Il Caso Jane Eyre _Letture

       

Un libro carino, questo con cui Jasper Fforde ha dato il via alla mini-saga di Thursday Next. L’aggettivo è quel che è, ma si potrebbe dire la stessa cosa del romanzo dopo un finale troppo accomodante e zuccheroso. Peccato, perché tra le pieghe paradossali di un’operina vivace e opportunamente leggera, l’amore per la letteratura (inglese più che altro) si rivela sincero e fa simpatia. Non so molto di Fforde. Mi sembra d’aver inteso che ha scritto anche di draghi, e forse è (tristemente) più noto per quello che per i quattro testi della serie in questione: poco male per lui. Non ho letto “Persi in un buon libro”, “Il pozzo delle trame perdute” e “C’è del marcio” (titoli che promettono benissimo, devo dire) ma l’idea che mi sono fatto è che si tratti di un autore sufficientemente colto e smaliziato che potrebbe piacere (o quantomeno non spiacere) a molti. Penalizzato come detto dal buonismo sfoderato al momento di tirare le somme, ammetto che, almeno per il momento e pur avendo gli altri titoli in casa, non sono intenzionato a lanciarmi in ulteriori assaggi. Magari farei bene o forse no, il diabete potrebbe farmi secco la prossima volta…

E’ un 1985 davvero strano quello prospettato da Jasper Fforde tra le righe de “Il Caso Jane Eyre”: I Beatles non si sono ancora sciolti, la guerra di Crimea è giunta al suo centotrentunesimo anno (tra stanche tiritere e qualche carneficina), i kit di clonazione sono in vendita in tutti i supermercati, i dodo rigenerati sono comuni animali domestici (nemmeno troppo stupidi), il patrimonio letterario è considerato la massima ricchezza per un’umanità ben più affamata di cultura rispetto a quella miserabile cui siamo abituati, e… si viaggia nel tempo. Lo fanno, quantomeno, quelli dell’osannatissimo (e molto ben remunerato) reparto della Cronoguardia, capaci di “fermare gli orologi e congelare gli istanti”, al fine di preservare il continuum spazio-temporale dai pericolosi buchi neri che tendono a manifestarsi all’improvviso, di tanto in tanto. E’ proprio figlia di un bizzarro colonnello della Cronoguardia (ormai disertore) la protagonista del romanzo, Thursday Next, detective letteraria in un reparto non esattamente tra i più in vista nelle cosiddette Operazioni Speciali, l’Op.27: il suo è un incarico relativamente noioso da quando tutti i manoscritti e gli originali di testi e autori letterari sono conservati in condizioni di massima sicurezza. Le cose cambiano tuttavia non appena Acheron Hades, criminale diabolico sin nel nome, riesce con facilità irrisoria a impossessarsi del Martin Chuzzlewit di Dickens, lasciando dietro di sé una discreta scia di sangue (e un considerevole alone di mistero), e un reparto di primo livello delle Op.S. decide di affidarsi proprio a Thursday – ex allieva del ricercato – per braccarlo.

Chiusasi nel sangue una fallimentare missione di pedinamento che l’ha vista soccombere ma non perire, Thursday opta a sorpresa per un declassamento e il ritorno in servizio nella natia Swindon, convinta dal proprio intuito che il famigerato Hades non sia morto come tutti ritengono (a cominciare dai cronisti dell’emittente radiotelevisiva da pensiero unico, TeleRospo) e operi proprio in tutta tranquillità nella cittadina inglese. Per lei si tratta di un brusco salto nel passato, tra un ex-fidanzato a lungo ritenuto responsabile di colpe non sue, il lutto mai veramente elaborato per la perdita del fratello Anton, caduto in Crimea, e i rapporti affettuosi ma controversi con gli altri familiari, dal geniale zio Mycroft all’altro fratello, Joffy, ministro del culto della non meglio precisata Divinità globale Standard. Mentre i propositi criminali di Hades e dei suoi bislacchi accoliti (una compagnia da fumetto dei più truci) entrano nel vivo, il lettore è coinvolto nell’autentico tour de force di una protagonista egocentrica ma fervidissima, lacerata dai fantasmi di un passato doloroso, combattuta da nemici di cui in qualche caso, almeno teoricamente, dovrebbe fidarsi (memorabile il personaggio di Schitt, della fantomatica Corporation Goliath, l’anima nera di tutto ciò che è multinazionale e insieme servizio segreto), intristita – lei reduce pacifista – dal precipitare della situazione sul fronte russo e costretta per affetto, vocazione o senso del dovere, a salvare tutto e tutti: parenti rapiti per le loro fondamentali invenzioni (cruciale il portale della prosa, opera dell’anziano congiunto), piccoli colleghi burocrati privi del suo talento e personaggi letterari minacciati di morte nella loro stessa dimensione privilegiata di creazioni della fantasia.

