Joshua allora e oggi _Letture

       

E, finalmente… Mordecai Richler. Ok, “La Versione di Barney” l’abbiamo letta tutti, ma l’errore comune è di limitare l’autore canadese a quello che resta il suo indiscusso capolavoro. Richler però non era solo Barney Panofsky, e a ribadire l’assunto pensa soprattutto il romanzone che qui vi presento. Prima di lui c’è stato infatti Joshua Shapiro, altro calco autobiografico superlativo. Il confronto tra i due, in differita di oltre tre lustri a vantaggio di quest’ultimo, può rivelarsi operazione non meno avvincente della lettura di quest’opera datata 1980, già vertiginosa per l’intreccio, per le digressioni esaltanti oltreché per la profusione di figurine minori (ma irresistibili) dalla generosa galleria richleriana. Una tirata d’orecchi alla Adelphi, che ha impiegato davvero troppo tempo per pubblicare questa meraviglia (privilegiando magari testi minori e prescindibili, libricini per l’infanzia o raccolte di articoli del Nostro). Ad ogni buon conto, meglio tardi che mai!

Montreal, fine anni settanta: Joshua Shapiro è in convalescenza per un brutto incidente stradale. Giornalista sportivo e televisivo, miscredente di origini ebraiche, autore letterario di un certo successo in Canada, ha perso temporaneamente il controllo sulla sua vita. L’amatissima moglie Pauline è scomparsa nel nulla, uno scandalo sessuale montato ad arte sta danneggiando la sua reputazione e, come non fosse abbastanza, c’è anche un ambiguo ispettore che non esita a fargli le pulci per un comodo tornaconto personale. Su di lui e i suoi tre figli vegliano però come angeli custodi il padre Reuben, ex promessa del pugilato ed ex scagnozzo del boss della mafia locale, e il ben più azzimato suocero, rappresentante del Quebec patrizio e per lunghi anni senatore influente. Impossibilitato a far altro che riposare e tornare indietro con la memoria, Joshua si perde tra i mille rivoli incoerenti del suo passato, quasi a voler cercare brandelli di senso alle attuali, sfavorevoli circostanze, all’allontanamento della donna conquistata con perseveranza ammirevole (e mai tradita) e all’irriducibile corruzione del bel mondo ipocrita che aveva imparato a conoscere e fronteggiare, che ora gli sfugge e pare pronto a espellerlo come il corpo estraneo che è sempre stato.

Senza fornire pratiche guide ai suoi itinerari, Mordecai Richler ci invita a seguire Joshua nel dedalo dei suoi trascorsi, saltabeccando tra i duri anni della fanciullezza, a ridosso del secondo conflitto mondiale, e quelli in apparenza più confortevoli dell’affermazione professionale, tra le scapigliate disavventure giovanili a Ibiza – qui fascinosa e pressoché incontaminata – nell’inseguimento impossibile al mito delle brigate internazionali nella Spagna della guerra civile e la boheme povera ma onesta spesa in una Londra ancora ben lungi dal potersi fregiare dell’accattivante etichetta swinging. Tra furfanti matricolati, parenti serpenti, circoli di scrittori boriosi e comunisti da operetta, riccastri drogati di mondanità e vecchi amici pronti a pugnalarsi alla schiena, ricostruiamo assieme al protagonista il rutilante mosaico dei primi cinquant’anni della sua vita, simpatizziamo con lui, pure non sempre impeccabile, e con gli anticorpi che ha sviluppato strada facendo in contesti quasi immancabilmente vili, urticanti, cinici e gretti, la corazza formidabile per sopravvivere con la necessaria purezza senza soccombere alla stupidità o al moralismo imperanti.

Pubblicato diciassette anni prima del celeberrimo “La Versione di Barney”, “Joshua Allora e Oggi” è sicuramente ben altro che la pallida copia di quel capolavoro. In primo luogo poiché, appunto, questo romanzo è stato scritto parecchio tempo prima; quindi perché non si tratta affatto di un’opera minore. Molto scaltri e in fondo comprensibili quelli della Adelphi, che battono sul ferro ancora incandescente di quella sensazionale sorpresa letteraria del 1997, assicurando che anche in questo caso il lettore avrà modo di trovare un validissimo surrogato al titanico protagonista del più scintillante successo di Richler. Dimenticano di dirci che ci sono voluti trentatre lunghi anni perché questo libro fosse pubblicato in Italia e che, forse, con un po’ più di avvedutezza allora, sarebbe stato ridimensionato proprio il clamore suscitato poi dalla scoperta de “La Versione”, per come sono andate le cose un autentico fulmine a ciel sereno. Sia come sia, un ponte tra i due romanzi esiste innegabilmente, ma solo perché sono lo stile e l’immaginario di Mordecai, entrambi vividissimi ed entrambi cruciali, a fare la differenza e legare questi titoli.

