About a (Ball)boy

Allora, è uscito da un po’ questo benedetto nuovo album dei Ballboy e, come da copione, nessuno se lo è filato. Non che si dovesse celebrare una band che ha da sempre scelto di essere schiva sino all’inverosimile, ma almeno che qualcuno ne parlasse: Pitchfork e simili non li hanno mai cagati, da noi nemmeno i fanatici tuttologi di or li hanno degnati di una briciola di attenzione, niente.

Forse sono io a considerarli oltre misura, ma i Ballboy mi sembrano un gruppo importante, quasi unico nel suo genere (ovvero figli dei Belle&Sebastian ma con un proprio percorso stilistico ben definito e, cosa più importante, chiaramente distinto dal modello). Non è nulla di stratosferico ‘I Worked On The Ships’, non ha lo sfacciato menefreghismo dei primi due dischi di Gordon McIntyre, ‘Guide For The Daylight Hours’ e ‘Club Anthems’, non ha quella veste elettrica, quel sapore tra il cinico e il nichilista che te li faceva amare immediatamente. Sa anche un po’ meno di Smiths, purtroppo, anche se negli anfratti di queste pacatissime ballate si respira ancora una bella aria Morrisseyana. Però se si sono apprezzati quei dischi si apprezzerà anche questo che ne è quasi la naturale evoluzione.

Lo ascolto e capisco forse il perché di questa dimenticanza. Un disco così non può piacere, se ci fermiamo al gusto comune, all’idea imperante e banallissima di indie-rock. Non è affatto un album indie-rock, allora. Come potrebbe, quando raccoglie una manciata di canzoni à la ‘The Sash My Father Wore’ ma le colora con quel po’ di candore buono (ma non buonista), rallentandole magari, colmandole di un bell’incanto che le rende ora autunnali ora invernali. Tanto calore, calore di cantuccio mentre fuori c’è la brina, mentre fuori piove o la sera si perde nella foschia. Dentro si sta bene, al sicuro, in un ambiente confortevole che si ritrova uguale a come lo si era lasciato.

‘The Guide To The Short Wave Radio’ è il paradigma perfetto di una canzone dei Ballboy, umanissima e romantica. Poi la dolcezza mirabile di ‘Songs For Kylie’ e un po’ di sano ritorno alla scapigliatura, con ‘Picture Show’, ‘We Can Leap Buildings And Rivers, But Really We Just Wanna Fly’ e ‘Cicily’, un pezzo meravigliosamente croccante. L’ukulele di ‘Disney Ice Parade’, Quella sorta di ‘Avant Garde Music Revisited’ che porta l’assurdo titolo di “Gozzilla contro l’isola di Manhattan (con te e me da qualche parte nel mezzo)”  la scarna ‘Absent Friend’ e la malinconia rubata ai Tindersticks di ‘Empty Throat’ sono prove affidabili della discreta varietà offerta dall’album. Da applausi quel riassunto perfetto di una poetica che è ‘A Relatively Famous Victory’. Alla fine vi resteranno in testa le parole di quell’altra dolcissima canzone che rivendica e ripete all’infinito il proprio elogio dell’indipendenza: “You’re walking home / And you’re on your own / And your mobile phone / Has / No / News / At / All“.

 

 

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