incapace di imporre la sordina al cervello nelle sue divagazioni retrospettive e fuori orario, mi sono ritrovato non so come a pensare al 1995. Annata di dischi a loro modo memorabili, di svolte importanti mie come del rock alternativo. Forse mi ha spaventato la consapevolezza che il 1995 era venti anni fa, anche se a me sembra ancora l’altro ieri, o forse è stato l’aver visualizzato il nome del desaparecido Richey Edwards provando a immaginare il più comodo degli anniversari in tema. Lasciando quel misterioso primo febbraio e riportandomi sull’attualità del mese in corso, per provare a celebrare una ricorrenza con ancora un minimo di puntualità, mi è tornato in mente un morto certificato e non solo apparente, forse dimenticato oggi ma per il sottoscritto ancora sufficientemente “caldo”: Shannon Hoon, il frontman dei Blind Melon, scomparso il ventuno di quel mese e di quell’anno per un’overdose di non ricordo quale droga, capirai che originalità. Perché tirare fuori dal dimenticatoio una figura volente o nolente di seconda fascia, per giunta fastidiosamente prevedibile nella sua parabola di rockstar bella, maledetta e con il finale già scritto? Beh, forse perché per me questo scavezzacollo col microfono non è stato proprio uno tra i tanti. E poi perché non riesco a togliermi dalla testa, anche oggi che le sue canzoni non le ascolto praticamente da secoli, che il suo potenziale fosse davvero fuori dal comune, almeno per quei tempi, che con un’altra testa e un’altra disciplina questo ragazzo avrebbe anche potuto diventare un piccolo eroe generazionale.

Invece se ne andò da pirla durante un tour della sua band, a New Orleans, nel momento forse migliore della carriera, con la beffa di quel mese scarso di ritardo per l’iscrizione all’esclusivo club delle celebrità del rock schiattate a ventisette anni (Hendrix, Morrison, la Joplin, Brian Jones, Cobain ed il succitato Edwards, pur con il suo bel punto interrogativo) . Una popolarità già più che discreta, almeno dalle sue parti, un opportunismo evolutivo prezioso – prendere le distanze dal carrozzone grunge ormai agonizzante e reinventarsi apostolo di un’indie-rock ante-litteram, con il bonus di un pedigree roots non artefatto e ancora tutto da spendere – e a casa, non fosse abbastanza, una figlia appena nata dalla quale tornare ad amplificatori spenti. Nico Blue, la bambina, rimase invece orfana, ed è difficile immaginare che si sia mai sentita in qualche modo compensata di quella perdita dal fatto di aver prestato senza volerlo il proprio nome di battesimo al terzo album della band paterna, una raccolta di outtakes e demo in realtà, uscita postuma alcuni mesi dopo il decesso del genitore.

I Blind Melon erano spuntati dal sottobosco alt-rock quasi per caso, imbarcati da mano generosa, giusto per le lunghe chiome e le camicie a quadri di flanella, su uno dei vagoni di coda del rapido di Seattle, loro che erano tutti immigrati a Los Angeles, chi dal Mississippi, chi dalla Pennsylvania, chi – come il frontman – dall’Indiana. L’avvio si era rivelato stentato, con un EP pronto a essere pubblicato e poi inspiegabilmente abortito, ma le cose iniziarono a girare bene proprio grazie a Hoon e a una sua vecchia conoscenza dai tempi della natia Lafayette: Axl Rose, leader di quei Guns’n’Roses che all’epoca se la spassavano sulla cresta dell’onda con il loro hard-rock milionario, invitò il più giovane collega a prestare la propria voce per i cori di cinque brani nei due capitoli del fortunato “Use Your Illusion”, le celeberrime “Don’t Cry” e “November Rain” incluse. Fu un ottimo viatico pubblicitario per il gruppo, chiamato a quel punto ad accompagnare non solo le superstar californiane ma anche, nel tour di “Badmotorfinger”, una delle compagini di punta della scena grunge, i Soundgarden. Il doppio endorsement avrebbe dato presto i suoi frutti, garantendo al quintetto un contratto con la Capitol e i servigi di un produttore giovane ma già acclamato come Rick Parashar, che con Chris Cornell aveva lavorato registrando l’unico album intestato ai Temple Of The Dog, giusto due anni prima di fare il botto con “Ten” dei Pearl Jam.

Inevitabile a quel punto (e con quei riferimenti) l’apparentamento alla scena di Seattle, forzato quanto si vuole ma equivalente a una benedizione divina per quei promettenti esordienti di provincia. Il disco eponimo che ne scaturì rientrava nel genere in maniera alquanto relativa, presentando sonorità meno ulcerate e una propensione melodica molto più marcata, con concessioni a una psichedelia West Coast tardi sixties e a certe bizzarre tentazioni funk del tutto estranee al dna dei vari Mudhoney, Nirvana o Alice In Chains. Per quanto i testi di Hoon insistessero spesso sul tema della perdizione e del disagio, tanto in voga in quella fase, la musica dei Blind Melon appariva ben più spensierata e frizzante di tante altre uscite del periodo: due chitarre veloci, speziate e molto ben amalgamate, una sezione ritmica ruspante ma non cafona, registrazioni in presa diretta con scarsissimo make-up in post produzione e poi il cantato acidulo e incisivo di Shannon, spesso amplificato prospetticamente dai suoi stessi cori, a rappresentare quasi uno strumento in più nella dotazione del gruppo. Per qualche mese le vendite stentarono, ma il lancio in heavy rotation su MTV della clip di “No Rain” con la sua (fastidiosissima) bambina-ape segnò la svolta. Magari lo ricordate anche voi, nella primavera del ’93 quel video fece furore e spalancò al quintetto le porte del successo, troppo presto – evidentemente – per quel ragazzo fragile che pure riusciva a fare meraviglie con quella voce così genuina.