Sostenere che qui l’autore canadese abbia fatto le prove generali per il ben più tardivo gioiello è sensato. Ma non si deve negare a “Joshua” la dignità che merita. Se volessimo fingere per un istante di non esserci mai imbattuti nel successivo caso letterario, dovremmo ammettere che sì, questo libro brilla di luce propria perché anche stavolta, in tempi non sospetti, Richler ha infilato tantissimo di sé. L’infanzia umile a St. Urbain Street è calda e croccante. La McGill solo agognata e relativa invidia per i rampolli della Montreal bene che hanno potuto frequentarla è puro, superbo, rancore autobiografico. Non parliamo poi dell’ininterrotto compendio di ironia sull’essere ebrei in una società avida di profitti e riconoscimenti, nonché incline all’ipocrisia e al perbenismo: per Joshua Shapiro è pane quotidiano, gliel’ha insegnato l’indimenticabile Reuben tra una visita mancata alla sinagoga e una bella Labatt’s ghiacciata. Ma Joshua e Mordecai condividono tra le altre cose anche la venerazione per Hemingway, un avventuroso soggiorno a Ibiza nei primi anni cinquanta e fondamentali trascorsi londinesi, prima del ritorno in patria da autori affermati e padri di famiglia. E poi l’intelligenza, il bagaglio più prezioso di queste anime eternamente nomadi.

Il gioco delle differenze allontana peraltro i rischi della mera operazione fotocopia. Rispetto a Barney Panofsky, Joshua Shapiro è meno estremo, meno politicamente scorretto (anche se si fa tramite, per il suo creatore, di alcune stoccate niente male contro la legge 110 in difesa della lingua francese, all’epoca tema di scottante attualità), meno disastrato e irrecuperabile. Al contrario, è ben più concreto nella sua ammirevole, ostinata lotta da autodidatta per l’indipendenza e il riconoscimento, in primis personale. E’ caustico, impulsivo, pragmatico, non di rado antipatico, sempre umanissimo. Se l’intreccio ostico per la sua frammentarietà resta l’elemento di massimo contatto tra i due romanzi, proprio ciò che affiora quando si entra nel vivo vale la più netta delle distanze tra essi. Ne “La Versione di Barney” la malattia conduce a un disgregarsi della memoria, a uno sfilacciarsi sempre più confuso della verità che pare perdere ogni certezza assoluta; in “Joshua” si prospetta al contrario una progressiva presa di coscienza, un faticoso riappropriarsi del passato per interiorizzare ciò che di più doloroso vi è sepolto, la consapevolezza che gli errori si pagano, che luoghi e persone cambiano – spesso e volentieri in peggio – e che la giovinezza vola via senza che ce ne accorgiamo. In questo c’è forse più amarezza e disincanto che nel futuro bestseller: le pagine sul ritorno a Ibiza dopo un quarto di secolo non potrebbero essere più malinconiche e sconfortanti.

“I giorni sono lunghi ma gli anni volano”, diceva la nonna di uno dei compagni di scuola di Shapiro. Un paradosso che ne nasconde un altro: le intricate manipolazioni dell’ordito non sono facili da sciogliere, eppure il libro vola via leggero, letteralmente, una sorpresa sbalorditiva dietro ogni curva. Continue irresistibili diversioni, piazzate con regolarità dallo scaltro Mordecai, confondono di continuo il lettore ma amplificano il piacere della lettura, moltiplicano risvolti e sottotracce, inaugurano e interrompono senza posa nuovi romanzi nel romanzo, uno più bello dell’altro. Le riunioni annuali della congrega goliardica della Mackenzie King Memorial Society, le lezioni di etica del padre manigoldo dal cuore d’oro, la dubbia moralità di una madre spogliarellista e fedifraga, la vacuità triste dello sventurato cognato Kevin, l’astiosa doppiezza di Jack Trimble, la limpidezza del “Senatore”, i ritratti imperdibili delle figurine minori (il cugino Sheldon, l’amico Murdoch, il crapulone Seymour Kaplan, l’ignobile Izzy Singer, il miserabile dottor Mueller, la perversa Jane Trimble e il poliziotto McMaster, che sognava di diventare come Wambaugh) implorano per essere ricordati e sostanzialmente lo meritano: sono queste le tessere che concorrono a rendere imperdibile “Joshua Allora e Oggi”, assemblate con maestria dalla sceneggiatura di un Richler in stato di grazia.

Peccato solo, forse, per un finale che gli inglesi definirebbero “pretty decent”: la genialità di “La Versione…” almeno qui, solo qui, manca. Ci sono però tali e tante pagine di straordinaria perfezione (le lunghe parentesi spagnole, l’inizio del legame sentimentale tra Shapiro e Pauline, il demenziale inciso su Mackenzie King e i suoi cani) che, assieme alla consueta profusione di dialoghi fenomenali, garantiscono anche a “Joshua” le cinque stelle piene e, alla buonanima di Mordecai Richler, una benevolenza incondizionata.

9.0/10

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