Leonard Cohen

Il Gioco Preferito                                           _Letture

       

‘The Favourite Game’, si diceva. Le mie aspettative, nell’affrontarlo con le ombre della delusione di ‘Beautiful Losers’ ancora ben visibili sullo sfondo, non erano proprio tra le più alte. Trovandomi al mare ad agosto, senza tempi rigidamente scanditi per la lettura, forse anche la soglia delle pretese può essersi abbassata, forse c’é stato meno impegno “programmatico” da parte mia e mi sono limitato a dedicare a questo libro i ritagli tra un bagno e l’altro, in convivenza forzata con le penniche pomeridiane e l’ascolto di qualche disco nuovo. L’approccio è stato tuttavia così coinvolgente che il romanzo l’ho fatto fuori in appena tre giorni, sedute lunghe, rinunciando del tutto ai sonni oziosi e alla musica. ‘Il Gioco Preferito’ è esattamente il libro che mi aspettavo di leggere da questo autore, il ponte perfetto tra il Cohen poeta degli anni in cui venne concepito e quello cantautore che sarebbe nato soltanto un lustro più tardi, destinato ad imporsi immediatamente silenziando per sempre il romanziere. Prosa lirica ma densa, significante al massimo, con un peso atomico del tutto preminente. Ma anche un romanzo di formazione tutt’altro che verboso, anzi, estremamente evocativo, intelligente, acre e commovente. Questo all’inizio, nelle pagine dedicate all’infanzia del protagonista autobiografico. Poi il racconto svolta, accelera per frenare bruscamente, dando l’impressione di non poter arrivare in porto. Lo stile resta quello, le vicende si congelano, ma il finale sa giustificare la stasi e la maggior concettualità di una seconda parte matura, più dolorosa. A conti fatti poteva sembrare opera sufficiente a fare da preludio alla carriera di folksinger per questo grande canadese, dicendo cose non banali sulla figura dell’artista (Breavman è poeta ma anche moderno chansonnier) e trattando degli stessi argomenti delle future canzoni con spunti sempre interessanti, con un’inquietudine che rimane ben impressa. Appare allora assolutamente fuorviante, ed in fondo avulso da una materia assai coerente come questa, il romanzo che Cohen avrebbe pubblicato soltanto tre anni dopo, infettato dalle pose dei cattivi maestri della Beat Generation: un corpo estraneo ‘Beautiful Losers’, non disprezzabile ma indubbiamente meno personale di questo esordio e dei primi dischi. Forse lo stesso Leonard fu il primo a non sentirlo come qualcosa di proprio: il fatto di aver poi abbandonato la strada della prosa dovrebbe essere un segnale inconfutabile. Oppure, più semplicemente, a differenza di Lawrence Breavman aveva finalmente scelto cosa avrebbe fatto nella vita. Chi ama il Cohen cantautore può legittimamente gioire della scelta. Certo ‘The Favourite Game’, caso del tutto unico, estemporaneo, rimane la promessa di uno scrittore con i fiocchi.

Solo un altro (grande) romanzo di formazione.
La rivoluzione culturale e sessuale dei primi anni sessanta negli occhi e nel cuore di Lawrence Breaman, giovane di un’agiata e rispettata famiglia ebrea in una Montreal pronta a ridestarsi dopo la guerra, come l’onnipresente neve canadese destinata a sciogliersi con l’arrivo del primo caldo portando via con sé le tracce e la meraviglia del passato. Letteralmente impregnato di umori autobiografici, ‘The Favourite Game’ è il ritratto dell’artista-Cohen da giovane, la cronaca asciutta ma frastagliata di una moderna educazione sentimentale destinata ad arenarsi senza sbocchi nel livido narcisismo di un protagonista memorabile, creativo autodidatta, poeta calcolatore, acerbo folksinger di sostanza e venditore di struggimenti per un mondo che ama lasciarsi “beffare da una disciplinata malinconia”. Nel romanzo si affastellano epifanie e ricordi d’infanzia congelati in una mitologia dorata (la prima parte è un autentico capolavoro), cinismo spiccio, amicizia, classismo, costume, considerazioni in ordine sparso su grazia, politica, sesso e religione, oltre ad una ricchissima galleria di amori: lirici, claustrofobici, passeggeri, indimenticabili, di poco conto, infedeli, idilliaci, dolorosi, cristallizzati indelebilmente nella memoria. Fissate da un punto di vista fedele ma in costante evoluzione, le vicissitudini della vita di Breavman si fondono con i tasselli di una Montreal idealizzata nel suo immobilismo dando vita ad un mosaico policromo, semplice, avvincente, il cui cuore pulsante è la fuga irrisolta del suo alter ego, dapprima in fraterna condivisione con l’insostituibile spalla Kranz, quindi nella solitudine di chi ha rinunciato ad ogni appartenenza, abbracciando senza ripudiarla solo la propria città.
Ancora non illuminato dalle seduzioni della sua chitarra, ancora non condizionato dagli spifferi beatnik e dall’ormai prossimo tourbillon culturale, Cohen è straordinariamente moderno, efficace e sincero nel raccontare attraverso una prosa lirica ed agevole un antieroe che sin quasi alla fine coincide con noi – pregi e debolezze – in un altro tempo e in un altro luogo. Specie nelle prime pagine la sua visionarietà è particolarmente felice e trattenuta, ben lontana dagli eccessi pindarici e dalle surreali ossessioni del romanzo seguente, ‘Beautiful Losers’, di rottura ma sostanzialmente fuori fuoco. Qui invece l’equilibrio di realismo e suggestioni poetiche, concretezza e rinnovato spirito romantico si mantiene costantemente sul crinale di una scrittura stimolante e coinvolgente, che non simula le emozioni ma evita nel contempo di piegarsi alla loro dittatura. Sentimentale, non sentimentalista, Cohen confeziona in grandissimo anticipo sui tempi un elogio convinto della giovinezza per gli imminenti anni del disincanto a tutto campo. E fa centro, evitando di accomodare il lettore con il buonismo inutile o le consolazioni di comodo. Da leggere avidamente.

