Il suono del cuore che si spezza

 

Assurde certe cose che ascolto oggi e mi piacciono subito alla follia. Non assurde di per sé, ma messe a confronto con alcuni dischi che ho consumato in un passato non proprio remoto. Mi avessero anticipato che arrivato a questo punto sarei andato (quasi) in brodo di giuggiole per un piccolo album gospel-folk (ehh?), contaminato da soul, jazz e country, avrei chiesto dove poter firmare per l’eutanasia culturale al compimento del trentesimo anno di vita, e pace. In effetti i gusti cambiano con l’andar del tempo, ultimamente mi rendo conto di quanto sia vera questa cosa. ‘Oh Maria’ di Jon-Rae Fletcher ha avuto la relativa fortuna di venir fuori per il sottoscritto al momento giusto, data la mia cresciuta tolleranza nei confronti di tutto il genere folk e, in particolare, delle sue propaggini più meditative e meno scartavetrate. Certo l’urgenza dell’autore per questo suo nuovo lavoro non era legata in alcun modo al sottoscritto bensì al proprio vissuto di songwriter, segnato recentemente da spostamenti geografici, fratture a livello sentimentale e analoghe rotture nella sfera lavorativa (la sua band, The Rivers, si è sciolta da pochissimo). Tuttavia è un disco che calza a pennello per quelli come me, oggi. Indipendentemente dalle astrazioni e dalle sovrastrutture passionali conferite dal fruitore entusiasta, questo di Jon-Rae Fletcher è un grandissimo album, non ci sono dubbi.

 

Sin dall’inizio, Fletcher punta a chiarire orientamenti e prospettive sonore rinunciando agli orpelli più ricercati, proponendo senza equivoci la propria musica come uno stato emotivo più che come il risultato di un freddo lavoro di scrittura. Non si fa fatica a riconoscere le parentele con artisti a lui molto vicini nel tempo e nello spazio (quindi i vari Barzin, Great Lake Swimmers, ecc…) ma l’identificazione è solo il punto di partenza di un viaggio emozionante. L’apertura di ‘Maria’ porta in tavola tutti gli ingredienti che troveremo in seguito quasi sublimati da un uso sempre più caldo e appassionato: una chitarra acustica ordinaria e limitata quasi unicamente alla dimensione ritmica; un’elettrica agra, che lavora in sottofondo e con parsimonia; un pianoforte brillante ma che sembra voler giocare a nascondino; una tromba che regala di continuo piccoli acquerelli umorali; una voce che inizia in sordina e può ricordare il cantante degli Interpol prestato al folk. Il sapore è quello di uno spiritual ben a fuoco, senza cali di intensità. ‘City Lights’ riprende lo schema aggiungendo un elemento: la qualità dell’interprete. Jon-Rae è romantico, vellutato, un folksinger vecchio stampo che sa donare enfasi alla grazia e coinvolgere con parti corali assai curate pur senza mai forzare i toni, anzi, restando incisivo nella pacatezza. ‘The Story’ e ‘No Dancing’ raccontano un altro pezzo di lui. Il primo è un rapido passaggio country, una parentesi eseguita in maniera convincente e con belle sfumature di chitarra. La seconda si muove elegiaca e delicata su analoghi terreni, limpida a livello vocale, precisa sul piano musicale (preziosissimo il pianoforte discreto) e tutt’altro che caricaturale.

 

Questo sarebbe già molto. Abbastanza per inquadrare un buon disco in termini di equilibrio dell’esecuzione. Eppure con ‘My Hands’ l’album prende decisamente un’altra direzione facendosi più imprevedibile, leggero ed entusiasmante. E’ un pezzo trascinante, pianoforte e tromba in primissimo piano, con una voce che inizia ad ostentare sicurezza e carattere ad ogni frangente. Non c’è spocchia, prevale la disinvoltura nel proporre qualcosa di tradizionale in modo divertente. Non molti sono capaci di fare qualcosa di simile con uguale naturalezza. A lasciare veramente meravigliati è il fatto che quest’ottimo passaggio sia  subito incalzato da un terzetto di brani semplicemente splendidi, più umbratili ma non meno intensi ed emozionanti. ‘Big Talker’, ‘Downtown’ e ‘The Sound’ restano subito impresse, anche non trattandosi in realtà di pur sapidi bozzetti easy listening. Grandi canzoni, toccanti e poco elaborate, franche, sincere, palpitanti. La seconda, forse la più convincente di tutto il disco, rappresenta benissimo il suo autore: cantata con anima, fermezza, classe e sentimento, è assolutamente strepitosa. Le parole migliori sono affidate però alla terza, autentico climax di quello che non è sbagliato definire un concept album sulla fine di un amore: ‘This is the sound, the sound of the heart breaking in two’.

 

Esperienze dolorose esorcizzate per ricominciare, in un miracolo di genuina emotività che colpisce nel segno con un materiale che altri renderebbero banalissimo, e che Jon-Rae riesce invece a trasformare in un magico stream of consciousness, la sua confessione per noi. Ancora due tracce e non ci si ferma. In questa seconda parte Fletcher sembra aver lanciato un incantesimo sull’ascoltatore per tenere alta la soglia dello stupore. ‘The Hill’ conferma il crescendo emozionale dell’album verso la risoluzione della vicenda cantata, raggiungendo forse l’acmè dell’intensità e nascondendo tutta la potenza di cui il cantautore è capace dietro una veste raccolta: l’ennesima dimostrazione di come ‘Oh Maria’ sia molto meno scontato di quanto potrebbe far credere e sappia scaldare il cuore di chi ne scopre un poco per volta il fascino, prendendolo per mano e portandolo via. La title track arriva dopo trentacinque minuti a chiudere il cerchio. La vampa elettrica è solo un bagliore che brucia sullo sfondo ed anima in profondità, rischiarandola, questa magnifica reprise. Senza alcun timore di venire smentiti, uno dei migliori dischi folk dell’anno.

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