Io che avevo appena quattordici anni abboccai con fervore appassionato, rapito dall’appeal luminoso di questa combriccola di (apparenti) neo-hippy e dalla loro evidente armonia, la stessa che nei credits traspariva in quella illuminante dicitura, “All songs written by Blind Melon as One”, quasi si trattasse di R.E.M. più giovani. E mi andò bene, tutto sommato, meglio che con altre realtà analoghe che all’epoca, a parte l’immancabile singolo di grido, smerciavano fuffa in quantità. Sotto la crosta croccante, “Blind Melon” era invece anche ciccia, una sporca dozzina di buonissime canzoni, a basso coefficiente di originalità ma sanguigne il giusto e interpretate da un manipolo di giovani con le giuste motivazioni e la necessaria sincerità. In fin dei conti si trattava di una specie di concept sui lati oscuri e dolorosi dell’adolescenza, reso vibrante dall’onestà della prospettiva intimista, come un romanzo di formazione in forma di diario calcato dalla penna sensibile di Hoon. Detto dello smaccato populismo di “No Rain”, per paradosso (forse) l’episodio meno brillante del lotto, ricordo ancora con piacere diverse altre piccole gemme di un disco che in quei giorni letteralmente consumai: “Change”, “Deserted”, “Time” e “I Wonder” in particolare. Non esente da ingenuità dettate dall’entusiasmo e dalla baldanza, l’album si segnalava come una curiosa via di mezzo tra le istanze di rottura della scena dello stato di Washington e un rock delle radici d’impronta più chiaramente tradizionalista, un college-rock smaliziato con pur vaghe inflessioni sudiste (prima chitarra, basso e batteria erano, come detto, originari del Mississippi), andando a occupare una mattonella espressiva all’epoca ancora relativamente libera (se si ignorano i Soul Asylum) ma che di lì a poco sarebbe stata di fatto assediata, negli States come altrove (i più teatrali Live, Seven Mary Three, Collective Soul, Candlebox, For Squirrels, Lilys ma anche Wannadies e i Silverchair post-infatuazione da Cobain e soci).

Con oltre quattro milioni di copie vendute del loro esordio eponimo, i Blind Melon avevano fatto il botto. Seguì per loro un biennio di frenetica attività live e consolidamento, sempre a rimorchio di artisti ben più titolati: un’esperienza formativa importante, spesa condividendo il palco con il Lenny Kravitz di “Are You Gonna Go My Way”, con il Neil Young di “Sleep With Angels”, i Rolling Stones di “Voodoo Lounge” e poi, da fratelli, con gli Smashing Pumpkins di “Siamese Dream”, i Red Red Meat e i Porno For Pyros. I guai seri iniziarono in quel periodo, con un arresto per oltraggio al pudore (per avere orinato su un fan durante un concerto a Vancouver) e almeno un paio di ricoveri in riabilitazione da droghe per il cantante, uscito come trasformato anche nell’aspetto fisico: non più le lunghe chiome bionde e lisce, rimpiazzate da acconciature decisamente più drastiche, e immancabili apparizioni live con accorgimenti estetici inquietanti, su tutti il trucco pesante da panda a cerchiarne gli occhi (un po’ come il Richey Edwards – ancora lui! – dello stesso periodo). Fu abbastanza sconcertante, in tal senso, la partecipazione della band al festival del venticinquennale di Woodstock, nell’agosto del 1994. Sconcertante ma memorabile, proprio a causa, e insieme per merito, di un Hoon stralunato e visibilmente sotto effetto di acidi, presentatosi al pubblico con la voce lacerata, in una mise assurda (tunica bianca e sneakers, capelli agghindati con fermagli colorati) e autore di una prova tutt’altro che lucida ma commovente, per la visceralità e nel contempo la fragilità che rifletteva: un campanello d’allarme evidente, almeno letto a posteriori, che in pochi evidentemente colsero. Ci avrebbe provato il manager del quintetto, raccomandando a Shannon il sostegno di uno psicologo che venne però esonerato presto, vista l’incapacità di risolvere i cronici problemi di dipendenza del frontman.

        

Turbolenze a parte, fu una fase creativa febbrile per il gruppo, spostatosi a New Orleans per registrare al Kingsway Studio di Daniel Lanois un sophomore per forza di cose molto atteso. Prevedibilmente, i Melons avrebbero potuto limitarsi a tracopiare il canone del fortunato predecessore senza incassare recriminazioni di sorta e anzi, se possibile, consolidando ulteriormente l’alleanza con i network radiotelevisivi (emblematica la loro estemporanea cover di “Three Is A Magic Number”, dalla serie “Schoolhouse Rock!”, in seguito opzionata per la colonna sonora di una sfilza di commediole cretine tipo “Mai stata baciata” e “Tu, io e Dupree”). Decisero di prendere invece tutt’altra direzione, con un certo coraggio, anche se l’iniziativa non avrebbe pagato. Al loro fianco vollero Andy Wallace, già produttore di Rollins Band, Bad Religion e Faith No More, freschissimo di collaborazione con Jeff Buckley per l’indimenticabile “Grace” e respinsero ogni prescrizione dagli emissari della Capitol, di fatto inimicandosi la compagnia. Evidentemente ridestate dal clima culturale della Louisiana, le ascendenze sudiste di Roger Stevens, Brad Smith e Glen Graham conferirono ai nuovi brani un retrogusto ancora più verace e sanguigno, rilasciando nel contempo il guinzaglio alla spiritata verve del capobanda. Con Cobain morto e sepolto da un annetto e il punk-pop californiano di Green Day, Offspring e Rancid lanciato come nuovo fenomeno finto-alternative in vece degli stereotipati spettri grunge, i Blind Melon scelsero di sconfessare definitivamente quell’apparentamento a lungo mal sopportato e di reinventarsi nel segno di una radicale libertà espressiva e di un revival particolarmente sentito.

Ibridi rutilanti di hard-rock e funky rubacchiati all’amico Perry Farrell (“2×4”), ruvido e doloroso acid-rock affollato di fantasmi (come quello di Jackie Onassis in “Dumptruck”) o agghindato col vestitino easy-listening non senza il suo bravo velo d’inquietudine (“Galaxie”), confessioni di una mente pericolosa (il serial killer Ed Gein) tra humour nero e spigliatezza folk appalachiana (“Skinned”), frattaglie blues (“Wilt”), radiose elegie alt-country (“Vernie”, “Walk”), catatoniche ipotiposi zeppeliniane (“The Duke”), passaggi introspettivi spalancati su un baratro d’angoscia (“Toes Across The Floor”) e tirate nonsense con la bava alla bocca (“Lemonade”), il tutto incastonato entro una bislacca cornice dixieland appaltata a Kermit Ruffins e la sua Little Rascals Brass Band: quello di “Soup” era davvero il minestrone promesso dal titolo, acceso da sapori decisi, stridenti, e sufficientemente acre per non passare inosservato. D’altronde, quale altra formazione alt-rock del 1995 si sarebbe mai sognata di far risuonare in un proprio disco armonica, banjo (oggi inflazionato, ma all’epoca…), kazoo, violoncello, contrabbasso, fisarmonica, trombe, flauti e tuba? Loro sì, osarono. Una band maturata si trovava a dar fondo a tutte le proprie risorse di virtuosismo ed eccentricità, mettendosi completamente al servizio di uno Shannon ispirato come non mai.

