Il John Mayer dell’indie

 

Nella miriade di album usciti il mese scorso mi sembra giusto menzionare l’ultima fatica di Langhorne Slim. Uso il termine “fatica” come automatismo, anche perché l’ascolto lascia intendere che registrare queste nuove canzoni non sia stato in realtà un processo particolarmente difficoltoso per il giovane cantautore americano. Di sicuro non lo sarà per l’ascoltatore, visto che ‘Be Set Free’ è senza dubbio il disco più user friendly mai pubblicato con quella ragione sociale. Far sembrare semplice anche quel che semplice non è: questa la ricetta di Sean Scolnick, classe 1980 (la stessa di Conor Oberst), da Langhorne, Pennsylvania. Le biografie lo raccontano come un tipo tosto, partito presto da casa per far fortuna a New York con la sua musica schietta e multiforme. Fortuna che il folksinger sembrava aver trovato con la V2, la major che lo mise sotto contratto per un mini e poi si sbarazzò di lui senza troppi complimenti, soprattutto senza un valido perché. Sean alla realtà indipendente si è abituato presto, è la veste che gli calza a pennello. Nel 2004 l’esordio con l’EP ‘The Electric Love Letter’ e poi a ruota ‘When The Sun’s Gone Down’, primo vero LP dopo un paio di acerbi lavori autoprodotti parecchio tempo prima. Quindi il tourbillon nel passaggio dalla piccola Narnack alla V2, lo schiaffo ed il repentino acquartieramento presso l’altrettanto modesta Kemado. Chi già ha sentito parlare di Langhorne Slim sarà sorpreso nel sapere che non è dell’omonimo e brillante album del 2008 che sto parlando ma proprio di una nuova raccolta di inediti, arrivata inattesa ad un annetto scarso dalla precedente. Cinque anni fa Sean si segnalò agli addetti ai lavori con un disco assai coeso di folk scarno, facendo cadere più di un critico nella trappola di uno sbrigativo apparentamento con i barbuti alfieri della New Weird America, all’epoca tanto di moda. L’amore per Dylan non poteva giustificare da solo una classificazione tanto riduttiva o l’accostamento con il Devendra di turno. A smentire tutti ha pensato lo stesso Scolnick coadiuvato da un produttore navigatissimo come Brian Deck, con il bellissimo album uscito l’anno passato, autentico caleidoscopio pop con convincenti ramificazioni nei più disparati ambiti della musica di tradizione americana, dal country al blues, dal folk gentile di ‘Worries’ (suo brano più celebre) al roots rock buono pure per le FM, volendo. Nessuno poteva immaginarsi un seguito a così stretto giro di posta, né una prova ancora soddisfacente per quanto in parte segnata da un cambio di rotta rilevante. ‘Be Set Free’ non mostra gli stessi guizzi del suo predecessore ma può vantare in compenso una maggior omogeneità d’insieme ed una scrittura estremamente sicura, a tratti anche smaliziata, che lascia intuire un’ulteriore crescita per il cantante ormai prossimo ai trenta. Romanticismo e concretezza: affidandosi alle buone vibrazioni di ‘Back To The Wild’, al duetto ispirato di ‘Lands of Dreams’, allo svolgimento sicuro ed elegante di ‘Blow Your Mind’ o ‘Leaving My Love’ si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un professionista serio che inizia a maneggiare con destrezza trucchi e trovate del proprio repertorio.
Non inventa nulla Langhorne Slim ma conferma di essere autore e musicista di solidissima formazione, capace di scegliere con acume i propri collaboratori. Ad accompagnarlo ci sono ancora una volta i War Eagles, tre fidatissimi fiancheggiatori tra i quali spicca il nome di Malachi De Lorenzo, batterista figlio d’arte del leggendario Victor (Violent Femmes). Preziosa la produzione affidata al sempre affidabile Chris Funk, chitarrista dei Decemberists quest’anno già con i Minus 5 e con Laura Veirs: ideale nel conferire ai nuovi brani di Sean quell’impasto pop-rock garbato ma compatto che ha tutto il sapore di una prima effettiva maturità. ‘For A Little While’ si offre come spavalda ostentazione di sicurezza nei propri mezzi e di una generale fluidità, pregi che finora erano stati forse letti solo in trasparenza, nell’enfasi scaltra di certe sue ballate. Alle prese con standard più convenzionali – in questo caso come nel pezzo di bravura che da il titolo all’album – Langhorne Slim non lascia indifferenti e se la cava egregiamente, sfoderando belle sfumature notturne ed una verve da crooner sofisticato. Stessi risultati nella dimensione raccolta, con qualche passaggio forse un tantino scontato (‘Sunday By The Sea’, puzza di filler) ma anche un’indubbia disinvoltura nel centrare il bersaglio con la semplicità della proposta, senza rinunciare ad una veste sobriamente classica (esemplare ‘I Love You, But Goodbye’). Negli episodi più riusciti di ‘Be Set Free’, Sean regala la migliore conferma del proprio talento, della sua natura di cantante di razza bravissimo a non andare mai sopra le righe. Il pop-rock di ‘Say Yes’ lo dice chiaramente, senza lazzi ma con le sottili irregolarità che rendono il suo cantato interessante al di là dello svolgimento brillante del brano, e con una genuina propensione all’easy listening che fa di lui una sorta di Ron Sexsmith più accessibile e meno malinconico. In ‘So Glad That I’m Coming Home’ è proprio la sua prova vocale sontuosa, leonina, con sapiente alternanza tra il registro sofferto e quello scanzonato, a compensare i limiti di un’impostazione più stanca e tradizionale. Forte di questa carta vincente, Scolnick si conferma un interprete tutto cuore, caldo ed appassionato ma con un suo equilibrio: un’anima soul candida e senza fastidiose ambizioni intellettualistiche che ama spaziare dal bluegrass pimpante (‘Boots Boy’, un finale frizzante) al gospel bianco (‘Cinderella’) ai Wilco coloratissimi di dieci anni fa (‘Yer Wrong’, quasi una ‘Can’t Stand It’ depurata delle sue esagerazioni pop). Alla fine della fiera un dubbio rimane. Fin qui si sarebbe detto che Langhorne Slim era un ideale John Mayer per la scena indipendente. Non sarà piuttosto quest’ultimo, ad essere il perfetto Langhorne Slim mainstream?
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