Magnolia Electric Co.

I’ve Been Riding with the Ghost

       

Due parole, proprio soltanto due parole per Jason Molina, che sabato scorso ci ha lasciati senza fare rumore. Suona sempre un po’ retorico trattare a posteriori vicende tristi come la sua, cantautore schiacciato a soli trentanove anni dal peso devastante della dipendenza da alcool, ma è pur vero che cronaca e arte si legano qualche volta in maniera quasi beffarda, e non si può considerare l’una senza dare conto dell’altra. Come per Vic Chesnutt poco più di tre anni fa, il rigore spietato della sanità U.S.A. non ha fatto sconti, giocando un ruolo decisivo nella vicenda umana di uno dei più grandi songwriter della sua generazione. Molina non aveva un’assicurazione sanitaria e non poteva far fronte alle spese pazzesche per cure e riabilitazioni. Di certo la sua debolezza lo ha affossato senza pietà, ma è indubbio che ci sia qualcosa di decisamente sbagliato laddove chi è in evidente difficoltà debba e possa contare solo su se stesso, per venire a capo dei propri demoni. E dentro Jason ne aveva tante, di ombre. Abbastanza per riuscire a scrivere canzoni sofferte ma mai banali, troppe forse per poterle tenere a freno senza venirne travolto. In passato ho descritto Molina come uno dei grandissimi della rinascita folk degli anni novanta, al pari di Will Oldham e Bill Callahan. Accostamenti di per sé assai limitanti, considerata la complessità del corpus di ognuno di questi maestri, ma che per comodità tocca ribadire. Una sorta di santa triade quindi, cui andrebbero aggregati anche  altri due eccezionali talenti come il già citato Chesnutt e Mark Kozelek. In comune con il primo Jason aveva quell’intensa vena malinconica priva di autocommiserazione, mentre pare sin troppo facile legare la sua creatura originaria, Songs: Ohia, alla prima straordinaria incarnazione kozelekiana, i Red House Painters, tra le formazioni cardine della sempre ripudiata scena slowcore.  Curioso. Proprio ieri leggevo una bella intervista ai Low (cui ho in parte contributo), ed ecco di nuovo la fatidica domanda sull’etichetta slowcore. Se è riduttivo ricondurre forzosamente la band del Minnesota ad una scuola di cui mai ha fatto parte, e solo per via di una sensibilità particolarmente pronunciata, è chiaro che di quella stessa sensibilità sia stato latore in primis proprio lo stesso Molina, con le sue ballate dolenti e ammalianti per sola voce e chitarra, a ritmi blandi e senza inutili orpelli. A voler dar credito a queste semplici coordinate, il moniker Songs: Ohia dovrebbe essere trattato alla stregua del caposcuola, niente di più e niente di meno. Album come ‘The Lioness’, ‘Axxess & Ace’ e ‘Ghost Tropic’ lo testimoniano in maniera autorevole. Ma come musicista Jason è stato davvero molto, molto di più: cantautore nudo ma non crudo, alfiere tra i più credibili della ricodifica alt-country, sperimentatore nei margini assai ristretti della tradizione, rocker delle radici e bluesman ruspante con l’altro suo progetto, i Magnolia Electric Co., senza l’intensità miracolosa dei primi lavori ma con un’esattezza non comune nello sguardo. E’ in questo suo segmento, conclusivo purtroppo, che lo incrociai nel 2009. Per lui si trattava dell’inizio della fine, ma non ne avevo la minima idea. Lui per primo non me ne diede l’impressione, al comando di una formazione affiatatissima che sul palco dello Spazio211 mi sbalordì con un concerto rock davvero notevole, quando io mi aspettavo una prova compassata e in solitaria. Aria triste da fanciullo vestito da cowboy, ma grandissima energia. Era da poco uscito il più che discreto ‘Josephine’, e mai si sarebbe detto che sarebbe stato l’ultimo lavoro di gruppo per lui. Dopo di allora il filo sempre più sottile di una curiosità genuina, la stessa che lo ha spinto a collaborare in poco più di dieci anni con i vari Bonnie Prince Billy, Alasdair Roberts, Steve Albini, Aidan Moffat (Arab Strap), Will Johnson (Centro-matic, South San Gabriel) e con i Lullaby For The Working Class, prima di sparire in una comunità rurale di recupero dalle dipendenze nel West Virginia, evidentemente troppo tardi. Che una figura maiuscola come lui se ne vada così, a neanche quarant’anni, sa di beffa crudele. Il 2013 come il passato mitico, quando eroi maledetti cadevano come mosche assicurandosi un eterno, luminosissimo presente. Molina non aveva però alcun mito da consegnare ai posteri, né un fare da bohemien maledetto. Era un uomo fragile come tanti, che ha lottato con le proprie debolezze e ha perso. Spiace sapere che nella sua battaglia fosse solo, così solo. Pur restando artista di nicchia era personalità di spicco, di quelle che ci si ricorderà. Le sue canzoni e i suoi dischi lo faranno per lui ora che non c’è più, anche meglio di quanto purtroppo non abbiano fatto fino a oggi.