Non ci sarebbero più stati filtri alle brutture, ai monologhi interiori chiamati a vomitare quasi con sadismo storie di dipendenze e abusi, alla faccia di quella stramaledetta, zuccherosissima, bambina obesa travestita da insetto; la morte sarebbe stata l’ospite d’onore, ma in una prospettiva adulta, una presenza da esorcizzare rituffandosi a capo chino nel proprio presente faticoso senza più dare nulla per scontato (“St. Andrew’s Fall”, che è un po’ la loro “A Day In The Life”) e, possibilmente, abbracciando ogni nuovo germoglio di vita come un’opportunità per tornare sulla retta via (la lisergica “New Life”, racconto della paternità imminente e, a conti fatti, di un’occasione rimasta solo sulla carta). Ma al tempo stesso ci sarebbe stato margine per la dolcezza, per le carezze acustiche, il ricordo da lacrime di una nonna generosa, e per più di un inciso estatico, dal duetto da brividi con l’esordiente Jena Kraus in “Mouthful Of Cavities” al sinuoso arabesco e lo spoken word liofilizzato del gioiellino “Car Seat”, così ambizioso da cannibalizzare una poesia scritta da un’antenata del cantante, Blanche Bridge, oltre un secolo prima. Il disco non si precludeva nulla in nome dell’appeal radiofonico, necessariamente sacrificato, e non ebbe alcun timore a presentarsi sotto una cappa atmosferica cupa e con un sound che, in aperta controtendenza rispetto alle ossessioni da lindore tecnico di quegli anni, abbracciava riverberi e impurità come autentiche benedizioni.

Con inettitudine e senza alcun imbarazzo, il critico di turno su Rolling Stone stroncò “Soup” perché “tradiva la band di No Rain”. Volersi evolvere rispetto ai canoni della propria canzone-mascotte diventava una colpa, non un merito. Nessun riferimento alla crescita dei cinque come musicisti e come autori, dopo trecento e passa concerti spesi fino all’ultima goccia di sudore, sera dopo sera, per migliorarsi. Il problema fu che alla Capitol la pensavano allo stesso modo e il disco non fu promosso quasi per niente. Le ultime apparizioni live del gruppo statunitense (emblematica questa per un programma televisivo, a un mese appena dall’epilogo) presentarono un Hoon rabbioso, intenso e luciferino, cartavetro nella laringe e mascara squagliato sotto gli occhi, amplificando le sinistre evocazioni già abbondantemente disseminate nei solchi dei due LP pubblicati. La strada, forse, era già segnata da tempo per un artista fragile e bipolare, ma è plausibile che delusione e disillusione abbiano avuto un ruolo nel lasciar precipitare gli eventi. Dopo un’ultima esibizione a quanto pare vissuta in stato confusionale, la mattina del ventuno ottobre del 1995, dunque, il frontman venne trovato privo di vita all’interno del tour bus. La morte, si sa, nel dorato mondo dello spettacolo vende sempre benissimo. Con Shannon Hoon, curiosamente , fece un’eccezione. Nessuno cavalcò la tragedia: non i compagni di viaggio, che da amici leali scelsero di mantenere un profilo basso e preferirono il rassegnato tramonto al cinismo degli opportunisti; non la Capitol, che da quel momento fece scendere l’oblio sui Blind Melon e si guardò bene dal pubblicizzare un album uscito in fondo soltanto un paio di mesi prima; non, infine, MTV e gli altri network, che rinunciarono in partenza alla ghiotta – dal loro punto di vista – occasione di promuovere a reti unificate un novello Kurt Cobain, evidentemente già troppo impegnati a trarre la massima resa da quel miracoloso feretro ancora caldo.

Così a Hoon fu risparmiato l’immancabile processo di deificazione, un po’ come sarebbe accaduto alla buonanima di Layne Staley, solo perché passato a miglior vita con troppo ritardo rispetto a quanto tutti si attendevano (e qualcuno sperava). “Soup” finì rapidamente nel dimenticatoio, così come il suo talentuoso, incredibile vocalist. I restanti Melons pubblicarono un’ultima raccolta, “Nico”, dedicata alla memoria dell’amico e alla di lui figliola, per la quale venne pure aperta una sottoscrizione benefica. Una manciata di demo, outtake e stramberie, pubblicate senza alcuna adulterazione produttiva in segno di rispetto nei confronti del cantante, utili a posteriori per moltiplicare a dismisura, più che altro, i rimpianti sul suo conto: buone cover da Steppenwolf (“The Pusher”) e John Lennon (“John Sinclair”), bozzetti dell’Hoon più intimo (“Life Ain’t So Shitty” e “All That I Need”), persino una filastrocca affidata da Shannon a una segreteria telefonica (“Letters From The Porcupine”) oltre alla prima canzone scritta in assoluto (“Soul One”), che la casa discografica riteneva una potenziale hit da knock-out tecnico e che loro si premurarono sempre, masochisticamente, di non far uscire mai, prima di allora.

E questo dovrebbe essere tutto, in pratica. Tralascio il poi, lo scioglimento e la reunion con nuovo frontman avvenuta una decina di anni dopo: è un’altra storia e una storia, per giunta, di cui proprio nulla mi interessa. A me restano i sedici anni cantati da Shannon in “I Wonder”, gli stessi sedici anni che avevo io quando comprai “Soup” e me ne innamorai, o quando Hoon scelse di congedarsi una volta per tutte privandomi di chissà quali e quante altre strepitose canzoni. Ecco, mi resta quel “What If…” grande come una casa e fa un male cane. Magari i Blind Melon sarebbero usciti dai radar in lenta dissolvenza, un passo falso dopo l’altro, magari no, chissà, avrebbero insistito con la strada più lunga imboccata per il difficile secondo album e sarebbero arrivati, alla fine.

Mi piace pensare che sarebbe andata proprio così: in fondo era esattamente quello che stavano facendo quando calò il sipario.

