New Raytheonport

         

Per quanto io non vada pazzo per le generalizzazioni, credo di poter affermare che quanto scritto a proposito di questa prima raccolta di canzoni a firma Greg Dalton, aka Gary War, possa valere a grandi linee per l’intero movimento chill-wave, almeno nella sua fase iniziale. Preparando il pezzo ho provato ad ascoltare anche brani di altri autori generalmente incasellati nella medesima scena, senza restarne chissà quanto impressionato, tutt’altro. Certa critica è andata in solluccheri per i vari Neon Indian o Memory Tapes, riuscendo nell’impresa di dare il peggio di sé con le etichette, arrivando a battezzare questa limitata corrente musicale con formule quanto meno ardite tipo “pop ipnagogico” o “gli-fi”. La moda è durata però assai meno del previsto, anche se sono convinto che gli avveduti scribacchini d’oltreoceano sapranno tuffarsi a pesce su qualcosa di simile ed inedito nei prossimi mesi. Mentre gli ultimi fortunati strascichi vengono regalati dal più recente Toro Y Moi, il discreto ‘Underneath The Pine’, e dal celebrato esordio dell’ennesimo micromessia, Ernest Greene aka Washed Out, il giocattolo probabilmente si è già inceppato e la noia comincia a contagiare anche i più frizzanti “integrati” di ieri. Venendo allo specifico di ‘New Raytheonport’ non credo ci sia nulla di sostanziale da aggiungere rispetto a quanto scritto nella recensione: a quasi due anni di distanza non mi è rimasto praticamente nulla. C’erano alcune buone intuizioni, sia chiaro, ma il fatto di averle sistematicamente deviate con espedienti stilistici sempre alquanto posticci credo abbia indebolito le canzoni anziché enfatizzarne i pregi. Come sempre quando si puntano tutte le fiches sulla forma più che sulla sostanza, il senso di artificio calcolato mi risulta alquanto indigesto. Tra noise e bassa fedeltà, paccottiglia sintetica ed astrazioni space, rancidume psych ed elettronica povera, resta il fascino pallido di qualche passaggio riuscito ma anche una generale impressione di elusiva fumisteria. E’ significativa anche la tentazione per una deriva sperimentale giocata sulle dilatazioni reiterate, come già negli Swans o nei Six Organs of Admittance, anche se all’avveduto Dalton manca il genio dei Gira e dei Chasny. Il risultato è un lavoro informe, sfuggente e volutamente contraddittorio, mai davvero brutto e mai davvero convincente. Un po’ come l’intero movimento, per quanto mi riguarda. Una scuola – se proprio ci vogliamo sforzare a definirla così – che forse arriverà a chiudere i battenti senza che io abbia avuto modo di capire cosa diavolo significa la parola “ipnagogico”.

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