Between the Times and the Tides

       

Chissà che fine faranno i Sonic Youth? Ogni tanto capita di pensarci, segno che la loro assenza pesa. Quanto durerà quella “end for a while” menzionata da Lee Ranaldo nel laconico comunicato uscito ormai quasi due anni fa, a rimorchio dell’annuncio sulla separazione dei coniugi Moore dopo ventisette anni di matrimonio. Sembravano la coppia perfetta Kim e Thurston, inossidabili e inseparabili nella vita e nell’arte, ché parlare di lavoro sembra brutto. E’ stato bello crederci, più che altro, e non si può negare l’effetto doccia fredda per chi seguiva la band con affetto da tanti anni. Nell’attesa di sapere cosa ne sarà di un gruppo comunque importante, anche negli ultimi lustri di buon mestiere e “contenimento”, con l’odiosa parola hiatus che suona beffarda mentre le pagine wikipedia ancora parlano di loro al presente, non resta che cercare tutto il buono possibile nelle avventure soliste dei quattro alfieri della (neanche più troppo) gioventù sonica. Mentre della Gordon – che tra un paio di settimane compirà (ma ci crede qualcuno?) sessant’anni –  sembrano essersi perse le tracce, anche se è plausibile che non sia proprio la classica separata inconsolabile quanto piuttosto la stessa mattacchiona di sempre, persa in chissà quale fumoso e inascoltabile progetto sperimentale, gli altri tre hanno tutti battuto qualche colpo. Lo ha da poco fatto Thurston Moore, al comando di una nuova formazione chiamata Chelsea Light Moving. Esperienza abbastanza deludente, per quanto mi riguarda. Al di là della stima sconfinata che provo per lui, resto perplesso da certe sue recenti collaborazioni. L’idea di proporre una versione unplugged della band regina, per giunta nella sua incarnazione più movimentata e spigolosa, non mi aveva esattamente elettrizzato negli episodi di tale fatta sui suoi ultimi lavori in solitaria, forse perché non stravedo per la compagnia di giro da cui si fa affiancare negli ultimi tempi (non mi piace ad esempio Samara Lubelski come non mi piacciono i Charalambides e l’influenza free folk esercitata sul Nostro già da un po’). Un disco insomma senza infamia e senza lode questo suo esordio eponimo, indeciso tra intarsi acustici fiacchi, rumorismo senza slanci e ipotesi giovanilistiche assolutamente fuori luogo. Veramente troppo poco considerando che è del caschetto d’oro della più importante squadriglia rock alternativa che stiamo parlando. Il batterista Steve Shelley ha continuato a operare con più profitto restando abbastanza nell’ombra, producendo band di nicchia, facendo casino pro tempore nei Disappears (assieme ai quali ha realizzato prima di chiamarsi fuori un album quantomeno interessante , ‘Pre Language’, del 2012) e regalando ospitate – tra gli altri – a M. Ward e al compagno di squadra Lee Ranaldo. E proprio il vecchio zio Lee sembra quello che sin qui si è meglio comportato. Uscito per Matador nel marzo dello scorso anno, il suo primo disco solista veramente accessibile (ce ne sarebbe infatti un’altra decina, dal 1987 ad oggi, ma sono poco pratico e faccio che glissare elegantemente) è stata una piacevole sorpresa. “Sorpresa”, oddio, non pare nemmeno il termine più appropriato. Diciamo un buon lavoro per i fan in un periodo di evidente spaesamento. Una risposta concreta, mitigante, sugli stessi standard rotondi e melodici dei Sonic Youth rassicuranti dell’ultimo decennio e mezzo (ma facciamo due, visti gli echi tangibili di ‘Goo’ e ‘Dirty’). Tutt’altro che un’opera arrabbiata o di rottura, quindi, bensì una raccolta di canzoni che forse Lee voleva scrivere e registrare da un sacco di tempo ma evitava di liberare, temendo etichettature poco gentili negli scaffali pop, quasi fosse motivo di vergogna. Che poi a essere onesti questo è ancora soprattutto un buon disco rock, di quelli alternative che si facevano una volta, senza suffissi inutili e senza estremismi d’accatto, buoni persino per quelle radio un minimo coraggiose che avessero pensato di accostarcisi. La presenza sostanziale dell’immarcescibile Nels Cline, l’uomo che ha rivoluzionato il suono dei Wilco aprendolo alla massima gratificazione cui gli ascoltatori potessero aspirare, dice già molto delle coordinate di un disco limpido e godibilissimo. Lo rispolvero per il blog ad un anno abbondante dalla recensione su Monthlymusic e a qualche mese da un lusinghiero piazzamento nella mia classifica di fine anno. Un passaggio veloce sull’Ipod e, beh, non mi rimangio nulla. Lunga a vita a Ranaldo allora, almeno a lui.

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