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I’ve Been Riding with the Ghost

       

Due parole, proprio soltanto due parole per Jason Molina, che sabato scorso ci ha lasciati senza fare rumore. Suona sempre un po’ retorico trattare a posteriori vicende tristi come la sua, cantautore schiacciato a soli trentanove anni dal peso devastante della dipendenza da alcool, ma è pur vero che cronaca e arte si legano qualche volta in maniera quasi beffarda, e non si può considerare l’una senza dare conto dell’altra. Come per Vic Chesnutt poco più di tre anni fa, il rigore spietato della sanità U.S.A. non ha fatto sconti, giocando un ruolo decisivo nella vicenda umana di uno dei più grandi songwriter della sua generazione. Molina non aveva un’assicurazione sanitaria e non poteva far fronte alle spese pazzesche per cure e riabilitazioni. Di certo la sua debolezza lo ha affossato senza pietà, ma è indubbio che ci sia qualcosa di decisamente sbagliato laddove chi è in evidente difficoltà debba e possa contare solo su se stesso, per venire a capo dei propri demoni. E dentro Jason ne aveva tante, di ombre. Abbastanza per riuscire a scrivere canzoni sofferte ma mai banali, troppe forse per poterle tenere a freno senza venirne travolto. In passato ho descritto Molina come uno dei grandissimi della rinascita folk degli anni novanta, al pari di Will Oldham e Bill Callahan. Accostamenti di per sé assai limitanti, considerata la complessità del corpus di ognuno di questi maestri, ma che per comodità tocca ribadire. Una sorta di santa triade quindi, cui andrebbero aggregati anche  altri due eccezionali talenti come il già citato Chesnutt e Mark Kozelek. In comune con il primo Jason aveva quell’intensa vena malinconica priva di autocommiserazione, mentre pare sin troppo facile legare la sua creatura originaria, Songs: Ohia, alla prima straordinaria incarnazione kozelekiana, i Red House Painters, tra le formazioni cardine della sempre ripudiata scena slowcore.  Curioso. Proprio ieri leggevo una bella intervista ai Low (cui ho in parte contributo), ed ecco di nuovo la fatidica domanda sull’etichetta slowcore. Se è riduttivo ricondurre forzosamente la band del Minnesota ad una scuola di cui mai ha fatto parte, e solo per via di una sensibilità particolarmente pronunciata, è chiaro che di quella stessa sensibilità sia stato latore in primis proprio lo stesso Molina, con le sue ballate dolenti e ammalianti per sola voce e chitarra, a ritmi blandi e senza inutili orpelli. A voler dar credito a queste semplici coordinate, il moniker Songs: Ohia dovrebbe essere trattato alla stregua del caposcuola, niente di più e niente di meno. Album come ‘The Lioness’, ‘Axxess & Ace’ e ‘Ghost Tropic’ lo testimoniano in maniera autorevole. Ma come musicista Jason è stato davvero molto, molto di più: cantautore nudo ma non crudo, alfiere tra i più credibili della ricodifica alt-country, sperimentatore nei margini assai ristretti della tradizione, rocker delle radici e bluesman ruspante con l’altro suo progetto, i Magnolia Electric Co., senza l’intensità miracolosa dei primi lavori ma con un’esattezza non comune nello sguardo. E’ in questo suo segmento, conclusivo purtroppo, che lo incrociai nel 2009. Per lui si trattava dell’inizio della fine, ma non ne avevo la minima idea. Lui per primo non me ne diede l’impressione, al comando di una formazione affiatatissima che sul palco dello Spazio211 mi sbalordì con un concerto rock davvero notevole, quando io mi aspettavo una prova compassata e in solitaria. Aria triste da fanciullo vestito da cowboy, ma grandissima energia. Era da poco uscito il più che discreto ‘Josephine’, e mai si sarebbe detto che sarebbe stato l’ultimo lavoro di gruppo per lui. Dopo di allora il filo sempre più sottile di una curiosità genuina, la stessa che lo ha spinto a collaborare in poco più di dieci anni con i vari Bonnie Prince Billy, Alasdair Roberts, Steve Albini, Aidan Moffat (Arab Strap), Will Johnson (Centro-matic, South San Gabriel) e con i Lullaby For The Working Class, prima di sparire in una comunità rurale di recupero dalle dipendenze nel West Virginia, evidentemente troppo tardi. Che una figura maiuscola come lui se ne vada così, a neanche quarant’anni, sa di beffa crudele. Il 2013 come il passato mitico, quando eroi maledetti cadevano come mosche assicurandosi un eterno, luminosissimo presente. Molina non aveva però alcun mito da consegnare ai posteri, né un fare da bohemien maledetto. Era un uomo fragile come tanti, che ha lottato con le proprie debolezze e ha perso. Spiace sapere che nella sua battaglia fosse solo, così solo. Pur restando artista di nicchia era personalità di spicco, di quelle che ci si ricorderà. Le sue canzoni e i suoi dischi lo faranno per lui ora che non c’è più, anche meglio di quanto purtroppo non abbiano fatto fino a oggi.

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Oh, let me sail away…

Non posso non spendere qualche parola per Trish Keenan, che se n’è andata per sempre questa mattina, ancora molto giovane. Notizia assolutamente inattesa, veramente triste. Era ricoverata in ospedale da due settimane, per via di una polmonite giunta in concomitanza con il famigerato virus H1N1, contratto nel dicembre scorso durante il tour australiano della sua band. Per ironia del destino, della sua morte parleranno forse più i telegiornali generalisti inglesi che non le riviste specializzate: i Broadcast non hanno mai raggiunto il successo planetario, le copertine patinate, l’heavy rotation sui circuiti radio televisivi, pur avendo potuto vantare sia le canzoni che un’interprete dalle qualità straordinarie. Ad essere sinceri anche in ambito indipendente c’era chi si ostinava a considerarli dei doppioni poco interessanti degli Stereolab, proprio perché lanciati in casa Duophonic da Gane e dalla Sadier, per i mai celati debiti nei confronti dello storico gruppo anglo-francese nonché per l’aver condiviso con loro un paio di produttori ed il manager. Avevano comunque uno stile del tutto personale, inventiva sufficiente a farli camminare a lungo sulle proprie gambe. Almeno, così avrebbe dovuto essere. La firma con la mitica Warp, un esordio subito clamoroso, un sophomore effort ancora più convincente e poi altri passi riusciti, anche in direzioni nuove. Dopo un lungo silenzio erano tornati a fine 2009 con un progetto più marcatamente sperimentale, portato in giro per il mondo durante l’anno appena trascorso. Li avevo incrociati a marzo, in un concerto alquanto deludente perché troppo estremo e troppo poco broadcastiano. Ne avevo parlato di recente su queste pagine ed ora riposto il link alle foto di quella sera dall’ultima immagine in basso, sempre del live torinese alla Sala Espace. Le promesse per un ritorno anche discografico ben diverso c’erano comunque tutte ed è proprio il senso di inevitabile incompiutezza lasciato dalla morte di Trish a far male, oltre naturalmente al dolore per la sua esistenza spezzata troppo presto. Avrei voluto comprare dischi che non potranno mai pubblicare, avrei voluto rivederli dal vivo in un’esibizione finalmente all’altezza delle loro qualità. Invece i Broadcast sono finiti oggi. Non ne parleranno le televisioni per qualche speciale arrivato con colpevole ritardo, ma è quasi certo che il nome della Keenan farà capolino nei salotti degli inglesi come elemento curioso con cui infiocchettare il bollettino giornaliero di statistiche sull’influenza A, micidiale in Inghilterra nelle ultime settimane. Avevo riso quando Jens Lekman, dopo aver contratto quasi per primo il virus, lo sconfisse agilmente con un paio di settimane di riposo a casa. Se gli artisti che amiamo sono invulnerabili, forse lo siamo anche noi. Forse. Da brividi stasera ritrovare i non pochi presagi di morte incastonati nelle canzoni dei Broadcast, sempre trasfigurati, come nella meravigliosa ‘Ominous Cloud’: “Oh, devo andare via da questa città, non voglio dover guardare quelle nubi minacciose / Oh, non ora, non ora, non ora / Devo trovare un posto, essere me stessa ed imparare ad affrontare le nubi minacciose / Ma non ora, non ora, non ora”. Non ora, davvero, troppo presto per andarsene.  Buon viaggio Trish. 

