Realism

 

Tempo di bilanci con la fine dell'anno. In attesa di buttare giù una classifica sommaria con i miei migliori dischi, recupero l'ultimo Magnetic Fields a quasi un anno dall'uscita. Improbabile rientri in posizioni alte pur essendomi piaciuto abbastanza, ma una considerazione di rilievo la strappa ugualmente. Tra gli album usciti in questo faticoso 2010, 'Realism' è con ogni probabilità uno dei più sottostimati, forse anche dei meno compresi (meglio, dei più equivocati). A suo discredito ha giocato senza dubbio un ampio ventaglio di fattori, dall'ossessivo doping concettuale del suo autore al fatto di essere arrivato troppo presto nei negozi, oltretutto dopo un'opera che aveva invece goduto di eccessivi apprezzamenti da parte della critica. Non per vantarmi di fantomatiche doti da veggente, di certo non comprese nell'esigua schiera di qualità che posso riconoscermi con qualche slancio di puro ottimismo, ma a gennaio avevo avuto sentore che la tendenza nei confronti del disco fosse questa. Nel primo pezzo scritto quest'anno per Monthlymusic avevo scelto di puntare un riflettore interessato su Merritt e la sua delicata psicologia di creativo contrastato, in perenne lotta per l'automiglioramento e condannato alla fame di riscontri positivi. La rinnovata competizione con un monumento come '69 Love Songs' rimane un dato di fatto incontrovertibile, così come l'impossibilità di uscire vincitori da sfide impossibili come questa. Il vero problema di Merritt è non averlo capito, o, forse, non aver saputo dire basta ai pretestuosi schematismi cui si aggrappa ogni volta che scrive un disco. In questo senso non solo quell'immane capolavoro resta irraggiungibile, ma anche alcuni dei primi scintillanti lavori usciti a marchio Magnetic Fields (due per tutti, entrambi del '94: 'The Charm of the Highway Strip' e 'Holiday') sembrano destinati a risultare inarrivabili. Parlare di "drastico calo di creatività" o di "esaurimento di buone idee" mi sembra tuttavia ingeneroso, perché Merritt non ha mai smesso di dimostrare di essere uno straordinario songwriter. Anche in quest'ultima fatica ad esempio le buone trovate non mancano, e bisogna essere miopi per non riconoscerlo. Se per il precedente 'Distortion' aveva fatto buon gioco il ricorso ad un noise-pop (che è sempre discretamente di moda) massivamente impiegato, come a voler mascherare un generale appannamento, questa volta non ha pagato il ricorso a sonorità evidentemente ritenute molto meno cool da chi tende a lasciarsi influenzare da simili dettagli, nonostante il materiale a disposizione fosse generalmente migliore. Gli arrangiamenti sono tra i più ricchi e sfarzosi dell'intero repertorio Magnetic Fields, fin troppo forse. Ma le qualità migliori di Stephin lavorano tutte per rendere il più trascurabile possibile questa tendenza al ridondante. La scrittura pop del cantante di Boston è in forma smagliante, probabilmente la migliore da dieci anni a questa parte, e diverse perle easy listening lasciano chiaramente il segno. Di per contro anche queste nuove canzoni tendono a risentire della pesante infelicità del perfezionista che le ha scritte, del suo schermo di inguaribile decadente che maschera e raffredda la vitalità dei sentimenti. Nelle intenzioni di Merritt 'Realism' e 'Distortion' dovevano offrirsi all'ascoltatore come facce contrapposte di una stessa medaglia, il vero ed il falso applicati alla superficie sonora, ma è abbastanza chiaro che entrambe le opere hanno finito col tradire un senso di finzione evidente. Là l'artificio era il vestito posticcio riservato senza alcuna distinzione a tutti i brani, snaturandoli anziché nobilitarli con i (fin troppo evidenti) richiami a Jesus & Mary Chain e affini. Qui la falsificazione opera in termini più sottili ma non meno invasivi, coinvolgendo tanto le parti vocali quanto l'insistito cortocircuito tra ampollosità sonora e crudezza dei testi, affogando la pretesa di veridicità in una diffusa atmosfera fiabesca che è fuori del tempo come poche altre cose. Non che questo non lasci spazio a risvolti intriganti, anzi, di certi passaggi e della loro artificiosità ci si può innamorare, sono il primo a riconoscerlo e a rivendicarlo. Ma il velo della maniera, inesorabile e limitante, resta un elemento con cui Merritt e i suoi aficionados devono per forza fare i conti. Ancora una volta dunque molta qualità viziata in partenza, l'eccellente mestiere di creatore, paroliere ed arrangiatore, reso in parte vano dal bisogno di lasciare ancora troppo campo al fantasma della propria mania. Di fatto, un altro buon disco ed insieme un'altra occasione mancata.  

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