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Magnolia Electric Co. @ Spazio211

15-10-2009

 

Il 2009 è stato anche l’anno del ritorno in grande stile del signor Jason Molina, un grandissimo dell’Americana. A novembre lui e Will Johnson, leader dei Centro-Matic, hanno pubblicato un disco realizzato a quattro mani (intitolato con scarsa fantasia ‘Molina & Johnson’) rivelatosi in realtà di gran lunga inferiore alle attese, il classico caso in cui la somma delle parti non vale quanto le singole componenti valutate separatamente. Qualche mese prima Molina aveva però già dato alle stampe un disco sotto la sua ragione sociale attualmente più importante, i Magnolia Electric Co. A due anni dalla ricchissima raccolta ‘Sojourner’, a tre da ‘Fading Trails’ e quattro da ‘What Comes After The Blues’, primo capitolo della nuova avventura, l’ex one man band dei Songs:Ohia ha dimostrato una volta di più che la "Cura Albini" ed il cambio di moniker ne hanno rivoluzionato gli orizzonti espressivi. Non più il folk scarno e declinato spesso secondo il verbo sad-core tanto in voga nei ’90, ma un garbato e grintoso roots rock molto yankee oriented, impreziosito in sede live da sortite in territori blues, noise o desert folk, sempre estremamente convincenti. Il primo assaggio di un suo concerto, in un ottobre torinese particolarmente ricco di appuntamenti preziosi, ha rappresentato la più diretta conferma di questa comune convinzione. Un gran bel concerto, muscolare ma colorato, in cui il piccoletto vestito da cowboy ha saputo pilotare con polso una band di musicisti esperti ed affidabili (su tutti il monumentale chitarrista Jason Groth, un virtuoso particolarmente efficace), capaci di offrirsi in una prova brillante nei diversi registri adottati. Poche canzoni ma consistenti, in una scaletta che ha presentato alcuni dei migliori brani del recente ‘Josephine’ (‘Shenandoah’ e ‘Little Sad Eyes’) e soprattutto dai due album precedenti (splendida ‘Hard To Love a Man’ dedicata all’amico Howe Gelb), più un paio di episodi dall’ultimo lavoro a firma Songs:Ohia, alcuni inediti ed una cover incendiaria di ‘Lawyers, Guns and Money’ del compianto Warren Zevon, inserita come unico bis prima dei meritati applausi finali. Una bella lezione di rock tradizionale e pulito, lontano dalle mode del momento ma indispensabile per chiunque guardi ancora al genere come una salutare medicina disintossicante. Per una simile riuscita era necessaria la regia di un grandissimo come l’autore di ‘The Lioness’, forse in fase discendente in termini di carriera ed urgenza ma pur sempre autorevolissimo come insegnante. Peccato solo non aver portato con noi abbastanza denaro per fare nostri tutti (ma proprio tutti) i vinili da lui pubblicati in oltre quindici anni, rarità incluse. A 12 euro l’uno e dopo una simile serata era davvero qualcosa più di un semplice e volgare "affare".

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