   

Qualche nota sui tre LP dei Broadcast, escludendo le due raccolte di rarità, Ep e mini ed il recente lavoro con Focus Group. The Noise Made By People’ è un esordio anche piacevolmente scuro. Si impone come mistura brillante di elettronica dark ed atmosfere dream pop, con più di una concessione ai sixties meno stereotipati oltre alla già significativa cura per quel vintage sonoro di chiara deriva Stereolab. Preziose le sue inquietudini, intrigante l’insistere sui contrasti tra luci ed ombre, tra l’ariosità vocale di Trish ed i continui spifferi di un sound sempre in fermento. La cifra stilistica descrive una musica a più dimensioni, attenta alla melodia ma con costante ricorso alle dissonanze, alle sporcature sintetiche, alle sottili increspature psichedeliche. Brani consigliati: ‘Come On, Let’s Go’, ‘You can Fall’, ‘Until Then’, ‘Look Outside’. Con ‘Haha Sound’ il gruppo di Birmingham realizza il proprio lavoro più luminoso ed arrembante. Se i debiti nei confronti degli Stereolab sono sempre evidenti nella vena retro futurista e nelle cavalcate fantasiose, la band ci mette molto di suo perfezionando le proprie inconfondibili tonalità malinconiche, sfoderando scintillanti capacità di affabulazione, impasti dal retrogusto onirico ed una Keenan in vero stato di grazia. Brani consigliati: ‘Pendulum’, ‘Before We Begin’, ‘Lunch Hour Pops’, ‘Ominous Cloud’. Uscito nel 2005, Tender Buttons’ è destinato a rimanere il capitolo conclusivo dell’avventura Broadcast, con il suo bagaglio di intuizioni e promesse che non troveranno mai concreti sviluppi futuri. L’elettropop catchy si svincola pian piano dai vecchi registri, si fa più smaliziato ed adulto, senza rinunciare alle delicatezze retrò ma puntando comunque più deciso nella direzione di un’elettronica intelligente e piacevolmente noisy e di una scrittura più minimale ma non meno brillante. Brani consigliati: ‘I Found the F’, ‘Tears in the Typing Pool’, ‘America’s Boy’, ‘Black Cat’.

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I’m never gonna live again

Premessa obbligatoria: questo blog non ambiva ad essere una collezione di coccodrilli. Non è nato con l’intento di articolarsi in una mesta sequenza di pagine di necrologi, anche se potrebbe dare quest’impressione. Quando ho iniziato pensavo di scrivere qualche menata non troppo formale su album recenti, credevo sarei stato capace di resistere alla tentazione di parlare del passato, ma la realtà concreta molto spesso costringe a fare i conti con storie che si immaginavano dimenticate e questo porta quasi inevitabilmente ad immalinconirsi. Purtroppo è proprio così che si sta sviluppando suo malgrado il mio diario minimo, stramaledizione! Come recitava quel film? “Chi è che orchestra tutto questo? E’ il diavolo, probabilmente…”. Mi viene da sorridere perché alla fine sono io che ci casco. Per un motivo o per l’altro non sto più scrivendo di questi fantomatici dischi dell’ultima ora, di quelle gustosissime promesse del sotto-sottobosco alternativo che con ogni probabilità resteranno puntualmente inespresse. Però non sarei in pace con me stesso se non spendessi due parole per ricordare un grande musicista che se ne va per sempre. E’ un periodo particolarmente sfortunato questo, visto che – senza che ce lo si aspetti – in tanti se ne stanno andando come in punta di piedi. Oddìo, fosse per i cari colleghi d’ufficio miei coetanei, tutte queste morti improvvise ed insopportabili non sarebbero altro che semplici curiosità raccontate da “quello che ascolta tutta quella roba che conosce solo lui”, tanto per restare a frasi realmente udite dalle mie povere orecchie. Non ho scribacchiato un omaggio per Jay Reatard e Lux Interior, ma non escludo di ricordarli almeno in breve nei prossimi mesi. Con Chesnutt e Linkous ho sentito la necessità di fissare nero su bianco un’emozione a caldo. Speravo di non dovermi confrontare nuovamente con resoconti di questo tipo ma il cuore stanco di Alex Chilton evidentemente non era d’accordo. Non ha neanche voluto saperne di scoppiare su un palco come quello di un Mark Sandman, offrendomi il più comodo degli assist per una narrazione tra le più enfatiche e visionarie che si siano mai viste. E’ una tristezza che un autore e cantante immenso quale è stato lui si spenga nella più totale e fredda indifferenza. Ma è un film già visto, prendersela non ha proprio senso perché è nella natura delle cose, una regola del gioco, via. Non conosco i Box Tops, sua prima band, ed ignoravo perfino che i Big Star fossero attualmente in giro per il mondo e suonassero ancora dal vivo. Per me quell’esperienza era chiusa con quel filotto di capolavori immortali che sono stati ‘#1 Record’, ‘Radio City’ e ‘Third’, così diversi tra loro eppure così straordinariamente vivi. Musica di 35 anni fa praticamente, musica che ebbe pochissima fortuna quando fu pubblicata ma che meritava di venire fuori comunque. Un incrocio tra le più disparate esperienze – dai Kinks ai Byrds agli Zeppelin – che ascoltato oggi racconta con incredibile veridicità quelli che sono stati gli anni ’70 per la musica americana, mantenendo tuttavia una prospettiva altra, non ufficiale e dunque non banalmente stereotipata.