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Beautiful Losers                                            _Letture

       

Erano diversi anni che volevo cimentarmi con il Cohen romanziere. La familiarità con i suoi dischi e con alcune delle sue poesie, oltre alle critiche incoraggianti di ‘Beautiful Losers’ e dell’esordio ‘Il Gioco Preferito’, hanno solleticato in me quella certa curiosità pur senza spingermi mai veramente ad una verifica. Incrociati distrattamente in biblioteca, ad agosto li ho recuperati entrambi portandoli con me in viaggio e fronteggiandoli poi abbastanza rapidamente. Un po’ più lenta, ad essere sinceri, la lettura di questo testo, scritto per ultimo dal cantautore di Montreal ma affrontato da me – chissà poi perché – per primo. Promettente da principio, ma proprio soltanto le prime cinquanta pagine, poi via via più difficoltoso sino a costringermi ad un certo sforzo finale per non vanificare le impressioni discrete dei primi momenti. Cohen è qui originale ed insieme prossimo a certi stereotipi beatnik, colpisce sul piano formale per la disinvoltura caotica dell’intreccio ma di emozioni ne trasmette davvero poche. Come nel primo romanzo la sua prosa è lirica. In ‘Beautiful Losers’ è anche più ardita, sperimentale, cruda, splendidamente sorretta dal poeta che alberga in lui ma senza evitare al libro nel suo insieme di avvolgersi in una spirale fredda, ripetitiva ed anche noiosetta. Si conservano alcune buone immagini, si salva qualche passaggio lucido ed incisivo, ma al di là di questo il romanzo non entusiasma come avevo sperato, tutt’altro. Certo Cohen ci sapeva fare anche con la scrittura. Ne ho avuto conferma soprattutto quando è stata la volta di ‘The Favourite Game’. Ne parlerò a breve.

Un lungo, discontinuo e febbrile stream of consciousness infarcito di ricordi dolorosi, provocazioni paranoiche, fantasie misticheggianti ed apocalittici deliri da droghe a basso costo, con al centro l’oscuro triangolo erotico tra il narratore, la moglie Edith ed il misterioso amico d’infanzia F, sviscerato senza filtri ed intrecciato con ardita libertà alle invocazioni alla santa irochese Catherine Tekakwitha. I piani logici e temporali sono presto sacrificati all’urgenza di un’estetica anarchica, bizzosa, grondante e sfuggente, con le ossessioni della sfera sessuale a dominare le prospettive di tutti i protagonisti legandole inesorabilmente. Citando l’autore in una delle lapidarie massime seminate nel testo, “una dieta a base di paradossi fa ingrassare l’ironista ma non il salmista”: è vero anche per gli eccessi visionari di questo secondo ed ultimo romanzo del grande cantautore canadese, così caustici, insinceri e freddi nella loro crudezza da disturbare.
La chiarezza narrativa rimane un’illusione costruita nelle primissime pagine – quando al lettore vengono forniti i pochi indizi sostanziali (la solitudine del protagonista, la scomparsa dell’influente compagno, il suicidio della moglie) – ed in seguito sconfessata dalle sistematiche discontinuità nel racconto, dai frequenti resoconti sulla vita della santa, dai salti schizofrenici tra presente e passato, immaginazione allucinata e ricordo dettagliato, che trasformano la storia in un torbido e agitato oceano senza approdi, denso di simbolismi e volutamente inospitale. La seconda parte sembra voler rovesciare il disperato solipsismo della prima facendo luce sui tanti nodi oscuri della vicenda, ma finisce con il proporsi come lo specchio deformante della grottesca realtà già evocata in precedenza: poche nuove informazioni sulla criptica figura di F (da orfano carismatico a parlamentare nazionalista e bombarolo internato) ed il completamento delle cronache sulla vita della vergine indiana, affogati in un ridondante tripudio di inserti incoerenti e alla lunga stucchevoli. A parte i frangenti in cui l’irriverenza dello sberleffo fa centro, elevando nell’ironia surrealista una prospettiva ermetica alquanto ostica, ‘Beautiful Losers’ si conferma un lavoro sullo stile interessante ma assai difficile da assimilare e digerire, ripetitivo e mai davvero coivolgente. Ci sono passaggi, specie quelli più convenzionalmente influenzati dalla letteratura beatnik, in cui Cohen paga qualcosa in termini di ingenuità o di eccessiva pesantezza, ma questo non nega al libro – sul piano formale – un carattere di stupefacente modernità ed una apprezzabile tenuta nel tempo. A salvare questo anomalo romanzo dalle secche dell’anonimato dei senza infamia e senza lode è comunque soprattutto l’eccelsa qualità di Cohen come paroliere, davvero illuminante nel plasmare immagini straordinariamente poetiche quasi dal nulla, senza scivolare nell’intellettualismo sterile o fumoso che una simile materia potrebbe facilmente innescare.

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