Tra salti e paradossi temporali, vampiri e giochi di potere degni (questi ultimi) di un romanzo di Ian Fleming, capricci continui nell’osmosi tra la realtà e la finzione letteraria, oltre all’ininterrotto duello a colpi di genio con il cattivissimo antagonista (macchietti stico ma in fondo funzionale al gioco proposto da Fforde), il ritmo della narrazione si mantiene su livelli a dir poco scoppiettanti, stimoli d’ogni sorta si susseguono con vivacità indiavolata e l’immaginazione ruspante non sembra mai sul punto di abdicare, come l’ironia esercitata a tutto campo. Se le trovate non mancano al pari dei passaggi più che godibili (il teatro in cui viene rappresentato soltanto il Riccardo III grazie al contributo attivo degli affezionati spettatori, il convegno di tutti coloro che hanno deciso di cambiare il proprio cognome in Milton), spesso si fa fatica a star dietro alle sensazionali effrazioni fantasy che il romanzo esibisce con apparente indifferenza, o si è provati dall’incrociarsi di meccanismi logici laboriosi (e talvolta esasperanti). Nonostante questo inconveniente che rientra nella regola del gioco, l’avventura si conferma, per chiunque le si presti, agile, leggera, divertente. E anche se Jane Eyre e il suo manoscritto entrano in ballo solo a tre quarti del testo, non si può certo dire che ci si arrivi tediati dalla noia: sono molto preziose le introduzioni da finte interviste o finte biografie che aiutano il lettore a non perdere il filo all’inizio di ogni capitolo e funzionano egregiamente anche come impeccabili teaser a breve termine.

Sono poi stimolanti gli zuccherini qua e là disseminati dall’autore, come quello relativo all’enigma su chi fosse il vero autore delle opere di Shakespeare (quest’ultimo, come spirito, padrino o ideale, è neanche troppo velatamente il convitato di pietra del romanzo), o gli innumerevoli riferimenti a personaggi, poeti e romanzieri della letteratura inglese, non sempre celeberrimi: l’amore per la narrativa appare in tal senso un motore di sconfinato entusiasmo che il narratore sembra lasciare in dote alla sua eroina affinché questa ne riservi ai suoi lettori una dose non meno apprezzabile. E’ una qualità curiosa e genuina che non può che fare simpatia. Peccato solo per il finale, che provvede a far quadrare poi tutti i conti con un happy end tanto iperbolico quanto stucchevole, vanificando molto del buono fatto in precedenza nella certosina fase di preparazione e rendendo la ritrovata realtà ancor più zuccherosa e indigesta della già edulcoratissima parentesi immaginifica. Prendere o lasciare, comunque: la chiusura buonista è il prezzo da pagare per un’esperienza di lettura a ridotto coefficiente di impegno ma a livelli di gratificazione sempre lusinghieri. Risultato discreto insomma, confidando da profani che nei tre successivi episodi (“Persi in un buon libro”, “Il pozzo delle trame perdute” e “C’è del marcio”) Jasper Fforde sia stato in grado di sfoderare un po’ più di cattiveria, per non svilire nella melassa tutte le sue favolose intuizioni oltre a un patrimonio debordante di citazioni anche colte.

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