 

Di più, la band di Chilton ha saputo essere moderna come poche altre in quegli stessi anni, seminando umori, riff ed impasti all’epoca probabilmente apparsi stravaganti ma che col tempo avrebbero svelato tutta la loro straordinaria attualità. Una virtù dei grandi quella di venire fuori sulla lunga distanza: Nick Drake e la sua ‘Fruit Tree’ hanno fatto di questo concetto una specie di archetipo. Le canzoni di Chilton e dei big Star sono diventate presto oggetto di culto, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Il fatto che abbiano influenzato una marea di grandi gruppi negli anni ottanta e novanta (dai Replacements, ai Wilco, dai R.E.M. ai Jesus & Mary Chain) va letta come naturale e sacrosanta conseguenza del loro più profondo valore, come una sorta di riconoscimento e risarcimento postumo. E’ stata una fortuna per quelli come me, così distanti nel tempo da loro, di arrivarci comunque, per vie indirette. Era destino. Non poteva che funzionare così, come una sorta di appuntamento in cui, grazie al passaparola o agli amici giusti, comunque ci si sarebbe incontrati. Nel mio caso devo tutto alla devozione e all’amore (una vera e propria fede) manifestati dai Teenage Fanclub nei loro confronti. Arrivarono ad intitolare un disco (il mio preferito, guarda un po’) come una delle immortali canzoni di quel lontanissimo e folgorante esordio: ‘Thirteen’. Non ci fossi arrivato per questa strada probabilmente mi ci avrebbero portato gli Yo La Tengo, che avevano fatto carte false per suonare assieme ad uno dei loro massimi idoli. Comunque ci sarei arrivato, questo conta. Ora che la parola fine trova il suo posto nella vicenda umana di Chilton, ad appena cinquantanove anni di età, suona abbastanza sinistro il testo del ritornello di ‘Feel’, primo brano in scaletta su ‘#1 Record’ e quindi prima canzone riascoltata da me questa mattina in una mini-maratona prossima al religioso: “I feel like I’m dying / I’m never gonna live again / You just ain’t been trying / It’s getting very near the end”. E’ pur vero che per lui le porte di un’esistenza ben più duratura di quella terrena si erano già spalancate parecchio tempo fa. Ora che le sue canzoni – ‘September Gurls’, ‘O My Soul’, ‘Jesus Christ’, ‘Thank You friends’, ‘Watch The Sunrise’, ‘Back of a Car’, ‘Take Care’, ‘The Ballad of El Goodo’ , solo citando a casaccio alcune delle più belle – hanno iniziato a sopravvivergli, resta la certezza che tanta miracolosa scrittura pop sia una benedizione che non è andata sprecata e che anzi servirà ancora per gli autori di domani. Una mirabolante abilità nel plasmare easy-listening in grado di solleticare anche il palato dei cultori del rock (ascolti ‘Radio City’ chi ne è poco convinto), ma anche l’infinita dolcezza di chi componeva senza pensare al business, anzi, senza nemmeno sapere se avrebbe pubblicato o meno un album, trovandosi magari a dover attendere quattro lunghissimi anni per vedere finalmente il compimento di una delle proprie fatiche.

E’ vero, purtroppo Alex Chilton non c’é più. La perfezione melodica dei suoi dischi tuttavia resta, incancellabile, a disposizione di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di tutti quelli che faranno la sua conoscenza negli anni a venire.

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It’s a sad and beautiful world

     

E’ un mondo triste e meraviglioso quello che ci ha regalato Mark Linkous e ce lo ha portato via così presto. Un mondo che lo ha accolto in silenzio e che in silenzio lo saluta, nell’indifferenza sovrana e sconfortante dei tantissimi che gli Sparklehorse non li sentiranno mai nemmeno nominare. Gli Sparklehorse che erano lui, e lui soltanto. Un colpo al cuore, come Elliott Smith, a scrivere la parola fine nella parabola di un artista vero. Le prove generali Linkous le aveva fatte diversi anni fa con il valium: rischiò grosso, ma se la cavò con un arresto cardiaco, svariate operazioni e sei mesi di sedia a rotelle. Aveva esordito da pochissimo e il suo nome si era fatto strada rapidamente tra i colleghi affermati, quelli attentissimi alle novità e con la coccarda mecenatesca appuntata in bella mostra sulla giubba. I Radiohead di ‘OK Computer’ lo vollero fortemente per il tour della consacrazione, altri lo avrebbero richiesto in seguito. L’album con cui si presentò non poteva passare inosservato, dopo tutto. ‘Vivadixiesubmarinetransmissionplot’ – così, tutto d’un fiato – oggi sembra lontano secoli, eppure è così incredibilmente attuale. Ascolti i nomi nuovi di zecca del variegato sottobosco nordamericano e ce lo ritrovi senza un motivo legittimo, imitato con scaltra perizia ma senza un briciolo di sentimento. Impressione non esaltante a quasi quindici anni di distanza, ma preziosa nel confermare che quel disco, quel sound e quel songwriting hanno lasciato un segno indelebile. Piaccia o meno, quel primo LP – pubblicato come piccola foglia di fico da una major del calibro della EMI – è diventato in breve tempo un classico con tutti i crismi, uno di quei lavori che pochi notano e che pure fotografano con straordinaria lucidità le coordinate di una certa scena musicale in un dato momento. Canzoni come ‘Homecoming Queen’, ‘Heart of Darkness’ o ‘Hammering The Cramps’ si sono rivelate formidabili nel consegnare ad un pubblico che li cercava un cantore nuovo ed uno stile nuovo. L’anima tormentata e complessa di Linkous si offriva subito nella sua duplice natura e per alcuni, tra cui il sottoscritto, si trattò di un’autentica folgorazione. La dolce malinconia dei brani elettracustici  si spartiva quei pochi ma fenomenali minuti con le lacerazioni elettriche più viscerali, allineando con stupefacente coerenza emotiva le tessere di un mosaico policromo, l’intima confessione di un vero sognatore. A rendere tutto più memorabile avrebbero pensato poche ma geniali scelte adottate come amalgama in un flusso sonoro ininterrotto ma ricco di irregolarità: il condimento del balocco formale, gli sbuffi, le interferenze, le distorsioni, la bassa tecnologia, le vocine sussurrate o filtrate, in poche parole lo ‘Sparklehorse style’. Intercettato dalla mia curiosità onnivora di quasi diciottenne, il primo Sparklehorse mi è entrato subito nel cuore e non ne è mai più uscito. Lo ascolto con parsimonia ma con piacere intatto e riesce a rapirmi oggi come le primissime volte: ha contribuito in maniera significativa a modellare il mio gusto, ad apprezzare la musica sincera e di (apparentemente) basso profilo, orientandomi prima di tanti altri dischi fondamentali verso l’universo degli indipendenti. E’ un capolavoro, pezzi come ‘Someday I Will Treat You Good’, ‘Weird sisters’ e ‘Saturday’ sono una benedizione e non mi stancheranno mai, anche se nel ’97 stancarono lui e lo schiantarono in un buco nero pauroso. Ripresosi come per miracolo dallo sventurato crollo che chiuse quel primo momento di effimero successo, Linkous ha continuato a scrivere canzoni magnifiche. In ‘Good Morning Spider’ ha saputo raccontare la propria debolezza con spietata e disarmante poesia, accentuando i contrasti espressivi abbozzati con la prima prova e lasciando stupiti per l’abilità nell’andare a bersaglio con apparente distacco, puntualmente, tra la delicatezza di una ‘Painbirds’, la verve abrasiva di una ‘Pig’ e la schiettezza micidiale di una ‘Sick of Goodbyes’.

 

Ancora più evidente rispetto all’esordio, un talento pop cristallino nella scrittura – il miracoloso segno di Linkous – ma anche una tendenza, romantica e masochistica nel contempo, a svilire certe ottime intuizioni, a mantenere un atteggiamento modesto sino al paradosso come per non tradire se stesso. La sporcatura formale applicata a ‘Chaos of the Galaxy/Happy Man’, con incurante e quasi irritante menefreghismo, rappresenta Linkous e gli Sparklehorse meglio di tanti inutili giri di parole: avevi una canzone vincente ma non poteva essere davvero tua, quindi l’hai ammazzata con buona pace dei discografici e della EMI. ‘It’s a Wonderful Life’ è stato presentato tre anni più tardi come uno strepitoso esercizio di stile, con ospitate sontuose (P.J. Harvey, Tom Waits, John Parish) ed una cura eccellente sul suono (merito di Dave Fridmann), che ha però in parte disinnescato l’impatto scabro e diretto dei vecchi pezzi di Mark. Un disco che non ha saputo appassionarmi come i suoi predecessori, ma che ha pur sempre dentro perle come ‘Apple Bed’, ‘Piano Fire’ e ‘Gold Day’. Se il rischio di scivolare in una forma di lussuoso manierismo era scongiurato dall’intelligenza stessa e dalla sensibilità vera del cantautore, resta innegabile come proprio le migliori armi a sua disposizione gli si siano rivolte contro sotto la maschera impietosa e recidiva della depressione. Vittima di se stesso e della propria inguaribile infelicità, Linkous è rimasto fermo al palo per anni, incapace di tornare a comporre musica. Nel 2003 lo vidi per la prima volta, di spalla ai R.E.M. a Padova, palesemente fuori contesto: invernale nel caldo asfissiante di quel luglio padano, poco a suo agio con un pubblico assai poco sensibile e rispettoso, chiuso come in una corazza di autistico distacco, suonò come un automa pochi pezzi con una ferocia fredda, assolutamente inedita, mentre dalle prime file gli tiravano preservativi a mo’ di palloncini e lo sfottevano. Provai pena. Non lo sapevo ma quello era un Linkous che, nuovamente, rischiava l’affondamento. Grazie a Danger Mouse ne sarebbe venuto fuori ancora una volta, offrendo ai suoi fan un ultimo disco non abbastanza apprezzato ma che io trovai estremamente incoraggiante. ‘Dreamt for Light years in the Belly of a Mountain’ aveva dentro tutto ciò che ancora speravo di poter ricevere da lui: pezzi rock tirati, ballate oblique e narcotiche, ombre affascinanti in quantità industriale (che brividi ‘Knives of summertime’). Passò anche in città a presentarlo e lo show al 211, con Fennesz come spalla, fu la conferma di un promettente ritorno in campo: clima raccolto, totale partecipazione sua e di un pubblico ammirevole, bellissime suggestioni nei sussurri della sua voce, nelle immagini proiettate sullo sfondo, nel recupero di tanti pezzi favolosi dall’album d’esordio. La collaborazione rinnovata con il progetto ‘Dark Night of the Soul’, l’anno passato, sembrava inserirsi perfettamente in quest’ottica di lento ma luminoso ritorno alla vita, artisticamente (e non) intesa. Pareva prefigurare in tutto e per tutto un nuovo segmento positivo nella sua carriera, ma le cose sono andate diversamente. Nonostante le inquietudini del suo passato mi fossero ben note, il suicidio di Linkous è stato un fulmine a ciel sereno. Un po’ come quello di Chesnutt nel Natale scorso, ma senza quel disperato bisogno di moltiplicare gli sforzi ed accelerare i tempi per svuotare i cassetti della propria creatività degli ultimi, preziosissimi, rimasugli. Senza quell’impressione di necessario testamento, di lascito consapevole, di testimonianza. Anche per questo la morte di Mark e dei suoi Sparklehorse fa veramente male e non lascia consolazione, a differenza dei suoi brani, anche dei più dolenti. Non lascia uno straccio di spegazione, plausibile o meno, che alleggerisca il peso di una realtà incomprensibile per noi che siamo rimasti come bambini a bocca aperta. Stamattina, dopo aver letto la notizia che ha rotto nel peggiore dei modi un esilio dalla rete durato quasi due giorni, ho tirato fuori l’ipod e ho lavorato con la compagnia delle sue canzoni. Con Chesnutt non ne ero stato capace, e ancora aspetto di potermi rimettere ad ascoltarlo senza soffrirne. Ascoltare gli Sparklehorse oggi è stato sì triste, ma non doloroso. Mi ha trasmesso una certa carica positiva. Poi, arrivato a ‘Little Fat Baby’, ho avvertito una vera fitta: l’aveva dedicata a Vic, si era ispirato a ‘Myrtle’ per raccontare la “grazia sgraziata” del collega ed amico.

Non sono passati neanche dieci anni ma sembra trascorsa un’eternità.

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I will see you around

Vic Chesnutt ci ha lasciati. Senza troppo clamore, con un’overdose di rilassanti muscolari, farmaci che lui assumeva regolarmente da più di venticinque anni per lenire i dolori del suo scorrere disastrato. Nei testi delle sue canzoni aveva scritto spesso del suicidio. Amava evocare la morte come per esorcizzarla, sin dai tempi di ‘Little’, il primo di una lunghissima serie di album mandati in stampa come autentici stralci di vita, prima che d’arte. La musica e la letteratura, scoperte solo dopo l’incidente che stravolse la sua esistenza, si erano subito imposte come la linfa, il motore del suo stoico resistere: al dolore, alla sfortuna, anche alle tentazioni di una comoda via di uscita. Negli ultimi tempi Vic aveva intensificato gli sforzi come se presagisse di non riuscir più a trattenere questa “compagna di tutta una vita” dal regalargli finalmente il riposo sognato. Gli ultimi due lavori, usciti entrambi solo qualche mese fa, sembrano tradire una sorta di stanchezza nella lotta, ma lo fanno paradossalmente con un’autenticità nello sguardo, un acume ed un’intensità che sono in fondo la miglior testimonianza di quel che è stato Vic in questi lunghi anni di malattia: un uomo vero, forte come una quercia, un combattente. Questo scavando fino all’osso, nell’essenzialità della sua poetica, della sua stessa filosofia di vita: in termini di sincerità, di confessione dal taglio fieramente crudo, spontaneo, veritiero. Una scelta evidente sul piano dei testi, la cui schiettezza (‘Coward’, ‘Flirted With You All My Life’) risulta una naturale evoluzione degli slanci metaforici che appesantivano di ingenuità le prime incerte liriche, quelle in cui il disagio e l’ossessione di sé – quasi il crogiolarsi dell’artista nei panni del derelitto sventurato – avevano anche senza volerlo il sapore della posa e della maniera. Con gli anni Chesnutt ha saputo inquadrarsi e raccontarsi servendosi di filtri sempre meglio calibrati e più straordinari, trattenendosi in una dimensione distante ma emotivamente viscerale, evitando con elegante ironia le facili tentazioni del patetico ma colpendo al cuore l’ascoltatore più libero dai pregiudizi. In questo era riuscito molto presto a cantare se stesso ed il mondo attorno a lui come un universo coeso, sempre strettamente legato, una simbiosi entusiasmante oltre che la sublimazione di un punto di vista originalissimo anche in termini letterari, con una fusione spesso incredibile di registri teneri e caustici. L’umanità di Vic era l’umanità delle sue canzoni, due piani mai tanto indisgiuntibili come in questo caso, con una perfetta coincidenza tra la persona ed il personaggio, il creativo e l’oggetto delle sue crepuscolari affabulazioni, sempre ben visibile sullo sfondo. Anche la musica ha assecondato questa sua esigenza di verità, questa volontà di mettersi definitivamente a nudo. L’incontro con le sottili deflagrazioni rumoristiche di Guy Picciotto e del collettivo canadese dei Silver Mt. Zion andava necessariamente replicato per conferire ai pezzi di ‘At The Cut’ quella vitalità inquieta e nervosa che è la migliore colonna sonora per le sorprendenti parole racchiuse nell’album. Per ‘Skitter On Take-Off’ Vic ha preferito l’espediente di una sobrietà solipsistica, come non si riscontrava dai tempi del suo acerbo e meraviglioso esordio. Dopo averlo anticipato in più di un indizio, Chesnutt deve essersi sentito pronto per lasciare. E lo ha fatto. Il problema ora è mio, e di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di amarlo o conoscerlo. Lo ha scritto con efficacia Kristin Hersh, cantante dei Throwing Muses che con lui avevano diviso il palco in un tour europeo di una quindicina di anni fa. Era un’amica, di fatto ha dato lei l’annuncio della scomparsa di Vic e, per quanto anche lei sentisse come nell’aria questo gesto estremo, ha raccontato in una bella intervista a caldo su Entertainment Weekly che no, non era affatto pronta per pensare a lui come un tassello del proprio passato. Il difficile è proprio questo. Per me quindici anni con le canzoni di Vic, il mio personale passepartout per l’universo musicale indipendente, ed ora mi sento improvvisamente molto più solo. Un amico importante che se ne va, sfiorato appena nella vita reale in uno scambio di mail per un’intervista, poco più di un’ora di concerto, meno di cinque minuti di chiacchiere, l’autografo su un pugno di dischi ed un abbraccio. Sembra poco in effetti, ma lui è stato sempre con me per circa metà della mia vita. Mi ha appassionato, divertito, commosso, insegnato. Ora, come la Hersh, non riesco a mettere su i suoi dischi. Faccio fatica anche solo a pensare alla musica che ha scritto. Come la Hersh ho sempre identificato le canzoni di ‘The Salesman & Bernadette’ con un certo clima natalizio, con un certo calore, candore domestico. Ma come posso riascoltarlo ora che Vic ha scelto proprio il giorno di Natale per farsi da parte? Sembra ridicolo da spiegare alle persone normali che non vivono di musica come me, che non ne fanno una malattia, che non si circondano di antieroi quasi immaginari compilando una personale micro-mitologia pocket da universo parallelo, traendo spunti infiniti per rendere almeno un tantino più preziosa la propria routine. Sembra assurdo spiegare che sento terribilmente un vuoto dentro, per quella parte di me che se n’é andata per sempre insieme ad un piccolo e miserevole cantautore paraplegico, ma è così, davvero. Se questo aspetto è fondamentale e non mi permetterà per un po’ – già lo so – di riaccostarmi a quei pezzi ora così inavvicinabili (ma è mia intenzione scriverne in maniera dettagliata su questo blog, appena mi sarà possibile), se è triste l’idea di un Chesnutt che ci lascia in una fase di febbrile impulso creativo, resta comunque la soddisfazione di averlo visto suonare dal vivo, di averlo conosciuto per quanto marginalmente, di averne respirato la forza ed il carattere e di aver incrociato con lui sguardi e sorrisi, almeno una volta. Questo fino alla prossima, che ci sarà presto o tardi, ne sono certo.

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